Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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David Sackett: fuoriclasse per la squadra

Era un anno iniziato con i migliori auspici. Il 4 gennaio, le truppe ribelli guidate da Che Guevara e Camilo Cienfuegos entravano a La Avana e il 25 dello stesso mese Papa Giovanni annunciava il Concilio Vaticano Secondo. Il venticinquenne David Sackett – scomparso il 14 maggio all’età di 80 anni – era all’ultimo anno di Medicina alla University of Illinois quando fu affidato alle sue cure un adolescente malato di epatite. Dopo alcuni giorni di riposo a letto, il ragazzo iniziava a star meglio e avrebbe voluto alzarsi, ma il percorso di cura della malattia non prevedeva assolutamente questa possibilità. Evidentemente, qualcosa non doveva tornare nella mente del giovane studente: troppa la distanza tra il desiderio del malato e la risposta della medicina.

Un salto in biblioteca aprì la porta ad una soluzione diversa: David aveva avuto la fortuna di imbattersi in un articolo1 che, come prima firma, portava quella di Thomas Chalmers, uno dei clinici che maggiormente hanno lasciato il segno sul metodo della ricerca nel Novecento. A farla breve, non c’erano evidenze che il riposo giovasse: i medici più anziani del Reparto furono convinti e il ragazzo guarì senza alcun problema. Ricordando l’episodio, Sackett aggiunge con discrezione un inciso essenziale: «Convinsi i miei superiori a permettermi di scusarmi con il ragazzo».

Erano biblioteche fatte di carta, all’interno delle quali si cercava manualmente, con la pazienza necessaria a sfogliare gli indici delle annate delle riviste più conosciute. Dopo aver messo il naso in diversi trattati – senza cavare un ragno dal buco – David finì su quell’articolo, la lunga, dettagliata descrizione di uno studio controllato, condotto ed esposto con “elegante semplicità”2. «Although I failed to appreciate many of its methodological strategies and strengths at that time, it changed my career». Nasceva la evidence-based medicine...

«Arrivai alla conclusione – ha raccontato Sackett – che quattro errori condizionavano il modo con cui gli esperti utilizzavano ciò che osservavano nel paziente per decidere se una terapia funzionasse o meno». Quattro mancanze che compromettevano la capacità di mettere onestamente a confronto gli effetti dei diversi trattamenti.




I medici possono assegnare le nuove terapie ai malati che hanno una prognosi migliore. È una tentazione frequente e inconsapevole: per questo, le sperimentazioni controllate devono essere anche randomizzate.

I pazienti che seguono maggiormente le prescrizioni del medico possono avere una prognosi migliore. Attenzione: anche indipendentemente dall’efficacia teorica delle strategie confrontate. Perché un paziente che più aderisce alla terapia è solitamente più attento alla propria salute: è meno probabile che fumi, che sia in sovrappeso, che sia un forte bevitore.

I pazienti convinti della terapia che stanno seguendo possono riferire un migliore esito della cura. Ancora una volta, la sensazione del beneficio può risultare alterata; per questo è importante che il malato non sia a conoscenza della terapia che a lui sta venendo erogata.

Allo stesso modo, i medici convinti di una terapia possono riportare in modo non fedele l’esito dei trattamenti. Pertanto, anche gli operatori sanitari devono essere “ciechi” alla terapia.

Proprio in virtù di questa originale attenzione alla compliance, Sackett ne divenne un “esperto”. Anzi: un Esperto, con la maiuscola. «I enjoyed the topic enormously, lectured internationally on it, had my opinion soughtby other researchers and research institutes, and my colleagues and I ran international compliance symposiums and wrote two books, chapters for several others, and dozens of papers about it. Whether at a meeting or in print, I was always given the last word on thematter», scriveva successivamente in un famoso articolo uscito su The BMJ3.

La conferma del nuovo, preoccupante status era in quella che andava configurandosi come un “accumulo di cariche di Esperto”: in pochi anni sarebbe diventato l’esperto per eccellenza nella EBM, con l’aggravante della nascita di un neologismo, la sackettizzazione, definita come «the artificial linkage of a publication to the evidence-based medicine movement in order to improve sales».

