Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Ma quanto valgono le terapie?

Il costo sempre più elevato dei farmaci non riguarda solo i medicinali oncologici, anche se di questi soprattutto si parla. È indispensabile raggiungere un consenso sulle modalità per assegnare il valore ai singoli prodotti in rapporto ai benefici procurati o promessi. La determinazione del valore si deve basare su dati clinici, sulla probabilità del verificarsi di effetti collaterali gravi, sul costo del prodotto, su una valutazione, dunque, di costo-efficacia: ma, in fin dei conti, non può prescindere dalla qualità di queste informazioni. Queste sono le premesse per una convincente misurazione del valore delle nuove terapie secondo Peter J. Neumann e Joshua T. Cohen, dell’Institute for Clinical Research and Health Policy Studies della Tufts Medical School: le hanno chiaramente illustrate in un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine il 18 novembre 20151.

Che il costo di una terapia sia legato al suo valore e non al costo di sviluppo sostenuto dall’azienda produttrice è una buona notizia. Ma, andando ad analizzare i tentativi di costruire i modelli o algoritmi proposti di recente per la determinazione del valore, appare chiaro come tutti risentano, in maggiore o minore misura, delle condizioni peculiari del sistema statunitense e della situazione che si è venuta a creare dopo l’approvazione della riforma sanitaria voluta dall’amministrazione Obama. Non si può inoltre non considerare come il valore sia un elemento difficile da mettere a fuoco, così che le diverse istituzioni o enti che hanno provato a definirlo non hanno raggiunto un consenso neanche sulle dimensioni da prendere in considerazione.

Neumann e Cohen ricorrono ripetutamente a un paragone: quello con le automobili. Quando decidiamo di cambiare la nostra macchina, a cosa guardiamo? Se Volkswagen o Toyota decidessero il prezzo sulla base dei costi di ricerca e produzione da loro sostenuti, certamente non convincerebbero nessun acquirente. Chi compra, va al sodo e guarda alle prestazioni. Questione risolta? In parte. A quali “prestazioni” daremmo maggiore importanza? Qualcuno di noi, più prudente, alla sicurezza: guarderemmo la solidità delle portiere o la dotazione di airbag. Altri, più disinvolti, sceglierebbero un’automobile più brillante, sportiva e scattante. Altri ancora darebbero maggiore importanza ai consumi. In nessun caso, però, ci troveremmo di fronte a una scelta “più giusta” e sarebbero tutte rispettabili.

L’aspetto più importante – e l’argomentazione dei due autori appare davvero convincente – è che qualsiasi decisione sia inserita in una cornice capace di contestualizzarla. Nessuno degli strumenti considerati da Neumann e Cohen prendono in considerazione il budget complessivo della spesa farmaceutica: i framework dell’American College of Cardiology e dell’American Heart Association, dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), dell’Institute for Clinical and Economic Review, del Memorial Sloan Kettering Cancer Center (MSKCC) e nel National Comprehensive Cancer-Network (NCCN) concentrano la loro attenzione sulle singole terapie. Al contrario, sarebbe necessario costruire supporti a percorsi capaci di integrare l’adozione di terapie innovative con parallele e motivate decisioni di disinvestimento. Avendo cura che anche l’interruzione dell’erogazione di strategie diagnostiche e cliniche di non dimostrata efficacia o costo-utilità sia decisa con la necessaria prudenza.







Sul costo dei farmaci oncologici è invece intervenuto specificamente un altro contributo ugualmente uscito sul New England2, ma a firma di Robert C. Young, oggi consulente privato di diversi centri di assistenza in ambito oncologico, ma in passato presidente di varie società scientifiche, tra cui la stessa ASCO. La spesa farmaceutica per medicinali oncologici passerà dai 125 miliardi di dollari del 2010 ai 158 del 2020. «Virtualmente, nessuno dei trattamenti è curativo e alcuni influenzano solo il disease-free survival e non la sopravvivenza del paziente», sostiene Young. Dovendo sostenere il 20% del costo di una terapia, il paziente si trova a dover spendere fino a 60 mila dollari per un ciclo di “cure” ma, nonostante il sostanziale coinvolgimento emotivo, fisico ed economico del malato nello strumento elaborato dall’ASCO per definire il valore delle terapie, non sono prese in considerazione tre dimensioni tra quelle giudicate fondamentali dall’Institute of Medicine degli Stati Uniti: la patient-centredness, l’equità e la tempestività del trattamento. La proposta dell’ASCO non sembra convincente anche per una certa approssimazione del pesare outcome diversi che hanno un impatto profondamente differente sul vissuto di malattia del paziente. Giudizio non favorevole per ASCO, dunque, e interlocutorio anche per lo strumento del MSKCC che, addirittura, potrebbe avere conseguenze inattese e inopportune, come indurre ad aumentare i prezzi le aziende produttrici di medicinali giudicati favorevolmente. Nel caso, invece, della proposta del NCCN il più marcato orientamento al paziente fa sì che sia giudicata uno strumento adatto a supportare il dialogo tra il medico e il malato. Sarebbe questo, secondo Young, l’obiettivo da perseguire: anche il maggior valore che possiamo riconoscere in un percorso di cura è nel modo con il quale è condotto.

