Tardiva risposta completa dopo lunga remissione da trattamento
con schedula FOLFIRI-aflibercept per cancro colorettale metastatico
dopo progressione a schedula folfox-bevacizumab

Chiara De Divitiis1, Antonino Cassata1, Guglielmo Nasti1, Alessandro Ottaiano1, Anna Nappi1,
Maria Luisa Barretta2, Rosario Vincenzo Iaffaioli1

Riassunto. Descriviamo il caso di un uomo di 59 anni a cui è stato diagnosticato, nell’ottobre 2011, un carcinoma del retto (sigma RAS wild type) con metastasi epatiche sincrone, sottoposto a intervento chirurgico di emicolectomia sinistra e lobectomia epatica sinistra. In considerazione della recidiva di malattia, dal 18.1.2012 al 13.7.2012 praticava trattamento chemioterapico di I linea secondo schema FOLFOX e bevacizumab per 12 cicli totali, ottenendo una risposta completa, per cui si sottoponeva il paziente a controlli di follow-up clinico strumentale che risultavano negativi fino al gennaio 2013, quando, in seguito alla comparsa di dolore al bacino di sinistra, veniva eseguita una PET total body con 18FDG, che documentava la presenza di metastasi a livello dell’emibacino di sinistra, confermata istologicamente. Pertanto dal 18.3.2013 al 29.3.2013 il paziente si sottoponeva a trattamento radioterapico sull’ischio sinistro (30 Gy). Nel maggio 2013 una TC total body con e senza mezzo di contrasto mostrava una progressione di malattia a livello epatico, per cui il paziente veniva avviato a chemioterapia di II linea secondo schema FOLFIRI-aflibercept, trattamento tuttora in corso. A 46 mesi dalla diagnosi il paziente è in ottime condizioni generali, presentando un quadro di risposta completa di malattia, dimostrato da una TC total body, eseguita nell’aprile 2015, completamente negativa.

Parole chiave. Aflibercept, angiogenesi, carcinoma del colon-retto in IV stadio.

Late complete response after long remission from treatment with FOLFIRI-aflibercept for metastatic colorectal cancer after progression to FOLFOX-bevacizumab.

Summary. We report a case of a 59 years old man affected by an adenocarcinoma of the rectum RAS wild type with synchronous liver metastases, diagnosed on October, 2011. The patient underwent a left hemicolectomy with left hepatic lobectomy. In view of the recurrence of the disease from 18.01.2012 to 13.7.2012 we practiced first line chemotherapy with FOLFOX plus bevacizumab for 12 total cycles, obtaining a complete response, so the patient underwent clinical follow-up controls that proved negative until January, 2013, when, following the appearance of pain in the pelvis to the left, a total body PET with 18FDG was performed that documented the presence of bone metastases (left hemipelvis), confirmed histologically. Therefore from 03.18.2013 to 29.03.2013 the patient underwent a left ischium radiotherapy (for a total of 30 Gy). On May, 2013, a CT scan showed a progression of disease in the liver and so the patient started a II line chemotherapy with FOLFIRI and aflibercept, treatment still ongoing. At 46 months after diagnosis, the patient is in good general condition, presenting a complete response of the disease, demonstrated by a total body CT scan, performed in April 2015, completely negative.

Key words. Aflibercept, angiogenesis, metastatic colorectal cancer.

Introduzione

Il cancro del colon-retto (colorectal cancer - CRC) è il terzo tumore per incidenza nel mondo con oltre 1.234.000 nuovi casi diagnosticati e quasi 608.000 decessi ogni anno in tutto il mondo1,2.

Circa il 50% dei pazienti con carcinoma colorettale presenta, alla diagnosi, metastasi a distanza.

Il trattamento medico del carcinoma del colon-retto è senza dubbio uno dei settori dell’oncologia che negli ultimi anni ha fatto osservare una crescita di acquisizioni scientifiche e di progressi clinici notevoli.

Se si pensa, infatti, che una quindicina di anni fa si dibatteva ancora sull’opportunità di trattare o meno, con le poche risorse chemioterapiche allora disponibili, i pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico, i risultati ottenuti con i regimi terapeutici odierni e con la loro ottimizzazione in sequenza appaiono ancora più sorprendenti e gratificanti.

