L’impatto della non aderenza alle terapie farmacologiche sulla qualità dell’assistenza e sulla sostenibilità dei sistemi sanitari.

Focus sulle malattie cardiovascolari

francesco pelliccia1, francesco romeo2

1Dipartimento “Attilio Reale”, Sapienza Università di Roma, Roma; 2Cattedra di Cardiologia, Dipartimento di Cardiologia, Università “Tor Vergata”, Roma.

Riassunto. L’aderenza del paziente al trattamento farmacologico è decisiva per il successo di qualsiasi terapia, soprattutto in caso di patologia cardiovascolare. Vi è ormai accordo sul fatto che i fattori che determinano una scarsa aderenza terapeutica non sono solo quelli riconducibili al paziente, ma anche al sistema sanitario. Negli ultimi anni è emerso il ruolo cruciale rivestito dai farmaci generici o equivalenti nel determinismo della non aderenza terapeutica. L’argomento è stato affrontato di recente in un importante documento di consenso intersocietario pubblicato sul Giornale Italiano di Cardiologia. Le principali Società Cardiologiche hanno focalizzato le dimensioni del problema, le possibili cause e soluzioni e l’impatto nelle malattie cardiovascolari. I medicinali generici sono “copie” dei farmaci “originali” che possono essere immessi in commercio dopo la scadenza del brevetto del prodotto originale a un costo inferiore. Le aziende produttrici, infatti, non hanno avuto spese per la ricerca e, quindi, sostengono solo i costi di pro­duzione e distribuzione. Il commercio e la diffusione alla scadenza del brevetto di farmaci equi­valenti (i cosiddetti “generici”) inizia in Italia nel 2002, quando viene introdotto il “principio” della sostituibilità da parte dei farmacisti. Tuttavia, a parecchi anni dalla commercializzazione persistono dubbi, sia nei pazienti che nei medici, sulla totale somiglianza dei generici con i farmaci originatori e quindi sull’intercambiabilità tra originatore ed equivalente.

Parole chiave. Equivalente, generico, non aderenza terapeutica, originatore.

Impact on non-adherence to farmacologic treatment on quality and sustainability of healthcare. Focus on cardiovascular diseases.

Summary. Adherence to drug treatment is key to successful therapeutic intervention, especially in chronic conditions. This holds particularly true in the setting of cardiovascular diseases, because poor adherence may have serious adverse effects in terms of morbidity and mortality. Many factors may contribute to poor adherence, which can be either patient-related or dependent on the healthcare system, the physician and the environment. The identification and appropriate correction of these factors may result in both clinical and economic benefits. In this setting it is also important to assess the implications of the increasing use of generic or equivalent drugs on adherence to pharmacological therapy. This topic has recently been addressed by an important Expert Consensus Document, endorsed by the Italian Societies of Cardiovascular Disease and Prevention, which was published in the Giornale Italiano di Cardiologia. The document addressed the relevance of the problem, potential determinants and possible solutions.

Key words. Adherence, drug therapy, generic drugs, originator.

Introduzione

L’aderenza del paziente al trattamento farmacologico gioca un ruolo importante per il successo dell’intervento terapeutico, soprattutto nelle condizioni croniche e in particolare nelle malattie cardiovascolari. Infatti, la scarsa aderenza può avere effetti molto gravi anche in termini di morbilità e mortalità.

Vi è ormai accordo sul fatto che i fattori che determinano una scarsa aderenza terapeutica non sono solo quelli riconducibili al paziente, ovvero alla sua ridotta compliance a seguire le prescrizioni mediche, ma anche al sistema sanitario. Riconoscere e correggere tali fattori può determinare considerevoli benefici non solo clinici ma anche economici. A tal proposito, appare anche importante valutare le implicazioni sull’aderenza alla terapia farmacologica legate al crescente impiego dei farmaci generici o equivalenti.