Ma gli Esperti devono scontare un duplice peccato: quello di ritardare il progresso della Scienza e di far danno ai più giovani. È stata questa convinzione a motivare Sackett a tornare in Canada nel 1999, all’età di 65 anni, da Oxford dove aveva fondato il Centre for Evidence-based Medicine nel 1994. Era la sua seconda creatura, dopo il primo Centro di epidemiologia clinica e biostatistica messo in piedi alla McMaster University nel 1967. È stato il primo presidente dello Steering Group della Cochrane Collaboration, nel 1993. È proprio l’attuale direttore del Cochrane Canada, Jeremy Grimshaw, a ricordare come per Sackett la ricerca clinica sia sempre stata uno sport di squadra. Dove anche i fuoriclasse possono mettersi a servizio dei compagni.

Bibliografia

1. Chalmes TC, Eckhardt RD, Reynolds WE, et al. The treatment of acute infectious hepatitis. Controlled studies of the effects of diet, rest, and physical reconditioning on the acute course of the disease and on the incidence of relapses and residual abnormalities. J Clin Invest 1955; 34: 1163-235.

2. Sackett DL. A 1955 clinical trial report that changed my career. J R Soc Med 2010; 103: 254-5.

3. Sackett DL. The sins of expertness and a proposal for redemption. BMJ 2000; 320: 1283.

Il medico: sui social media per ascoltare

Usare Twitter per lanciare i propri articoli è molto trendy: l’ultimo strillo della moda, è il caso di dire. In altre parole, appena il tuo lavoro esce su una rivista internazionale, scrivi dieci parole per presentarne il contenuto, alleghi l’url della rivista e “twitti”. Se aggiungi anche una fotografia il risultato sarà ancora migliore, perché i colleghi saranno più incuriositi e i download più numerosi. Insomma, se l’uso di Twitter da parte del grande pubblico è in crisi, nell’ambito della comunicazione cinguettare va alla grande. E anche il medico si sta accorgendo di quanti benefici potrebbe avere se sapesse usare meglio i social media.

Medici sui social media per un obbligo morale, sosteneva sul suo blog il pediatra Brian Vartabedian1: i medici devono essere presenti e organizzati per arginare la disinformazione sanitaria. Vineet Arora, autrice di un libro uscito da poco sulla Value-based Healthcare2, la pensa alla stessa maniera: «One of the things we can do as a profession is counteract bad information». Ma, come leggiamo in un articolo uscito su Medpage Today3, restano i soliti timori: violazione della privacy, maggiore carico di lavoro dovuto al dover rispondere a «chiunque scriva qualcosa di sbagliato riguardo medicina e salute», relazioni pericolose tra medico e paziente e così via.

Lo statement dell’American College of Physicians4, pubblicato sugli Annals of Internal Medicine nel 2013, resta la stella polare del medico americano. Curiosità mista a prudenza: nessun entusiasmo, molte cautele e, soprattutto, la prevalente considerazione di Facebook, Twitter, YouTube come canali di comunicazione verso il paziente e il cittadino. Questo è il punto critico e, fino a quando questa convinzione non sarà capovolta, il medico non riuscirà a cogliere le opportunità reali offerte dai nuovi spazi della comunicazione.

I social media sono soprattutto dei luoghi dove esercitare l’ascolto: ma il medico ha interesse ad ascoltare?

Bibliografia

1. Vartabedian B. Are physicians obligated to participate in social media? http://33charts.com/2009/10/are-physicians-obligated-to-participate-in-social-media.html

2. Moriates C, Arora V, Shah N. Understanding value-based healthcare. New York: McGraw-Hill, 2015.

3. Yurkiewicz S. When the tweeters are the treaters. MedPage Today, 3 maggio 2015. http://www.medpagetoday.com/MeetingCoverage/ACP/51338

4. Farnan JM, Snyder Sulmasy L, Worster BK, et al. Online medical professionalism: patient and public relationships: policy statement from the American College of Physicians and the Federation of State Medical Boards. Ann Intern Med 2013; 158: 620-7.




Ricerca e letteratura scientifica: che casino

Un vero casino. Questa la definizione con cui – nella sua relazione al congresso della Associazione Alessandro Liberati Network Italiano Cochrane – John Ioannidis ha sintetizzato la situazione attuale dell’attività di ricerca e della produzione di letteratura scientifica. Il direttore del Meta Research Innovation Center dell’università di Stanford ha offerto una panoramica di straordinario interesse che ha riproposto in ordine logico i risultati di alcune delle principali ricerche da lui coordinate o pubblicate negli ultimi anni da altri ricercatori.