E ancora, l’incremento significativo dei tassi di risposta obiettiva rilevato con i regimi di ultima generazione rispetto agli storici schemi basati sulle sole fluoropirimidine consente oggi di ricondurre alla resecabilità chirurgica, e quindi a potenziale guarigione, una quota sempre più ampia di pazienti con malattia avanzata.

Di fatto è comune convinzione, ormai, che stiamo vivendo una vera e propria rivoluzione culturale anche nell’approccio terapeutico al carcinoma del colon-retto che, da patologia sostanzialmente orfana, sta diventando paradigma di importanti innovazioni scientifiche e concettuali. Infatti, è diventata frequente la necessità di aggiornare l’algoritmo terapeutico.

Riportiamo il caso clinico di un paziente di sesso maschile, di 59 anni con diagnosi di adenocarcinoma del sigma RAS wilde type con metastasi epatiche sincrone.

Caso clinico

Il paziente è un uomo, 59 anni, in ottime condizioni cliniche (ECOG Performance Status WHO: O; Karnofsky Performance Status Scale: 90%) con in anamnesi ipertensione arteriosa in trattamento farmacologico. Nell’ottobre 2011, in seguito all’insorgenza di dolori addominali, astenia e rettorragia eseguiva vari accertamenti tra cui una TC total body che descriveva un parenchima epatico disomogeneo per la presenza di multiple lesioni ipodense localizzate prevalentemente a livello del lobo sinistro associato a un ispessimento a livello della giunzione retto-sigma. Una pancolonscopia eseguita successivamente evidenziava la presenza di una neoformazione vegetante ulcerata a livello della giunzione retto-sigma sulla quale venivano eseguite biopsie multiple. L’esame istologico deponeva per un adenocarcinoma scarsamente differenziato. Nel novembre 2011 veniva eseguito un intervento chirurgico di emicolectomia sinistra e lobectomia epatica sinistra. Una TC total body, eseguita nel gennaio 2012, mostrava il parenchima epatico residuo finemente disomogeneo con visibilità di due lesioni ipodense localizzate al VII segmento di 15 mm e al I segmento di 17 mm, compatibili con secondarismi. In considerazione della recidiva di malattia, dal 18.1.2012 al 13.7.2012 praticava trattamento chemioterapico di I linea secondo schema FOLFOX + bevacizumab per 12 cicli totali. Una TC total body e una PET TB con 18FDG eseguite nell’agosto 2012 mostravano un quadro di risposta completo. Pertanto si avviava il paziente a controlli di follow-up clinico strumentale, che risultava negativo fino al gennaio 2013 quando, in seguito alla comparsa di dolore al bacino di sinistra, venivano eseguite una PET total body con 18FDG, che documentava la presenza di iperaccumulo del tracciante a livello dell’ischio di sinistra (SUV max 9.0), e una RMN, che confermava presenza di alterazione a livello dell’emibacino di sinistra. Nel febbraio 2013 veniva eseguita una biopsia ossea dell’ischio di sinistra. L’esame istologico su biopsia diagnosticava la presenza di una metastasi da primitivo di origine intestinale. Pertanto dal 18.3.2013 al 29.3.2013 il paziente veniva sottoposto a trattamento radioterapico sull’ischio sinistro (30 Gy). Una TC total body con e senza mezzo di contrasto eseguita nel maggio 2013 (figura 1) mostrava una progressione di malattia per la comparsa di due lesioni, localizzate al VII segmento di 18 mm e al I segmento di 14 mm, con una stabilità del quadro di destrutturazione della branca ischio-pubica di sinistra.




Pertanto, si imponeva la necessità di intraprendere una chemioterapia di II linea. Veniva richiesta l’analisi dello stato mutazionale di RAS (k-Ras e N-Ras) su tessuto tumorale dell’intervento di emicolectomia sinistra in anamnesi e tale ricerca dava esito negativo, sottolineando l’assenza di mutazioni (all-RAS Wilde Type).