Proprio questi sono stati i principali obiettivi dell’importante documento intersocietario di consenso pubblicato di recente sul Giornale Italiano di Cardiologia1, frutto dello sforzo congiunto della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa, della Società Italiana di Cardiologia, della Società Italiana per la Prevenzione Cardiovascolare e dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri. Il documento ha focalizzato le dimensioni del problema, le possibili cause e soluzioni, e l’impatto nelle malattie cardiovascolari ma, soprattutto, gli esperti delle Società italiane hanno richiamato attenzione sul ruolo cruciale giocato dai farmaci equivalenti nel determinismo della non aderenza terapeutica.

Ruolo dell’aderenza nelle malattie cardiovascolari

Le dimensioni del problema

Il semplice aumento dell’aderenza dei pazienti alla terapia prescritta, che di per sé comporta come inevitabile conseguenza l’aumento dei costi legati alla terapia farmacologica, può influenzare positivamente lo stato di salute, riducendo complessivamente i costi sanitari2. Nella relazione del 2003, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato infatti che «aumentare l’efficacia di adesione alla terapia potrebbe avere un impatto maggiore sulla salute più di qualsiasi miglioramento medico specifico»3. La scarsa aderenza alla terapia causerebbe 194.500 morti all’anno in Europa e si stima che costi circa 125 miliardi di euro/anno in Europa e 300 miliardi di dollari/anno negli Stati Uniti4,5.

La definizione di scarsa aderenza terapeutica

Con “aderenza” ci si riferisce a un comportamento attraverso il quale i pazienti rispettano tutte le indicazioni e assumono i farmaci secondo le modalità previste dalla prescrizione del medico6. Il termine “aderenza” ha di fatto sostituito il termine “compliance” nella letteratura medica.

Anche se il paziente è “compliante” alle indicazioni, solo la misura dell’aderenza terapeutica può riflettere l’efficace interazione con il medico per raggiungere gli obiettivi terapeutici prefissati. Nello specifico, si può definire l’aderenza come la percentuale di compresse o capsule che il paziente assume secondo le modalità prescritte. Per convenzione, viene usato un cut-off di 80% per classificare l’aderenza ai farmaci cardiovascolari come adeguata o inadeguata. Una seconda definizione di aderenza considera la durata di tempo durante il quale il paziente assume un farmaco, anche se in modo intermittente, prima di interromperlo prematuramente e in modo permanente. Con questa definizione, i pazienti sono classificati come non aderenti se interrompono un farmaco prima di un certo limite temporale. Il termine “persistenza” nel trattamento cronico riflette meglio questo concetto. Per “non aderenza primaria” si intende invece una situazione in cui il paziente sospende l’assunzione di un farmaco prima ancora di finire la prima prescrizione, o addirittura prima ancora della prima assunzione2,7.

La definizione di aderenza risulta più dibattuta in ambito cardiovascolare. Infatti, vi è forte motivo di sospettare che la soglia ottimale di aderenza possa variare tra i farmaci come risultato di differenze nelle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche, ed è quindi concepibile che in determinati ambiti clinici, quale, per esempio, l’uso di farmaci antiaggreganti dopo una procedura di angioplastica percutanea con stenting coronarico, la soglia ottimale di aderenza debba necessariamente essere considerata più alta e potrebbe anche raggiungere il 100%2. Stessa considerazione può essere fatta per altre classi di farmaci salvavita, come per esempio i nuovi anticoagulanti orali, anche in relazione all’impossibilità di garantire diversamente l’efficacia in terapia.

Più in generale, l’importanza clinica dell’aderenza ottimale al trattamento nelle malattie cardiovascolari è sempre molto alta, in considerazione del rischio, anche a breve termine, di condizioni come valori pressori non controllati o livelli di colesterolemia alti in presenza di cardiopatia ischemica8,9. In una metanalisi di 20 studi osservazionali che hanno coinvolto 376 162 pazienti, la prevalenza di inadeguata aderenza era del 43%10. Nei pazienti con malattia coronarica documentata, i ricercatori della Duke University hanno dimostrato che l’uso costante di alcuni presidi farmacologici di primaria importanza come l’aspirina corrispondeva al 71%, dei betabloccanti soltanto al 46% e delle statine al 44%, mentre, addirittura, rispetto a tutte e tre le terapie in associazione, l’impiego raggiungeva soltanto il 21%11.

