Recensioni




Nel 1974, nelle pagine di To err is human, Lewin Thomas scriveva che «gli errori sono la vera base dei pensieri umani […]. Se non fossimo stati dotati del talento di sbagliare, non saremmo riusciti a far nulla di utile». Intrigante. Peccato non sia sempre così, però. Prendiamo il caso di questo libro appena uscito, Acqua fresca?, a cura di Silvio Garattini.

Nella prefazione, l’editore fa notare che «[…] abbiamo ritenuto utile progettare un libro che raccolga e svolga questi argomenti favorendo (una volta per tutte?) una migliore informazione sul tema». In questo caso un piccolo errore è quello di aver trascurato il fatto che anch’io avevo partorito un libro del genere anni fa, nel 1997, Guarire dall’Omeopatia, con la fortuna di una doppia edizione e di un certo clamore su giornali e periodici.

Ma ricordo questo non solo per malcelato orgoglio e narcisismo. Anche per sottolineare come a distanza di 20 anni, in un’Italia claudicante – con votanti che arrivano quasi al 50%, con neolaureati in matematica quasi scomparsi, dove si legge meno, in particolare libri scientifici, mentre aumentano violenze in casa e videogiochi mangiasoldi –, in un’Italia siffatta si senta ancora il bisogno di un libro del genere. In apparenza contro lo stesso nemico mordace, ragionevole in apparenza, pieno di speranze e illusioni.

Di errori è lastricata tutta la strada dell’omeopatia, dal primo commesso dal geniaccio di Samuel Hanheman a quelli della sua sfilza di epigoni, compresi quelli lungo la strada, per esempio quello di Jacques Benveniste con la quasi complicità di John Maddox su Nature. Anche se non ne abbiamo più memoria, al termine di quell’indagine, di quanti avevano partecipato alla ricerca alcuni si defilarono, altri se ne andarono sbattendo la porta e ci fu persino chi venne messo alla porta, come Elisabeth Davenas, prima firmataria dell’articolo, il cui stipendio era pagato dalla ditta Boiron, ubiquitaria ovunque si parli di omeopatia. E presente anche oggi, naturalmente.

Degli errori loro – degli omeopati intendo – se ne ricordano diversi nelle pagine del libro. Un libro onestamente da leggere per quanti volessero capire com’è nata, di cos’è fatta, quali siano (sino a oggi, 2015) le sue prove a carico.

Non so se chiamarli errori etici, logici o scientifici, ma la conclusione nelle pagine di Prescrire, Medical Letter, Lancet, FDA, BMJ è sempre stata ossessivamente quella riportata nelle pagine del libro di Garattini: Non meglio del placebo. «Non vi sono evidenze affidabili che l’omeopatia sia efficace per trattare condizioni di salute», ha concluso anche un’analisi del National Health and Medical Research Council, in Australia.

Sempre in tema di errori, però, in queste pagine, ne ho rilevato uno più grande. Sì, manca tutto quanto c’è nelle provette, cioè il niente. Si descrive con chiarezza al profano perché quei rimedi non portino a nulla. Ma manca il prima, però. Perché le persone scelgono l’omeopatia da principio. «L’omeopatia è irrilevante sul piano curativo – è stato detto – ma possiede un grande valore critico nei confronti della pratica medica del tempo». Osserva l’omeopata Steven Kayne che «gran parte dei professionisti omeopati della salute lo sono diventati in modo reattivo, cioè andando incontro a una richiesta dei loro clienti più che in modo attivo», per loro iniziativa personale.

Se non guardiamo a questo aspetto, ovvero ai nostro errori, storici e attuali, la nostra battaglia sarà sempre persa. Già nel 1988 lo psichiatra Arthur Barsky segnalava quello che definiva “il paradosso della medicina” sulle colonne del New England Journal of Medicine. E il paradosso è che più aumentano i progressi della medicina e migliora lo stato di salute della popolazione, più i pazienti si dichiarano insoddisfatti delle cure che ricevono. Al centro dell’insoddisfazione sono il timore di non ricevere cure adeguate, di non avere accesso al luogo di cura più qualificato, più specializzato, più tecnologico, di avere “meno” in termini di qualità e quantità di cure di ciò che si potrebbe avere, e che forse salverebbe la vita a tutti.

Ecco perché nel libro manca qualcosa, responsabile, credo, di molto del successo dell’omeopatia in Italia e di tutte le altre terapie complementari nel mondo. Mancano:

le cure e attenzioni del medico;

la possibilità di spiegare per bene le ragioni di un disagio esistenziale o del peggioramento del dolore o dell’aggravamento del cancro;

la necessità di non attendere nel suo studio;

la necessità di parole chiare, capaci d’informare e rassicurare;

la necessità di soli esami necessari e sicuri;

la tranquillità di una cura utile davvero, ovvero risultata efficace e adatta alla scopo;

la possibilità di parlare senza sentirsi ingolfati da personale che preme;

la possibilità di parlare senza la presenza un informatore medico nello studio;

la consapevolezza di cosa siano salute e malattia;

la responsabilità di cosa possa fare la medicina, quali siano i suoi limiti.

Anche se le generalizzazioni somigliano ai rimedi omeopatici per ciò che contengono, si può immaginare lo stesso che un malato prima di andare dal medico, penserà alla scarsa cura che gli presterà, alla velocità della visita in un paio di domande, alla nostalgia di una visita accurata, alla possibilità di una reazione avversa dopo il farmaco, memore dell’ultima sofferta. E questo nonostante avesse fatto presente che forse non c’era bisogno di un farmaco nuovo visto il successo di quello usato in passato.

Tutto sommato, perché non seguire la proposta omeopatica, apparentemente vincente? Perché non associare vecchio e nuovo? Perché, in caso di infezione diarroica da Klebsiella, non associare trapianto fecale e rimedi omeopatici?

L’osservazione che faccio oggi alle pagine del libro è che se le critiche all’omeopatia (o alle altre medicine complementari) si limiteranno al merito della questione spiegando solo perché l’omeopatia non può funzionare, l’obiettivo non sarà centrato. Potranno rispondere, polemici, gli addetti ai lavori, ma ai lettori il messaggio arriverà dimezzato.

Come è stato detto: «La ragione non è per tutti: quelli che la negano non possono essere riconquistati».

Stefano Cagliano