Nel maggio 2013 era attivo presso la nostra divisione di Oncologia Medica lo studio clinico di fase IIIb “A Multicenter, single arm, open label clinical trial to evaluate the safety and health-related quality of life of aflibercept in patients with mcrc previously treated with oxaliplatin containing regimen (ASQoP/AFEQT program)”, che consentiva di utilizzare l’aflibercept al fine di saggiarne la tollerabilità e la manegevolezza nel setting clinico “real-life”.

Dopo aver ampiamente discusso con il paziente circa le possibilità terapeutiche a cui poteva essere candidato per il suo stadio di malattia, questi accettava la partecipazione allo studio ASQOP/AFEQT e nel maggio 2013 veniva arruolato in detto protocollo, intraprendendo il trattamento chemioterapico di II linea secondo schema FOLFIRI + aflibercept (aflibercept 4 mg/kg, irinotecan 180 mg/mq, acido folinico 200 mg/mq, fluoruracile 400 mg/mq in bolo ev, fluoruracile 2400 mg/mq in infusione continua in elastomero per 46 ore). A oggi, il paziente ha praticato 43 cicli totali di trattamento, tollerandoli molto bene. In particolare, abbiamo registrato un evento di neutropenia febbrile G3 dopo l’ottavo ciclo (per cui si intraprendeva profilassi con fattori di crescita G-CSF), mucosite orale G1 dopo il sesto ciclo, diarrea G1, tossicità epatica G1, astenia G1 persistente per tutto l’intervallo terapeutico. Dopo il trentacinquesimo ciclo di terapia emergeva dagli esami di laboratorio una tossicità epatica G2 persistente. Il paziente riferiva, inoltre, astenia G2 persistente. Pertanto si decideva di ridurre il dosaggio del FOLFIRI al 75% del totale proseguendo con il dosaggio pieno dell’aflibercept. Le rivalutazioni strumentali di malattia (praticate trimestralmente con TC total body con e senza mezzo di contrasto) mostravano un quadro di stabilità di malattia a livello epatico e osseo (figura 2). L’ultima rivalutazione strumentale con TC total body con e senza mezzo di contrasto iodato, praticata nell’aprile 2015, ha addirittura mostrato una risposta completa di malattia, senza più chiara evidenza di lesioni focali a carico del parenchima epatico (figura 3). Pertanto, l’interesse del caso è accresciuto ulteriormente dalla risposta tardiva. Al momento il paziente è vivente e continua il trattamento chemioterapico di II linea con FOLFIRI e aflibercept oramai da più di due anni (26 mesi), conservando una discreta qualità di vita.







Discussione

La rivoluzione culturale in corso relativa all’approccio terapeutico al CRC è il risultato, da una parte, dell’introduzione negli anni Novanta di nuovi chemioterapici (essenzialmente oxaliplatino e irinotecan) che, integrati nei regimi di combinazione con le fluoropirimidine, hanno consentito di ottenere i primi risultati concreti in termini di risposte obiettive e di sopravvivenza; dall’altra, dell’utilizzo dei farmaci a target molecolare, che nel corso degli ultimi anni hanno ulteriormente amplificato i risultati ottenuti con i nuovi regimi di polichemioterapia, consentendo di superare il confine psicologico – oltre che clinicamente concreto – dei 20 mesi di sopravvivenza mediana e del 50% di risposte obiettive globali.

Altro elemento di fondamentale importanza nell’approccio innovativo al CRC in epoca di targeted therapy è la personalizzazione dei trattamenti, fondata sull’individuazione di marcatori con valore prognostico e predittivo, che rivestono oggi una fondamentale importanza, tanto nella gestione della malattia in stadio avanzato quanto nella cura delle forme in stadio precoce, offrendo nuovi strumenti di stima rispetto alla possibilità di guarigione e, più in generale, all’outcome globale del paziente3. Pertanto, la promessa di una medicina personalizzata nel trattamento del cancro del colon retto metastatico sta diventando una realtà grazie alle nuove conoscenze di aspetti genetici che hanno consentito, talora, di modificare la pratica clinica. La disponibilità di farmaci biologici mirati, unitamente all’individuazione dello stato mutazionale di RAS come test predittivo di risposta agli stessi anticorpi monoclonali anti-EGFR (cetuximab e panitumumab), associati al trattamento chemioterapico, ha aumentato la sopravvivenza globale nel tumore metastatico del colon-retto (mCRC) a oltre 24 mesi di mediana4. Tutto ciò, come attendibile, al costo di tossicità specifiche aggiuntive e di un non trascurabile peso economico che potrà essere sempre più contenuto con la “superselezione” dei pazienti.