Il tasso di adeguata aderenza si riduce ancor di più nell’ambito della prevenzione primaria o in condizioni croniche che determinano trattamenti molto protratti o perenni come l’ipertensione arteriosa o la dislipidemia. L’aderenza è infatti generalmente più elevata tra i pazienti affetti da condizioni acute, rispetto a quelli affetti da patologie croniche. La persistenza tra i pazienti con patologie croniche è deludente, riducendosi drammaticamente dopo i primi 6 mesi di terapia (figura 1)1,12-14.




La non aderenza nelle differenti condizioni cardiovascolari

L’importanza di intervenire efficacemente sulla scarsa aderenza è testimoniata soprattutto da dati che dimostrano un aumento degli eventi e della mortalità cardiovascolare nei pazienti non aderenti (figura 2)15. D’altra parte, l’analisi del ruolo fondamentale dell’aderenza nella gestione delle diverse malattie cardiovascolari è di grande importanza.




La scarsa aderenza alla terapia medica rappresenta la principale causa alla base dell’inadeguato controllo dei valori pressori in pazienti ipertesi16 e, come dimostrato da diversi studi, il mancato raggiungimento dei valori ottimali di pressione arteriosa aumenta significativamente il rischio di eventi cardio- e cerebrovascolari17,18. Viceversa, l’elevata aderenza alla terapia antipertensiva si associa non solo a un miglior controllo della pressione arteriosa19,20, ma soprattutto a un minor rischio di malattia coronarica21,22, infarto del miocardio23, scompenso cardiaco24 e ictus25. In uno studio condotto su oltre 18.000 pazienti con recente diagnosi di ipertensione arteriosa, con un follow-up medio di circa 5 anni, l’elevata aderenza alla terapia medica era associata a una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari (sindromi coronariche acute, ictus, ischemia cerebrale transitoria) del 38%25. Risultati simili sono emersi anche dall’ampio studio condotto dal gruppo di Degli Esposti26 su oltre 31.000 pazienti con recente diagnosi di ipertensione arteriosa con un follow-up di circa 2 anni, che ha dimostrato una riduzione fino al 47% del rischio di endpoint primario (mortalità per tutte le cause, ictus e infarto miocardico) in pazienti con elevata aderenza rispetto a quelli con scarsa aderenza.

Come per i farmaci antipertensivi, anche per la terapia con statine si registrano bassi livelli di aderenza27 e, anche in questo caso, numerose evidenze mostrano come la maggiore aderenza, in prevenzione sia primaria che secondaria, si associ a una significativa riduzione del rischio di eventi cardiovascolari fatali e non fatali, di ospedalizzazione e mortalità per tutte le cause28,29. Tra i pazienti affetti da cardiopatia ischemica, la scarsa compliance alla terapia ha gravi conseguenze. Lo studio condotto da Rasmussen et al.30 ha dimostrato che la scarsa aderenza alla terapia con statine nel corso dell’anno successivo a un infarto del miocardio era causa di un aumento del rischio relativo per mortalità del 12-25% a seconda del grado di aderenza, e risultati simili emergevano anche per l’aderenza ai betabloccanti.

Impatto dell’impiego dei farmaci equivalenti

Negli ultimi anni, per effetto delle numerose scadenze brevettuali in diverse terapie, è notevolmente incrementato il numero di farmaci equivalenti disponibili per i vari principi attivi in ambito cardiovascolare.

