Medicina e letteratura: un’antologia

Da: Il paradiso degli animali

di David James Poissant

Milano: Enne Enne Editore, 2015

Come aiutare tuo marito a morire [How to help your husband die]

Un giorno tuo marito, lo chef, rimane a letto con lo sguardo offuscato, madido di sudore, e ti dice che negli ultimi sei mesi ha tossito sangue. La mattinata diventa frenetica. Dice che dovete andare subito al pronto soccorso. Gli chiedi perché non è andato da un medico sei mesi fa. Gli chiedi perché fa il macho quando si tratta della sua salute. Gli chiedi cosa pensava sarebbe successo visto che continuava a fumare. Gli chiedi se non pensa che sarebbe stato meglio averlo scoperto subito, dovesse trattarsi di qualcosa di serio. Lo sgridi, e quando arrivano le brutte notizie, non sarà colpa tua. Quando arrivano le brutte notizie potrai dire “Te l’avevo detto”. Quando arrivano le brutte notizie, piangi e ti penti di quello che hai detto. Lui non piangerà. Lui non dirà proprio niente. Tornerete a casa in silenzio. Digli di non preoccuparsi, che potrebbero essere mille cose, che l’ospedale ha detto solo che è probabile, che nessun buon medico fa una diagnosi così alla prima visita.

[…]

Prenota altri esami: risonanza magnetica, tomografia computerizzata, ecografia polmonare, radiografie, esami del sangue. Organizza appuntamenti, consultazioni, quelle che le allegre segretarie degli studi medici chiamano visite. Cerca altri pareri, due, tre, quanti ce ne vogliono per trovare un medico che dirà “Non è quel che sembra”.

Accompagnalo a ogni appuntamento. Quando ti dice che lo metti in imbarazzo, smettila di piangere davanti ai medici. Smetti di piangere prima che ti chieda di non ac­compagnarlo più.

[…]

Dopo un mese di visite, cataloga le varie possibilità, i diver­si pareri della ventina di medici che hai incontrato. Penserai: “Forse è il diabete”. A prescindere da quello che dicono i medici, decidi che è solo il diabete, proprio come era sempre il diabete tutte le volte che è stato male, e che si riprenderà. Ripeti a te stessa che sei stanca di dottori, che i raggi X di domani saranno gli ultimi. Sorridi pensando che l’attesa è quasi finita.

Tieni il sottile foglio trasparente nelle mani, passa un dito sulle due bistecche grigie, le macchie di luce in ciascun pol­mone. Il medico insisterà che le masse non sono benigne. Tu scrolla il capo e di’ soltanto be’.

Il medico dirà a tuo marito che ci sono varie opzioni, ma in realtà ne ha solo una, se vuole vivere. Ascolta e sorridi come faresti con qualcuno che ti racconta una barzelletta poco di­vertente, anzi, che in realtà sotto sotto mira a ferirti. Sorridi come faresti con una persona che dovrebbe soltanto chiudere la bocca, per amor del cielo.

Discuti le probabilità di sopravvivenza come se non fos­sero probabilità ma suggerimenti, nel caso uno scegliesse di morire.

Quello che il medico non ti dice è che, insieme, le due malattie distruggeranno tuo marito. Che tanti dei medicinali necessari a trattare il diabete interferiranno con la chemiote­rapia e le radiazioni, con gli antibiotici per la polmonite. Che starà malissimo, come non è mai stato. Che alla fine, sarà la cura a ucciderlo.

Ma tu lo percepirai. In un attimo capirai cosa vi aspetta. Lo saprai con la stessa certezza con cui hai sempre capito che è un tumore, e che tuo marito non vedrà un’altra estate. E, veloce come è arrivata, nascondi quella piccola rivelazione, spingila sotto le coperte del tuo cervello, e chiedi all’uomo in camice bianco qual è la mossa successiva.

Comincerà la cura tra una settimana. Entrambi detestate l’attenzione, la pietà, la curiosità travestita da preoccupazio­ne. Non vi sono mai piaciuti i fiori né i cioccolatini, biglietti pastello con scritte arzigogolate e brani dai Proverbi. Giu­ratevi di non dirlo a nessuno. Dillo subito a tua sorella. Lui lo dirà a suo fratello. Entrambi penserete che sarebbe bello avere ancora i genitori.