L’impiego di anticorpi monoclonali quali cetuximab, panitumumab e bevacizumab se ha, da una parte, aumentato le opzioni di trattamento e incrementato la sopravvivenza globale, ha, dall’altro, reso sempre più articolata e complessa la pianificazione delle strategie di trattamento. Tutto ciò giustifica l’affannosa ricerca di marcatori biologici, prognostici e predittivi in grado di implementare le conoscenze sulla biologia tumorale e di guidare il clinico in un processo decisionale sempre più personalizzato. In particolare, nel CRC, per prima, la dimostrazione della presenza di mutazioni della proteina di Kirsten-RAS (KRAS) nel pathway del recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR) ha modificato la strategia terapeutica, passando da un trattamento chemioterapico esclusivo ed “empirico” a un approccio più personalizzato, che prevede l’utilizzo di un anticorpo monoclonale anti-EGFR.

Fino agli anni Novanta il solo farmaco attivo nel trattamento di questa patologia era il 5-fluorouracile (5-FU) che garantiva un controllo di malattia limitato a 3-4 mesi e una sopravvivenza di soli 6-9 mesi. Successivamente, le evidenze di efficacia di oxaliplatino e irinotecan in combinazione con il 5-FU hanno determinato un miglior controllo della malattia, ritardando il tempo alla progressione (TTP, 6-7 mesi) e prolungando la sopravvivenza (14-16 mesi). L’efficacia terapeutica di questi regimi, in termini di riduzione del volume tumorale, ha consentito di impattare sulla prognosi, offrendo anche la possibilità di una chirurgia radicale su lesioni metastatiche inizialmente inoperabili, modificando la storia naturale della malattia4. Si è dibattuto a lungo su quale regime fosse più opportuno impiegare in I o II linea.

Dallo studio di Grothey et al. del 20045, per quanto discutibile per la metodologia impiegata, è emerso che la sopravvivenza correla all’esposizione nel tempo a tutti e tre i farmaci attivi piuttosto che alla sequenza utilizzata.

Diversi trial clinici hanno dimostrato che schemi polichemioterapici quali FOLFOX (5-FU, acido folinico e oxaliplatino) o FOLFIRI (5-FU, acido folinico e irinotecan) sono da ritenersi di valido utilizzo nel trattamento di I linea del mCRC. Uno studio6 del Gruppo Oncologico del Nord-Ovest (GONO) ha evidenziato per primo come l’utilizzo della tripletta (FOLFOXIRI: 5-FU, acido folinico, oxaliplatino e irinotecan) sia maggiormente efficace, rispetto alla sola doppietta (FOLFIRI), in termini di percentuali di risposta, tempo alla progressione e sopravvivenza, anche se tale schema è da riservarsi unicamente a quei pazienti caratterizzati da buon performance status e senza significative comorbilità che ne possano inficiare la tollerabilità.

Nell’ultimo decennio l’impiego degli inibitori del fattore di crescita delle cellule endoteliali vascolari (bevacizumab) e del recettore del fattore di crescita epidermico (cetuximab e panitumumab) ha apportato ulteriori benefici ai risultati della sola chemioterapia: il tempo alla progressione e la sopravvivenza globale (OS) sono infatti passati rispettivamente da 8-11 a 20-24 mesi7,8.