La ricerca clinica sembra orientata alla negazione. A farla breve, ecco i problemi principali. In primo luogo, circa la metà degli studi ha dei limiti metodologici importanti: quesiti di ricerca mal concepiti, risultati non generalizzabili, premesse condizionate da punti di vista soggettivi, progetti avviati senza considerare altri eventuali studi sullo stesso argomento che già siano stati condotti. Secondo, in circa un quinto dei casi lo studio tradisce il protocollo: cambiano in corso d’opera i criteri di eleggibilità dei pazienti e il campione viene “contaminato”. Terzo, i finanziamenti influenzano i risultati degli studi e, in circa il 70 per cento dei casi, non sono dichiarati. Quarto, in circa il 20 per cento dei casi la potenza statistica degli studi non è tale da garantire risultati significativi. Quinto, gli studi non sono riproducibili (in uno studio condotto in ambito oncologico lo era quasi il 90 per cento delle ricerche).

C’è poi l’ampiamente noto problema della non pubblicazione dei risultati degli studi. Circa la metà delle ricerche, infatti, non viene pubblicata, per il veto dei finanziatori, o per una sorta di “pudore” dei ricercatori stessi, o anche per il mancato interesse delle riviste, soprattutto nel caso di studi che producono risultati negativi, vale a dire non favorevoli all’intervento sperimentale studiato. E se l’articolo vede la luce? Ebbene, anche in questo caso i risultati sono spesso mal presentati e i metodi descritti in maniera lacunosa o imperfetta. I contenuti sono presentati in maniera da enfatizzare ciò che si ha interesse a sottolineare, l’abstract non sintetizza fedelmente la ricerca o i comunicati stampa inviati ai media sono preparati in modo da sopravvalutare i risultati ottenuti.

Pubblicato e disseminato, l’articolo è pronto per essere… fatto a fette dagli stessi autori che, a partire da uno stesso dataset di risultati, spesso cedono alla tentazione della pubblicazione duplicata su riviste diverse (la cosiddetta “salami science”). Se non ci pensano gli autori, lo fanno i loro colleghi: non passa giorno che non salti fuori un caso di plagio sulla letteratura internazionale anche “autorevole” o comunque indicizzata…




Il risultato è uno spreco intollerabile di risorse economiche e umane (quasi sempre le due cose coincidono). Ioannidis ha riproposto gli studi di Chalmers e Glasziou1 e il dossier pubblicato sul Lancet2 nel gennaio 2014, partendo dai risultati del suo studio del 2005 uscito su PLoS Medicine, Why most published research findings are false3. Il quadro dipinto a Torino è desolante e molti dei presenti hanno reagito con incredulità e rassegnazione. Eppure, la possibilità di invertire la rotta esiste, anche se i correttivi metterebbero in discussione le fondamenta del sistema di produzione e condivisione delle conoscenze. In estrema sintesi, sarebbe necessario:

1. privilegiare la ricerca clinica collaborativa e multicentrica;

2. premiare e fare crescere la “cultura delle riproducibilità” degli studi;

3. registrare ogni ricerca disegnata e avviata in database accessibili pubblicamente;

4. adottare dei metodi statistici… decorosi;

5. standardizzare definizioni e strategie di analisi dei dati;

6. utilizzare dei valori di soglia statistica più appropriati e stringenti;

7. migliorare la qualità del disegno degli studi, il processo di peer review, l’attività di reporting dei metodi e dei dati e la formazione del personale coinvolto nella ricerca.

Più facile a dirsi che a farsi. Per disinnescare una situazione esplosiva, bisognerebbe anche ripensare un sistema che premia molto più la quantità della produzione scientifica che la sua qualità. Altrimenti, il rischio che il casino aumenti è davvero molto elevato.

Bibliografia

1. Chalmers I, Glasziou P. Avoidable waste in the production and reporting of research evidence. Lancet 2014; 383: 86-9.

2. Macleod MR, Michie S, Roberts I, et al. Biomedical research: increasing value, reducing waste. Lancet 2014; 383: 101-4.

3. Ioannidis JPA. Why most published research findings are false. PLoS Med 2005; 2: e124.