[…]

Di sicuro, una sera, tornerà dal lavoro, si siederà al tavolo della cucina e fisserà a lungo la parete. Siediti vicino a lui, toccagli una spalla. Chiedigli cosa c’è che non va. Lui rispon­derà solo «Non sento nessun gusto».




Ripensa a un pezzo sul New York Times, gli scimpanzé ma­lati di cancro su cui hanno fatto i test alla Johns Hopkins, e il farmaco sperimentale che li ha salvati. Cerca di ricordare perché un farmaco che ottiene risultati cosi straordinari non è stato approvato, quali effetti collaterali l’hanno reso troppo rischioso. Chiediti se lo metteranno in vendita presto. Sappi che ci vorranno altri dieci, venti anni.

Chiediti se quel farmaco è sul mercato nero. Impegnati in varie ricerche su internet. Quando non salta fuori nulla di interessante, lancia la tastiera dall’altra parte della stanza. Su un foglio, scrivi fanculo fda in furioso inchiostro nero. Attacca il foglio sopra il tuo computer.

[…]

Quando tuo marito torna dal ristorante una sera e crolla a terra, capisci che ormai deve rimanere a casa. Aiutalo a dimenticare il suo lavoro. Concentrati sulla chemio. Concentrati sulle radiazioni. Concentrati per aiutarlo ad arrivare alla fine di ogni giornata.

Nota i capelli in bagno. Fili nel lavandino e nella doccia, ciocche negli scarichi. Capelli scuri su piastrelle bianche. Mucchietti negli angoli, come se li avessi spazzati in un punto. Quando trovi una ciocca nel letto, prendila e mettila in una busta di plastica, come al primo taglio da bambini. Quando tuo marito trova la busta e ti grida dietro, buttala via.

Quando ha perso tutti i capelli, digli che è bello. Se vuoi sentirlo ridere, carezzagli la pelata e fai le fusa come un gatto.

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La sera in cui il livello di glicemia di tuo marito cala all’im­provviso, quando ha il primo attacco, chiama il 911. Sali sull’ambulanza con un paramedico che cercherà di fare con­versazione. Le sue parole ti suoneranno come una canzone cantata in un tunnel lontano un chilometro. Gli chiederai di smettere di parlare. Ripeterai la richiesta. Quando ti rendi conto che stai urlando, affonda il viso nella camicia di tuo marito e piangi.

Quando si riprende dalla reazione insulinica, siediti vicino a lui sul sottile materasso dell’ospedale. Guardalo dormire. Stai sveglia tutta la notte e passagli una mano sul braccio, dalla spalla al gomito, dal gomito al polso. Ti renderai conto che hai passato così tanto tempo a studiare la malattia che ti sei dimenticata di prepararti al dopo.

[…]

Cerca di metterti comoda sulla poltrona vicino al suo letto. Ripeti a te stessa che potresti dormire solo se conoscessi il nome del congegno che gli pende sopra la testa, la fisarmo­nica nera che pompa su e giù nel tubo di vetro, che si accar­toccia su se stessa come una molla giocattolo, poi si tende, mostrando le costole mentre si gonfia.

Da quel giorno in poi, trascorri le tue giornate nella stanza d’ospedale, perché è lì che tuo marito passerà il resto della sua vita. Impara a capire quando ne vuole parlare e quan­do non vuole, a prescindere dalle parole che gli escono dalla bocca.

Compra una pianta in vaso, bella ma facile da mantenere, e mettila su un tavolo vicino alla finestra, dove avrà tanta luce. Bagnala ogni giorno. Ripeti a te stessa che, finché la pianta vive, lui vivrà. Nei giorni peggiori, immagina la pianta come la sua ancora di salvezza. “La pianta è viva, lui non può morire”.

[…]

Quando la fine è in vista, digli che te ne vai. Che vai via e lo porti con te. Lavalo, vestilo e sfilagli la flebo. Lascia che il liquido esca dal tubo e vada a terra. Stacca l’elettrocardiogramma dalla presa e gli elettrodi neri dal suo petto, dai cerchi glabri che gli hanno creato tra i peli.