Il bevacizumab, anticorpo monoclonale con un’alta affinità per il VEGF, interferisce con il legame del VEGF-A nei confronti del VEGFR-1 e 2, con conseguente inibizione del “signaling” intracellulare mediata dal ligando9. Da un’analisi combinata di tre studi in I linea, effettuata da Kabbinavar et al.10 con tre differenti regimi di trattamento associati o meno al bevacizumab (5-FU-LFA vs IFL/ vs 5-FU+LFA+BEV), è emerso un vantaggio statisticamente significativo in termini di PFS (8,8 vs 5,6 mesi), di OS (17,9 vs 14,6 mesi) e RR (34 % vs 25%) nel gruppo di pazienti che ha ricevuto l’antiangiogenetico.

A conferma di questi dati, il trial di Hurwitz et al.7 (IFL vs IFL+BEV) ha confermato la superiorità del braccio di associazione in termini di risposte (35% vs 45%), di PFS (6,2 vs 10,6 mesi) e di OS (15,6 vs 20,3 mesi).

Questi risultati hanno portato alla registrazione del farmaco biologico in I linea da parte della FDA prima e degli enti regolatori europei poi. Peraltro, lo schema IFL, per le sue tossicità, non viene riconosciuto in Europa come uno standard di trattamento mentre si preferisce il regime ibrido (FOLFIRI).

Se in I linea l’esperienza di Saltz (confronto diretto FOLFOX o XELOX+/-bevacizumab) non ha mostrato differenze nei tassi di risposte obiettive (38%) e di OS (19,9 versus 21,3 mesi), nel trattamento di II linea i risultati sono stati più confortanti.

Lo studio E3200 dell’Eastern Cooperative Oncology Group9 a tre bracci di trattamento ha confrontato la combinazione XELOX (o FOLFOX) +/- bevacizumab vs bevacizumab da solo con considerevoli vantaggi in RR (3% vs 9% vs 23%), PFS mediana (2,7 vs 4,7 vs 7,3 mesi) esclusivamente per i pazienti trattati con FOLFOX più bevacizumab (12,9 mesi vs 10,8 e 10,2 mesi). Ancora risulta controversa l’interpretazione di tali risultati, ma l’associazione di schedule a base di oxaliplatino con il bevacizumab, al contrario degli Stati Uniti, non ha guadagnato in Europa ampia accettazione come terapia di I linea10-15.

Pertanto, il bevacizumab in combinazione con chemioterapia a base di fluoropirimidine è indicato a oggi per il trattamento di pazienti con mCRC, indipendentemente dallo stato mutazionale di RAS, sia in I sia in II linea; in quest’ultimo caso, solo in quei pazienti che non lo abbiano già impiegato up-front.

L’aflibercept, conosciuto in letteratura anche come VEGF TRAP o AVE0005, è una proteina di fusione ricombinante costituita dalle porzioni di legame con il VEGF dei domini extracellulari dei recettori umani del VEGF1 e 2 fusi con la porzione Fc dell’IgG1 umana. Funge da recettore solubile di captazione che lega il VEGF A con un’affinità maggiore di quella dei recettori nativi e dei relativi ligandi PIGF e VEGF B. Con tale meccanismo d’azione, esso impedisce il legame dei ligandi endogeni ai corrispondenti recettori nativi con conseguente blocco dei segnali mediati dai recettori stessi. Impedisce, inoltre, l’attivazione dei recettori del VEGF e la proliferazione delle cellule endoteliali, inibendo in tal modo la crescita di nuovi vasi sanguigni in grado di fornire ossigeno e sostanze nutritive ai tumori. Si lega al VEGF A umano (costante di dissociazione di equilibrio Kd di 0,5 pM per il VEGF A165 e 0,36 pM per il VEFG A 121), al PIGF umano (Kd di 39 pM per la PIGF 2), al VEGF B umano (Kd di 1,2 pM) per formare un complesso inerte, stabile e privo di attività biologica rilevante.