Per “equivalente” si intende un medicinale non coperto da brevetto (off-patent) e inserito dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) in apposite liste, aggiornate mensilmente, che stabiliscono l’equivalenza tra più prodotti in termini di principio attivo, forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio e numero di unità posologiche (“liste di trasparenza”). La categoria dei farmaci equivalenti si compone dei farmaci branded, cosiddetti “originator”, e unbranded, cosiddetti “generici”.

Il documento intersocietario sull’aderenza al trattamento farmacologico ha preso in considerazione le principali evidenze relative alla valutazione dell’impatto dell’impiego dei farmaci equivalenti e delle modificazioni terapeutiche sull’aderenza alla terapia nelle malattie cardiovascolari1.

Rispetto al primo punto e, quindi, a livello di aderenza nei pazienti in trattamento con farmaci originator o generici, i dati disponibili indicano che in caso di ipertensione arteriosa i pazienti in trattamento con i generici hanno un rischio di interruzione del trattamento non differente da coloro che sono trattati con il corrispettivo originator (hazard ratio [HR]=1,00; intervallo di confidenza [IC] 95% 0,98-1,02)31.

Rispetto al secondo punto e, quindi, a livello di aderenza nei pazienti in trattamento in funzione della modificazione terapeutica, uno studio americano condotto su quasi 40.000 pazienti con fibrillazione atriale in trattamento con anticoagulanti orali ha dimostrato che, rispetto ai pazienti costantemente mantenuti in trattamento con il tradizionale warfarin, i pazienti ai quali era prescritto il generico hanno evidenziato un maggior rischio di eventi trombotici ed emorragici (HR=1,81; IC 95% 1,42-2,31)32. Evidenze simili sono state osservate in coloro in cui si è passati da generico a warfarin (HR=1,76; IC 95% 1,35-2,30) e da generico a generico (HR=1,89; IC 95% 1,57-2,29)32. Se i risultati dello studio fossero confermati, la disponibilità di numerosi farmaci equivalenti per uno stesso principio attivo e la normativa circa la sostituibilità tra farmaci equivalenti andrebbero rivalutate, in quanto fattori correlati a una ridotta aderenza al trattamento.

In definitiva, le evidenze rispetto all’impatto dell’impiego dei farmaci equivalenti e delle modificazioni terapeutiche sull’aderenza alla terapia nelle patologie cardiache sembrano dimostrare, da un lato, la sovrapponibilità tra farmaci originator e farmaci generici rispetto all’aderenza al trattamento e, dall’altro, il maggior rischio di non aderenza dei pazienti sottoposti a modificazione terapeutica (switch da originator a generico, da generico a originator oppure da generico a generico). Tale rischio associato alla sostituibilità tra farmaci equivalenti andrebbe preso in considerazione soprattutto nelle terapie per la prevenzione cardiovascolare data la rilevanza delle malattie cardiovascolari e la criticità dell’aderenza al trattamento, soprattutto in relazione ad alcuni principi attivi che prevedono la disponibilità di numerosi prodotti equivalenti e, infine, soprattutto per alcune categorie di pazienti, tra cui gli anziani, che generalmente hanno molteplici terapie in atto e risultano, quindi, sottoposti a un maggior rischio di possibili errori33.

Gli aspetti farmacologici degli equivalenti

Per una piena comprensione delle caratteristiche degli equivalenti è essenziale approfondire gli aspetti farmacologici che li contraddistinguono.

I medicinali generici sono “copie” dei farmaci “originali” che possono essere im­messi in commercio dopo la scadenza del brevetto del prodotto originale a un costo inferiore. Le aziende produttrici, infatti, non hanno avuto spese per la ricerca e, quindi, sostengono solo i costi di pro­duzione e distribuzione. Il commercio e la diffusione alla scadenza del brevetto di farmaci equi­valenti (i cosiddetti “generici”) inizia in Italia nel 2002, quando viene introdotto il “principio” della sostituibilità da parte dei farmacisti. Tuttavia, a parecchi anni dalla commercializzazione, persistono dubbi sia nei pazienti sia nei medici sulla totale somiglianza dei generici con i farmaci originatori e quindi sull’intercambiabilità tra originatore ed equivalente.