Quando protesta, non cedere. Ti ringrazierà più tardi, non importa quello che dice ora. Si preoccuperà per le spese, l’as­sicurazione. Si preoccuperà di essere un peso. Digli che è troppo giovane per quello. Digli che la parola peso non ha lo stesso significato di quando la usava tua madre quando era malata, perché tuo marito intende proprio quello, ma lui non potreb­be mai essere un peso per te. Quando proprio tutto non funziona digli di stare zitto perché non vuoi passare un’altra notte in ospedale. Quando lo solleverai, sarà così leggero che ti girerà la testa. Avrai l’impressione di avere in braccio un bambino. Aiutalo a salire sulla sedia a rotelle, poi parti all’attacco. In­fila una porta laterale e, quando senti la voce di una donna, non voltarti. Guida fino a casa e quando arrivi, stacca tutti i telefoni.

Mettilo a letto nel suo letto. Sdraiati vicino a lui per la pri­ma volta dopo mesi. Accetta l’idea che tutto andrà più in fretta d’ora in poi, senza fluidi né pillole, monitor né morfina, elettrodi e tubi. Asciugagli il sudore dalla fronte e dal collo. Mettigli altre coperte quando sentirà freddo.

Mentre dorme, ascolta il suo respiro. Guarda le coperte che si alzano e si abbassano. Rimani sveglia a contare i respi­ri, a calcolare gli intervalli tra l’uno e l’altro, a considerare la distanza. Man mano che i respiri si fanno più radi, cerca di formulare un’equazione per capire se, di questo passo, arrive­rà al mattino. Chiediti, nel silenzio dell’alba, se ogni respiro che hai appena sentito è l’ultimo. Capirai cos’è la dispera­zione. Capirai cos’è l’impotenza.

Addormentati quando sorge il sole. Ti sentirai debole, e sola.

Ti svegli al suo sorriso, e capisci che ti ha guardato mentre dormivi. Sarà troppo stanco per parlare. Non cercare di ri­empire il silenzio con le parole.

Aiutalo a scendere dal letto con ordini rapidi, semplici. “Alza la testa. Abbassa i piedi. Tieniti alla mia spalla”. op­pure rimani in silenzio. Nulla di quello che dici renderà la cosa sacra. Qualsiasi parola tu voglia dirgli prima che muoia è solo per te, quindi conservala per stanotte, per quando se ne sarà andato.

Portalo in spiaggia. Portalo perché è bello. Portalo perché puoi farlo. Portalo a metà mattina, avvolto nelle coperte, per­ché è primavera e fa ancora freddo prima di mezzogiorno. Siediti sulla spiaggia e disegna le vostre iniziali intrecciate sulla sabbia, come due ragazzini innamorati. Gioca a tris e lascia­lo vincere. Stringilo quando tossisce e non riesce a smettere. Scricchiolerà come uno scheletro tra le tue braccia. Scava una buca nella sabbia perché possa sputarci dentro. Spargi la sab­bia sulla bile giallastra.

Rimanete seduti come turisti a guardare l’acqua e a chieder­vi perché non l’avete mai fatto prima. Abitate a venti chilome­tri dalla spiaggia e in vent’anni non ci siete mai venuti insieme, nemmeno una volta. Pensaci, ma senza soffermarti troppo.

Quando tuo marito si volta e ti offre la sua confessione, quando ti racconta tutte le cose terribili, tutti i torti che ti ha fatto, per quanto ti faccia soffrire, non costringerlo a im­plorare il tuo perdono. Digli che lo ami, che non importa nient’altro. Fallo perché siete arrivati alla fine insieme, perché non ha senso rendere tutto più difficile. Perché forse l’amore vale più della fedeltà. Perché forse una promessa spezzata si può ancora mantenere.

Amalo, quest’uomo che ora ti implora di trovare qualcun altro e presto, che vuole soltanto la felicità per te.

Il grande mondo rotondo si ridurrà a un niente, e vedrai la verità nei suoi occhi, che la vita, che vivere, è più di quello che è successo prima. È tutto quello che hai ora, il sole e la sabbia, questi gabbiani in cielo e le nuvole bianche e il cielo azzurro, e non distogliere lo sguardo altrimenti sparirà. Il mondo esiste solo se tu lo guardi, finché tieni gli occhi aperti. Tieni gli occhi su di lui e lui non ti lascerà mai. Rimarrà se eviti di chiudere le palpebre. E gli occhi ti faranno male, bruceranno dallo sforzo di tenerli aperti tutto quel tempo, e quando abbasserai le palpebre, per un secondo, se ne sarà andato.