L’efficacia e la sicurezza clinica dell’aflibercept sono state valutate nello studio VELOUR16, studio clinico randomizzato a doppio cieco controllato con placebo, condotto su pazienti affetti da mCRC, precedentemente sottoposti a trattamento a base di oxaliplatino in combinazione o meno con bevacizumab. Complessivamente sono stati randomizzati nello studio 1226 pazienti (randomizzazione 1:1) ai quali è stato somministrato aflibercept (N=612; 4 mg/kg in infusione endovenosa di 1 ora al primo giorno) o placebo (N=614) in combinazione con 5-FU e irinotecan [FOLFIRI: irinotecan 180 mg/mq in infusione ev di 90’ e acido folinico (racemo DL) 400 mg/mq in infusione ev di 2 ore somministrati contemporaneamente il primo giorno del ciclo utilizzando un deflussore a Y, seguiti da 5-FU 400 mg/mq in bolo endovenoso, quindi da 5-FU 2400 mg/mq in infusione endovenosa continua di 46 ore]. I cicli di trattamento in entrambi i gruppi sono stati ripetuti ogni 14 giorni. I pazienti sono stati trattati fino a progressione o tossicità inaccettabile. L’end point primario di efficacia era dalla sopravvivenza globale. Gli end point secondari includevano la sopravvivenza libera da progressione di malattia, la percentuale di risposte obiettive e la safety. L’attribuzione del trattamento mediante randomizzazione è stata stratificata in base al performance status secondo ECOG (0 vs 1 vs 2) e alla precedente terapia con bevacizumab (sì vs no). Le caratteristiche demografiche sono state adeguatamente bilanciate tra due gruppi di trattamento (età, razza, performance status ECOG e precedente trattamento con bevacizumab). L’età mediana dei 1226 pazienti randomizzati nello studio era di 61 anni, il 58,6% era di sesso maschile, il 97,8% presentava un performance status (PS) ECOG basale di 0 o 1 mentre il 2,2% presentava un performance status (PS) ECOG di 2. Tra i 1226 pazienti randomizzati, l’89,4% e il 90,2 % dei soggetti trattati rispettivamente con regimi di placebo/FOLFIRI e aflibercept/FOLFIRI erano stati sottoposti a precedente chemioterapia a base di oxaliplatino. Circa il 10% dei pazienti inclusi (il 10,4 % e il 9,8% dei pazienti trattati rispettivamente con placebo/FOLFIRI e aflibercept/FOLFIRI) avevano ricevuto una precedente chemioterapia adiuvante a base di oxaliplatino e avevano presentato una recidiva di malattia entro sei mesi dal completamento del trattamento adiuvante. A 373 pazienti (30,4%), la precedente chemioterapia a base di oxaliplatino era stata somministrata in combinazione con bevacizumab.

Lo studio VELOUR ha dimostrato che la combinazione FOLFIRI + aflibercept determina un incremento della sopravvivenza mediana da 12 mesi a 13,5 mesi (HR=0,817), con una riduzione del rischio relativo di morte del 18% e una riduzione del rischio relativo di progressione pari al 24%. La percentuale di risposte obiettive con FOLFIRI e aflibercept è risultata del ١٩,8 % vs 11,1 % ottenuto con il solo FOLFIRI.

Da sottolineare il particolare andamento delle curve di efficacia dello studio VELOUR: tali curve si separano precocemente e si mantengono distanziate fino alla fine. Questo andamento non si osserva spesso quando si parla di II linea di trattamento chemioterapico e indica un’amplificazione nel tempo del beneficio derivante dal trattamento con FOLFIRI e aflibercept rispetto al trattamento con il solo FOLFIRI. Andando poi ad analizzare la parte finale delle curve e cioè le “code” (che esprimono la probabilità dei pazienti di essere in vita a lungo termine), possiamo affermare che i pazienti che assumono FOLFIRI e aflibercept, come terapia di II linea dopo fallimento del trattamento di I linea con una chemioterapia a base di oxaliplatino con o senza l’aggiunta di bevacizumab, presentano un incremento assoluto del 10% della probabilità di sopravvivenza a 2,5 anni, beneficio non trascurabile se si considera che si ottiene in II linea, cioè in pazienti reduci dal fallimento con una I linea terapeutica ottimale.

Un crescente numero di evidenze indica che le caratteristiche del paziente possano avere un impatto sull’efficacia del trattamento nel mCRC (età, performance status, tempo alla recidiva dopo la terapia adiuvante, estensione della malattia metastatica e uso delle terapie precedenti).