Biodisponibilità

La biodisponibilità indica sia la quantità di farmaco che entra nell’organismo dopo la somministrazione di una preparazione farmaceutica, sia la facilità con la quale esso viene assorbito e si rende quindi disponibile per esercitare la sua attività farmacologica. Perché una sostanza abbia il suo effetto farmacologico, è necessario che raggiunga concentrazioni sufficienti a livello dei tessuti e degli organi su cui esplica la sua azione. La biodisponibilità del far­maco varia a seconda delle vie di somministrazione e della relativa cinetica di as­sorbimento che ne condizionano il passaggio dal sito di somministrazione al torrente ematico. Fattori che condizionano l’assorbimento del farmaco sono la sua formulazione, la via di somministrazione, le superfici di assorbimento, la vascolarizzazione del sito di assorbimento, la permeabilità.

L’entità dell’assorbimento di un farmaco deriva, a sua volta, dalla misurazione delle variazioni di concentrazione plasma­tica nel tempo del principio che è stato assorbito, fino al raggiungimento di un valore massimo (picco) di concentrazione. Dalle variazioni di concentrazione nel tempo successivo alla somministrazione derivano poi una serie di valori che consentono di misurare la cinetica del farmaco stesso, caratterizzandone, quindi, la dose ottimale, nonché la potenziale efficacia e i possibili limiti ascrivibili alla tossicità. Tale valutazione si effettua calcolando l’ampiezza delle curve derivanti dalle misurazioni delle concentrazioni nel tempo in funzione della modalità di somministrazione del farmaco e generando successi­vamente, a partire da essa, parametri noti, come “area sotto la curva”, “concentra­zione di picco massimo”, “tempo di picco massimo”. La biodisponibilità viene definita anche come frazione della dose somministrata che raggiunge il circolo generale come farmaco immodificato. In caso di somministrazione orale, si può verificare una biodisponibi­lità incompleta rispetto a quella teorica, attribuibile a incompleto assorbimento e conseguente eliminazione per via enterale, quando la molecola è troppo polare per essere assorbita oppure perché la forma farmaceutica “compressa” non rila­scia completamente il principio attivo in essa contenuto. Un’altra causa di biodisponibilità incompleta risiede nel cosiddetto metabolismo di primo passaggio, che comporta la veicolazione diretta del farmaco assorbito dall’intestino ai vasi tributari epatici, con conseguente catabolizzazione epatica prima della diffusione nel circolo sistemico. La caratteristica biodisponibilità di un farmaco ha rilevanti ricadute sulla pratica terapeutica, perché è il principale parametro attraverso il quale si evince la posologia (dose o range di dosi da somministrare) in funzione della via di assunzione. A titolo di esempio, se un farmaco ha una caratteristica biodisponibilità orale di 0,1, la dose necessaria, a parità di effetto terapeutico, do­vrà essere 10 volte maggiore rispetto a quella efficace per via endovenosa.

Bioequivalenza

Se due forme farmaceutiche diverse (es. compresse e capsule) o uguali, ma con eccipienti diversi, contenenti la stessa quantità di principio attivo producono lo stesso effetto in termini di intensità, esse possono essere definite bioe­quivalenti. Quindi, due preparazioni sono considerabili bioequivalenti se non differiscono significativamente per quanto riguarda ben noti parametri, quali area sottesa alla curva concentrazione plasmatica-tempo (AUC), picco di concentrazio­ne massima (Cmax) e tempo di raggiungimento del picco (Tmax) (figura 3). Formulazioni bioequivalenti che rispondo­no a tali requisiti possono essere usate l’una in sostituzione dell’altra nel rispetto del profilo beneficio/rischio.