E non c’è un modo migliore di quello che può essere garantito dalla condivisione e dal dialogo tra medico e malato.

Bibliografia

1. Neumann PJ, Cohen JT. Measuring the value of prescription drugs. New Engl J Med 2015; Nov 18. [Epub ahead of print].

2. Young RC. Value-based cancer care. New Engl J Med 2015; Nov 18. [Epub ahead of print].

Malati e per di più sul lastrico

Alla fine molti medici americani hanno deciso di agire direttamente, senza attendere indicazioni dalle agenzie governative: quella di non prescrivere più i farmaci oncologici dal costo elevatissimo e privi di una sostanziale efficacia è stata una decisione sofferta ma motivata. «Non ha molto senso prescrivere prodotti che promettono pochi vantaggi in relazione al loro costo», ha dichiarato Peter B. Bach – clinico del Memorial Sloan Kettering Cancer Center (MSKCC) di New York – alla Reuters1. «Farmaci che costano oltre 10 mila dollari al mese e che forniscono, nella mediana dei pazienti, poche settimane o meno di un mese di vita aggiuntiva, a fronte di una grave tossicità».

Dei 51 nuovi farmaci oncologici approvati tra il 2009 e il 2013 e classificati come innovativi la mediana del costo annuo è di US$ 116.100 e si tratta di cifre in continuo aumento. Nel 1995 i malati di cancro e le loro assicurazioni dovevano prevedere una spesa di US$ 54.100 per ogni anno di vita guadagnato: nel 2013 la cifra è salita a US$ 207.000. È una questione di straordinario rilievo che è opportuno esca dalle pagine delle riviste scientifiche. Chiaro e interessante l’articolo che lo stesso Peter B. Bach ha scritto per la Harvard Business Review2. In buona parte, il contributo è un’introduzione al DrugAbacus, lo strumento elaborato da lui e dalla sua équipe del MSKCC per la valutazione del valore dei farmaci oncologici.

«Everyone agrees that a drug’s value is tied to its clinical benefit for the patient. But how do you measure the impact of, say, drug side effects? If they’re bad, is the drug less valuable? What about if the drug costs a lot to develop or if its novel mechanism of action breaks new scientific ground? What if it treats a rare disease? Do those considerations add value? The DrugAbacus lets you decide how much these and other factors are related to a drug’s value». Beninteso, qualcosa manca, ammette Bach: la prospettiva del paziente, per esempio, ma assicura che al Memorial ci stanno lavorando.

Bach non si limita a criticare l’attuale sistema di determinazione del costo dei farmaci (negli Stati Uniti, è l’azienda a fare il prezzo secondo criteri non sempre coerenti e, soprattutto, poco trasparenti), ma avanza riserve anche sull’opzione del paying for drugs when they work, una prospettiva nota anche in Italia dove l’esperienza dei registri di farmaci oncologici è stata legata al cosiddetto payment by results in un’ottica di risk sharing3. È troppo difficile, sostiene Bach, determinare quale intervento sia stato responsabile di un miglioramento delle condizioni del paziente nel corso di una strategia terapeutica complessa, come quella solitamente messa in atto in campo oncologico. Premiare i prodotti in grado di far conseguire un risparmio complessivo al sistema sanitario è un’altra possibilità da scartare e per dimostrarlo l’autore ricorre a un esempio forse un po’ cinico ma efficace: salvare la vita con Sovaldi a un malato di epatite è doppiamente costoso, vuoi per il prezzo del farmaco vuoi per le spese che per quella persona il servizio sanitario dovrà sostenere nel corso degli anni “a causa” della sua sopravvivenza.

In una Perspective successivamente uscita sul New England4, il clinico del MSKCC torna a puntare il dito contro una serie di farmaci tanto pubblicizzati quanto relativamente utili. A farne le conseguenze non è solo il sistema sanitario ma anche le famiglie che sostengono direttamente una quota della spesa farmaceutica: «The high cost of cancer care also drive patients into bankruptcy». Un gran numero di pazienti che si vede prescritta una terapia innovativa si trova a dover sostenere una spesa annua di circa 13 mila dollari, vale a dire oltre la metà del reddito medio di un assistito dal programma Medicare. È un tentativo obbligato, la cura con i nuovi farmaci? L’analisi di Bach sottolinea come il rapporto costo-efficacia dei farmaci più recenti possa apparire non del tutto sfavorevole quando il confronto si effettua con altri prodotti “innovativi”. Molto diverso è il quadro quando si vanno a comparare con alternative a basso costo ma comunque plausibili.

