Buona fine e buon principio.
Quale futuro per le riviste scientifiche?

Luca De Fiore1

Good ending and better beginning. What future for medical journals?

Summary. Scientific journals play an increasingly important role in the dissemination of research results, but also in the adoption of pharmaceutical innovation and technology in medicine. Healthcare decision makers are strongly influenced by the academic literature and for this reason medical journals should retain their independence and autonomy, preventing conflicts of interest. In a recently published editorial, the editor of the New England Journal of Medicine seems to be pleased with the results achieved. On the contrary, according to the editor of a respected specialized cardiovascular journal, Harlan Krumholz, journals are facing a number of important challenges. Medical journals are too expensive, too limited, too unreliable, too focused on wrong metrics, too powerful, too parochial, too static, and too dependent on a distorted model of business. In conclusion, medical journals do not seem to be the most appropriate educational tool in a scientific context that assigns value to transparency and sharing.

Quindici anni di direzione scientifica del New England Journal of Medicine: quella di Jeffrey N. Drazen è un’esperienza duratura e di successo, celebrata da lui stesso in un Editoriale uscito sul Journal a fine ottobre 20151. «Abbiamo cambiato il mix di quello che pubblichiamo», spiega il direttore: lo spazio delle Perspective ha assunto un’importanza centrale, come osservatorio sull’attualità di politica sanitaria non solo statunitense. Ma, soprattutto, è aumentato il numero di articoli che riportano studi sperimentali e osservazionali: oggi occupano il 60% delle pagine della rivista. D’accordo con l’International Committee of Medical Journal Editors (ICMJE), il New England è stata tra le prime riviste a richiedere agli autori di registrare i trial come condizione per la submission di un articolo (2005). Dal 2011 la rivista è diventata ancora più esigente e obbliga gli autori a pubblicare sul sito del giornale anche i protocolli di ricerca e le analisi statistiche, rendendoli accessibili a tutti i lettori e non più soltanto ai revisori in fase di peer review. Ancora: dal 2009, una nuova policy sul conflitto di interessi – di nuovo concordata con l’ICMJE – ha voluto sollecitare la determinazione di uno standard comune a livello internazionale: nessuna intransigente preclusione ad accettare contributi di autori legati a industrie farmaceutiche ma attenta vigilanza su ogni possibile distorsione, basata su quello che Drazen definisce “editorial judgement”. Utile novità, aver inserito la provenienza del finanziamento per lo svolgimento dello studio all’interno dell’abstract, così che il rischio di interessi in conflitto sia chiaro anche al lettore più frettoloso.

Innovazione anche formale: se il 90% dei lettori consulta oggi la rivista su web è pure perché i contenuti multimediali hanno progressivamente integrato quelli testuali. L’obiettivo è risparmiare tempo nella consultazione e nella lettura: immagini (per risolvere le sfide lanciate via Facebook o Twitter) e video, sia di procedure cliniche sia di presentazione dei contenuti della rivista. Risparmiare tempo è nell’interesse degli autori stessi (e degli sponsor, ma questo Drazen non lo dice), così che il processo di approvazione editoriale diventa sempre più breve e la pubblicazione online finisce molto spesso col precedere di diverse settimane quella sulla copia cartacea.

Grande entusiasmo a Boston. Meno ottimismo a 137 miglia di distanza, alla Yale University. Harlan M. Krumholz, direttore di Circulation Cardiovascular Quality and Outcomes, propone una prospettiva radicalmente diversa in un articolo dal titolo emblematico (se non programmatico): “The end of journals” 2. La premessa è fondamentale per comprendere il punto di vista di Krumholz: «Come direttore di una rivista, ricercatore e avido lettore di letteratura scientifica sono nelle migliori condizioni per riflettere sulla situazione delle riviste scientifiche». Aggiungendo, elegantemente, che le sue osservazioni si riferiscono in primo luogo alla propria rivista.

Le riviste sono troppo lente. Il percorso di pubblicazione è troppo lungo e i tempi che separano la conclusione di uno studio (e la preparazione di un articolo) dalla uscita su una rivista sono inaccettabili soprattutto perché – implicitamente – questo ritardo può apparire come una conferma della sostanziale inutilità di gran parte dei contenuti pubblicati. Se non c’è fretta…

Le riviste sono troppo costose. Dal punto di vista degli autori, le spese stanno crescendo, non soltanto in caso di pubblicazione su periodici che seguono il modello dell’open access. I fondi per pagare la pubblicazione vengono sottratti ai finanziamenti per la ricerca e non è accettabile che la medicina accademica sostenga costi così elevati pur continuando a offrire tempo e competenza per lo svolgimento dell’attività non retribuita di peer review. Per non parlare dei costi degli abbonamenti, diventati ormai insostenibili per gran parte delle biblioteche.