Il termine “bioequivalenza” definisce l’equivalenza media di due farmaci aventi profilo di biodisponibilità simile. Occorre, infatti, ricordare che gli studi tramite i quali viene misurata la bioequivalenza dei prodotti non utilizzano parametri cli­nici di efficacia, limitandosi bensì a confrontare la biodisponibilità sistemica di due prodotti, che può poi risultare simile ma non identica, in quanto ci si basa sul concetto che due preparazioni farmaceutiche dello stesso principio attivo, pur avendo un profilo di disponibilità diverso (purché compreso in un certo ambito di valori), possano essere equivalenti sul piano terapeutico. Le norme internaziona­li, infatti, stabiliscono un intervallo di variabilità convenzionale come “range ammissibile” di bioequivalenza. La valutazione di un fenomeno bio­logico, come per esempio la cinetica di un farmaco da confrontare a quella di un altro, è soggetta a estrema variabilità e, quindi, difficilmente valutabile in modo corretto, se non vengono utilizzati opportuni metodi per la sua misurazione che consentano di eliminare la possibile rilevante variabilità dei valori riferiti allo stesso parametro misurato in più individui di una popolazione. Quando si valuta la bioequivalenza tra farmaci generici o tra generici e originator non è, pertanto, sufficiente un semplice confronto dei valori medi delle rispettive concentrazioni plasmatiche, ma si impone piuttosto una normalizzazione dei dati che consente finalmente di giudicare se due valori di concentrazione plasmatica si possano considerare realmente equivalenti o siano invece molto dif­ferenti tra loro e, quindi, non equivalenti. Tale metodo per la normalizzazione viene definito come intervallo (o limite) di confidenza e viene fissato entro il 90%. Sostanzialmente, la bioequivalenza dovrebbe garantire un profilo di biodispo­nibilità simile tra il farmaco originator e il suo generico. Infatti, non è sufficiente che generatore e generico siano caratterizzati dalla stessa forma farmaceutica per garantire gli stessi parametri farmacocinetici e farmacodinamici. Al contrario, come stabilito da una specifica norma, «se generatore e generico, dopo la somministrazione, hanno biodisponibilità simile è probabile che produrranno gli stessi effetti terapeutici attesi». Pertanto, due farmaci si riten­gono bioequivalenti solo se «l’IC 90% per i rapporti delle me­die dei valori di area sottesa alla curva concentrazione plasmatica-tempo (AUC) e picco di concentrazio­ne massima (Cmax) saranno compresi tra 0,80 e 1,25». Tuttavia, il valore medio non rende i­dea di quanto siano realmente diversi i valori ottenuti. Bisogna quindi ricorrere all’IC 90% che indicherà in quale intervallo ricadrà con maggiore probabilità il 90% dei valori esaminati, fornendo, quindi, un’idea ben chiara della variabilità tra i campioni. Affinché due farmaci siano bioequivalenti l’IC 90% delle medie dei parametri in esame deve essere compreso tra 0,80 e 1,25 (figura 4). Tale intervallo è stato scelto perché si assume che la variabilità intraindividuale e interindividuale possa arrivare a un valore prossimo al 20% circa. Tuttavia, pos­sono esserci eccezioni a questo principio, in quanto un IC 90% compreso tra 0,80 e 1,25 potrebbe risultare eccessivo per farmaci caratte­rizzati da un’elevata variabilità farmacocinetica intrinseca e/o da un indice tera­peutico molto ristretto, ovvero farmaci la cui concentrazione di efficacia è molto vicina a quella di tossicità (es. digitalici, anticoagulanti).