Il tasso di introduzione dei nuovi e costosissimi prodotti è molto aumentato: la percentuale di prodotti approvati dalla Food and Drug Administration è passata negli ultimi 7 anni dal 56 all’88 per cento sul totale delle domande presentate. Per giustificare questo “ottimismo” nella valutazione è stata spesso giocata la carta del finanziamento dell’innovazione attraverso la riduzione di prezzo di medicinali successivamente alla perdita del brevetto: non solo l’ondata delle “genericazioni” è in esaurimento, ma anche il prezzo di numerosi medicinali equivalenti è in costante crescita.

L’introduzione di nuovi farmaci ad alto costo sta per interessare popolazioni di pazienti molto più numerose, per esempio in ambito cardiovascolare: è necessario che i sistemi sanitari si dotino tempestivamente di strumenti capaci di sostenere un governo della spesa farmaceutica costantemente informato dai dati clinici di efficacia, sicurezza e tollerabilità.

Bibliografia

1. Beasley D. US Cancer doctors drop pricey drugs with little or no effect. Reuters, 8 ottobre 2015.

2. Bach BP. A new way to define value in drug pricing. Harvard Business Review 2015; 6 ottobre. https://goo.gl/DBY5dj - Ultimo accesso 22 novembre 2015.

3. Addis A, Martini N. Dalle note limitative ai registri AIFA. Recenti Prog Med 2013; 104: 229-35.

4. Bach PB. New math on drug cost-effectiveness. New Engl J Med 2015; 373: 1797-99.




Ospedali modello McDonald

Efficienza, misurabilità, prevedibilità e controllo. Sono le caratteristiche peculiari (e vincenti) del modello McDonald, quello dei cheeseburger. Efficienza nel ridurre i costi massimizzando i risultati. Poco importa se il personale è inesperto e sbaglia a prendere le comande o a servire le salse. Misurabilità per monitorare costantemente l’andamento del business ed eventualmente intervenire sugli sprechi: dopo venti minuti quel tavolino deve essere libero e in sala e in cucina devono essere consapevoli che il turn-over dei clienti ha un impatto diretto sugli stipendi dello staff. Prevedibilità: alla stessa ordinazione a Milano o a Chicago deve corrispondere “quel” piatto, lo stesso hamburger con la medesima salsa e l’identica cottura delle patatine. Sono gli avventori a doversi adattare e la promozione del brand sarà finalizzata a far sentire a disagio i clienti che preferirebbero qualcosa di un po’ differente. Il controllo è quello delle tecnologie sui percorsi e l’attività delle persone.

Il modello McDonald è già stato introdotto nell’assistenza sanitaria di molte realtà internazionali, soprattutto negli Stati Uniti, sostengono E. Ray Dorsey e George Ritzer su JAMA Neurology1. Per certi aspetti è una garanzia, sostiene il clinico della Rochester University: efficienza, misurabilità prevedibilità e controllo possono essere importanti e, se applicate con giudizio, avere un effetto positivo. Però, come l’esperienza di un pranzo al fast food difficilmente risulterà appagante dal punto di vista dei rapporti umani, anche un’assistenza sanitaria che non tenga in debito conto l’importanza delle relazioni tra le persone rischia di essere dannosa sia per i malati, sia per i professionisti sanitari. «The problem is excessive reliance on these principles», scrive Dorsey indicando possibili correttivi.

Ridurre il carico amministrativo e burocratico dei clinici potrebbe liberare del tempo da offrire ai pazienti e ai loro familiari. Destinare risorse umane ed economiche all’assistenza domiciliare quando il ricovero ospedaliero non aggiunge valore alla cura può rivelarsi un’altra scelta opportuna. Adottare sistemi informativi capaci di sostenere il medico invece di aggravare il suo carico di lavoro è un altro obiettivo da perseguire.

Valutare la performance del medico e delle strutture sanitarie in termini quantitativi è il rischio maggiore: «Non chiedeteci quante cartelle cliniche abbiamo movimentato in un mese, piuttosto domandateci quanti malati abbiamo confortato e a quante vite abbiamo provato a sostenere».

Bibliografia

1. Dorsey ER, Ritzer G. The McDonaldization of medicine. JAMA Neurology 2015; Nov 16: 1-2. doi: 10.1001/jamaneurol.2015.3449. [Epub ahead of print].