Negli studi clinici, le analisi dei sottogruppi stanno diventando sempre più importanti per dimostrare la consistenza dell’effetto del trattamento e per fornire ai medici una guida per la pratica clinica.

Recentemente sono state effettuate una serie di sottoanalisi dello studio VELOUR.

Van Cutsem et al.15 hanno voluto invece calcolare la OS dall’inizio del trattamento di I linea, sempre escludendo le recidive precoci (entro i 6 mesi) da un eventuale pregresso trattamento adiuvante a base di oxaliplatino. Tale analisi ha portato a stabilire che l’incremento in OS di FOLFIRI più aflibercept rispetto a FOLFIRI più placebo sia superiore ai 3 mesi e che la probabilità di sopravvivenza a 48 mesi dall’inizio della I linea metastatica sia circa del 20% e non influenzata dal pregresso trattamento con bevacizumab.

La continua divergenza nelle curve di sopravvivenza globale (OS) nella popolazione ITT, con il vantaggio in sopravvivenza che persiste oltre il tempo della sopravvivenza mediana, suggerisce che alcune sottopopolazioni potrebbero avere un beneficio in sopravvivenza di diversa entità.

Chau et al.16 hanno elaborato un’ulteriore analisi post hoc dello studio VELOUR analizzando per sottogruppi i pazienti inseriti nel suddetto studio, con l’obiettivo di individuare la popolazione di pazienti a “migliore efficacia” e che ha avuto quindi un maggiore beneficio dal trattamento con ­FOLFIRI + aflibercept. Sulla base di una revisione sistematica della letteratura, dalla ITT dello studio VELOUR sono stati esclusi i pazienti ricaduti durante o entro 6 mesi dal completamento della terapia adiuvante con oxaliplatino perché definiti a prognosi infausta. Tale analisi multivariata ha permesso di identificare i fattori prognostici chiave correlati a una migliore OS: performance status pari a 0 secondo ECOG e un numero di siti metastatici inferiore a 2. Applicando tali fattori prognostici alla popolazione ITT (previa esclusione dei pazienti con recidiva precoce durante o dopo terapia adiuvante) si definisce un “sottogruppo a migliore efficacia”: sono i pazienti del VELOUR esclusi quelli con recidiva precoce dall’adiuvante o PS 0 con un numero qualsiasi di siti metastatici, o con PS 1 ma con un numero di siti metastatici inferiore a 2. Il sottogruppo a “migliore efficacia” costituisce il 66% della popolazione dello studio VELOUR e, in tale sottogruppo, si è osservato un prolungamento significativo dell’OS mediana con aflibercept-FOLFIRI vs placebo-FOLFIRI: 16,2 mesi vs 13,1 mesi con una differenza assoluta di 3,1 mesi. Tale differenza in OS tra i due gruppi di trattamento risulta in continuo aumento con il passare del tempo, con un incremento assoluto della probabilità di sopravvivenza pari al 5% a 6 mesi e 15% a 30 mesi. Si è, inoltre, osservato un prolungamento della PFS mediana con aflibercept-FOLFIRI vs placebo-FOLFIRI (7,2 mesi vs 4,8 mesi con una differenza assoluta di 2,4 mesi), nonché un incremento del tasso di risposta obiettiva (ORR 23,7% vs 11%). Sebbene l’intensità di dose, simile tra il gruppo a “migliore efficacia” e quello a “minore efficacia” non possa essere il motivo del vantaggio di sopravvivenza con aflibercept, il numero medio di cicli di aflibercept è stato maggiore nel sottogruppo a migliore efficacia, per il fatto che tale gruppo ha avuto una PFS più lunga.

Pertanto, dai risultati di quest’analisi post hoc dello studio VELOUR, possiamo dire che esiste un sottogruppo di pazienti che può trarre un “beneficio potenziato” senza alcun compromesso in termini di tollerabilità, dall’aggiunta di aflibercept a FOLFIRI rispetto al beneficio osservato nella popolazione ITT.