Le riviste sono troppo limitate. Tra le migliaia di cartelle di cui sono composti i Clinical Study Reports utili per l’approvazione dei nuovi farmaci e le 6 o 7 pagine pubblicate su una rivista c’è un abisso di conoscenza mancante. Il fattore di compressione tra l’una e l’altra fonte è un segnale di allarme3 soprattutto considerando la scarsa trasparenza sui criteri di selezione di dati e informazioni nel passaggio dalle autorità regolatorie al pubblico.




Le riviste sono troppo inaffidabili. La revisione critica è imperfetta e manca di trasparenza. I criteri che contribuiscono a filtrare l’informazione e a valutarne la qualità non sono chiari e riviste simili possono arrivare a conclusioni diverse in merito al valore di un contributo.

Le riviste si concentrano troppo sulle metriche sbagliate. L’impact factor è la misura della qualità di un periodico anche se la comunità scientifica è consapevole dei limiti di questo indicatore. Nonostante tutto, resta un riferimento indiscusso così che autori, editor e editori guardano più alle citazioni attese che al valore di un articolo.

Le riviste sono troppo potenti. L’accettazione di un articolo da parte di una rivista importante può valere una carriera o la fortuna di un prodotto farmaceutico o di un device. Ripresi dalla stampa laica, i contenuti pubblicati dalle riviste scientifiche influenzano in modo rilevante i comportamenti dei cittadini e le decisioni dei policy-maker. La concentrazione di potere è, in sostanza, troppo elevata.

Le riviste sono troppo parrocchiali. Sebbene la scienza non abbia confini, i periodici scientifici li hanno, eccome. L’impressione è che difendano i propri steccati, privilegiando chi è all’interno di una disciplina, di una nazione, spesso di una università, di una società scientifica o, addirittura, di un reparto.

Le riviste sono troppo statiche. Un articolo è qualcosa che viene pubblicato, punto e basta. Pochi commenti, poco dibattito e anche poca creatività nel rendere più dinamici e comprensibili i contenuti.

Le riviste dipendono troppo da un modello di business falsato. L’editoria scientifica somiglia troppo a un ristorante dove il cliente deve cucinare le pietanze, servire la cena e pagare il conto. Serve maggiore trasparenza di profitti e perdite degli editori, per una ragionevole equità nei confronti degli autori ai quali è chiesto – spesso come condizione – di dichiarare ogni reddito percepito.

L’analisi di Krumholz è lucida, realistica e suggerisce un cambiamento. Sul primo numero del 2016, Recenti Progressi in Medicina pubblicherà un quadro sintetico dei ricavi e dei costi della rivista, a beneficio dei lettori. Allo stesso tempo, la policy sul conflitto di interessi prevederà la presenza sistematica di una disclosure.

Il punto di vista del cardiologo di Yale coincide per molti aspetti con quello di Richard Smith che il 22 ottobre scorso, sui blog del BMJ, ha proposto due elenchi: 14 cose che non funzionano nell’editoria scientifica e 12 possibili correttivi4. Il medical publishing soffre lo stesso problema della ricerca: lo spreco. Di tempo, denaro, attenzione, carta, e si perde di vista che il valore va trovato nei risultati degli studi e non nella pubblicazione: «What matters now are not journals but studies backed up by the data on which they are based». La soluzione? Restituire interamente alla scienza ciò che, in fin dei conti, è suo. L’output della ricerca deve essere pubblicato su database pubblicamente accessibili, in un’ottica di condivisione aperta dei dati e di discussione degli stessi.

Private (o liberate) dei report della ricerca, le riviste dovrebbero trovare un altro modello economico (e culturale) per sopravvivere. Anche il processo di peer review cambierebbe nel momento in cui le riviste non publicassero più articoli originali ma punti di vista e commenti. L’augurio è che possano tornare a essere uno spazio di discussione e di dialogo, per un confronto costante sui temi clinici e di politica sanitaria, e per un opportuno e più tempestivo scambio di idee su quello che si intravede all’orizzonte.

Conflitto di interessi: l’autore è direttore del Pensiero Scientifico Editore e pertanto è in una situazione di potenziale conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Drazen JM. Fifteen years. New Engl J Med 2015; 373: 1774-5.

2. Krumholz HM. The end of journals. Circ Cardiovasc Qual Outcomes 2015; 8: 533-4.

3. Doshi P, Jefferson T. Clinical Study Reports of randomized controller trials: an exploratory review of previously confidential industry reports. BMJ Open 2013; 3: e002496.

4. Smith R. A better way to publish science. BMJ Blogs 2015; 22 ottobre 2015.