L’identificazione del profilo di questo sottogruppo di pazienti a “migliore efficacia” nel trattamento di II linea dei pazienti con mCRC può quindi guidare i clinici nell’impiego mirato di farmaci biologici per ottimizzare il guadagno in sopravvivenza di popolazioni di pazienti clinicamente rilevanti.

Successivamente allo studio VELOUR, lo studio ASQoP/AFEQT (fase IIIb/IV), trial clinico internazionale di fase IIIb, multicentrico, in aperto, internazionale, a braccio singolo, condotto in 180 centri, ha arruolato in circa due anni 900 pazienti (200 dei quali in Italia) affetti da CRC metastatico precedentemente trattati con regimi a base di oxaliplatino, assegnandoli al trattamento con FOLFIRI e aflibercept al duplice scopo di fornire ai soggetti un accesso precoce al nuovo farmaco e, al tempo stesso, ricevere informazioni aggiuntive circa la tollerabilità della molecola, il profilo di sicurezza e l’impatto sulla qualità di vita.

Il nostro centro ha partecipato a tale studio, arruolando 17 pazienti, tra cui il paziente di cui abbiamo riportato il caso clinico.

I risultati preliminari della quarta analisi ad interim dello studio ASQoP/AFEQT indicano che, nei pazienti con mCRC che hanno ricevuto una precedente terapia con oxaliplatino con o senza una precedente esposizione a bevacizumab, non è emerso alcun nuovo segnale di sicurezza rispetto allo studio VELOUR. Sebbene tali dati non siano ancora del tutto maturi e il numero di cicli di terapia analizzati sia limitato, i risultati delle analisi ad interim condotte suggeriscono che la combinazione FOLFIRI-aflibercept sembrerebbe aver dimostrato un migliore profilo di tossicità nel setting “real life” e in II linea di trattamento dei pazienti con mCRC rispetto a quello espresso nello studio VELOUR. La maggior parte degli eventi avversi registrati è stata di grado 3 (diarrea, neutropenia febbrile e fatigue) e si è verificata in percentuali inferiori nel programma ASQoP/AFEQT rispetto a quanto verificatosi nello studio VELOUR.

Inoltre, i dati derivanti dall’analisi sulla qualità di vita suggeriscono l’utilità dello score EQ-5D senza deterioramento della qualità di vita.

Conclusioni

Sebbene aflibercept appaia potenziare alcune tossicità della chemioterapia nello studio VELOUR (a testimonianza anche della potenza intrinseca della molecola stessa), la nostra personale e incoraggiante esperienza clinica, esemplificativa di quello che può accadere nel setting “real life”, ci consente di affermare che la combinazione FOLFIRI-aflibercept è, nella maggior parte dei casi, un’associazione ben tollerata.

Inoltre, il caso clinico da noi riportato sottolinea l’importante ruolo che ormai aflibercept occupa nell’ambito di una strategia di trattamento pianificata che miri a mantenere anche in II linea il blocco dell’angiogenesi nel trattamento del mCRC. Peraltro, starebbe emergendo la possibilità che uno dei vantaggi dell’aflibercept sia dovuto alla inibizione del target PIGF.

Nei pazienti con stato di RAS mutato, per cui le opzioni di trattamento disponibili sono notevolmente ridotte, la combinazione FOLFIRI-aflibercept rappresenta una valida e preziosa possibilità terapeutica da offrire in II linea di trattamento ai pazienti con mCRC.

Tuttavia, anche nei pazienti con stato di RAS wild type (come il caso del paziente da noi trattato), l’aflibercept in associazione a FOLFIRI, se da una parte va ad affollare il panorama di farmaci attivi in questo setting terapeutico, dall’altra va ad ampliare e potenziare la rosa delle valide alternative terapeutiche nel trattamento di II linea del mCRC.

Inoltre, non bisogna dimenticare che la capacità di shrinkage propria della molecola aflibercept, e non condivisa da altri agenti antivascolari, ne rende lo studio in altri setting (mantenimento, adiuvante, ecc.) di grande attualità e interesse scientifico.

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