Nomenclatura dei farmaci generici o equivalenti

I farmaci generici

La storia dei farmaci generici in Europa e in Italia comincia nel 1965, con la diret­tiva CEE n. 65/65 sui medicinali, che all’art. 8, comma 3, conteneva una norma che avrebbe dovuto facilitare l’ingresso dei “farmaci copia” anche in Italia. Farma­ci generici erano considerati, fino all’entrata in vigore del Decreto Legge 178/91, i galeni­ci officinali (Elenco A del Formulario Nazionale della Farmacopea Ufficiale). Con l’entrata in vigore del decreto legge entra in gioco una nuova definizione: farmaci pre­confezionati prodotti industrialmente. Un significativo passo in avanti si ha con l’art. 130, comma 3 della Legge 28/12/1995, n. 549, che introduce il farmaco generico: «Farmaco il cui brevetto è scaduto, la cui formulazione non è quindi più protetta da brevetto, a denominazione generica del principio seguita dal nome del titolare del­l’AIC». Un concetto in breve tempo ampliato fino alla definizione data dal Decreto Legge n. 323 del 20/06/1996 (convertito in Legge 425/96): «Medicinale a base di uno o più principi attivi, prodotto industrialmente, non protetto da brevetto o da certificato protettivo complementare, identificato dalla denominazione comune internazionale del principio attivo o, in mancanza di questa, dalla denominazione scientifica del me­dicinale, seguita dal nome del titolare dell’AIC, che sia bioequivalente rispetto a una specialità medicinale già autorizzata con la stessa composizione quali-quantitativa in principi attivi, la stessa forma farmaceutica e le stesse indicazioni terapeutiche». Lo stesso decreto sancisce anche le norme riguardanti l’immissione in commercio e la documentazione necessaria al Ministero della Salute.

I farmaci equivalenti

Il termine “generico” è stato ridefinito “medicinale equivalente” dalla Legge 149 del 26/07/2005. Inoltre, nello spirito del codice comunitario concernente i medi­cinali per uso umano, con il Decreto Legge n. 219 del 24/04/2006, le “specialità medicinali” sono state ridefinite medicinali, con lo scopo di evitare l’attribuzione di caratte­ristiche particolari al termine “specialità”. Tali specialità devono avere un prezzo inferiore di almeno il 20% rispetto a quello del prodotto innovatore o brand.

L’attuale normativa italiana incentiva la scambiabilità tra il pro­dotto brand e l’equivalente, in quanto dopo la scadenza della copertura brevet­tuale rimborsa al farmacista il prezzo dell’equivalente di riferimento piuttosto che quello del prodotto innovatore, brand. La sostituzione non può avvenire solo se il medico specifica chiaramen­te in ricetta la non sostituibilità con l’equivalente; nel qual caso, il fruitore dovrà farsi carico della parte eccedente rispetto a quanto rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale. I medicinali equivalenti non hanno necessariamente la medesima composizione in eccipienti, non sono necessariamente formulati con l’identica tecnologia far­maceutica, ma solo con una tecnologia equivalente e sono prodotti da impianti differenti e commercializzati da ditte differenti, sebbene possano essere a volte collegate all’azienda proprietaria del brand.

Definizioni di originator ed equivalente

Attualmente, la legge definisce i farmaci generici o equivalenti nel modo seguente: «Sono considerati generici o equivalenti tutti i medicinali a base dello stesso principio attivo, con uguale via di somministrazione, forma farmaceutica e dosaggio unitario, caratterizzati dal nome della molecola (i cosiddetti “equivalenti”) oppure con nome di fantasia (equivalenti branded)». Si definisce invece farmaco “originator” quel principio attivo commercializzato con nome di fantasia che è ancora e comunque coperto da brevetto e prodotto da una sola azienda farmaceutica ovvero da aziende farmaceutiche licenziatarie (co-marketing). Viene poi considerata la categoria dei farmaci equivalenti con nome di fantasia, che rispondono ai requisiti di legge dei generici pur conservando un nome che non ne indica il principio attivo in modo diretto e chiaro. Infine, una terza categoria è rappresentata dai farmaci equivalenti con nome di molecola che indicano direttamente e in maniera inequivocabile sia il contenuto in termini di principio attivo e dose sia il fatto che si tratti di farmaci generici (medi­cinale unbrand). Altre differenze risiedono nel fatto che i farmaci equivalenti con nomi di fantasia vengono alcune volte prescritti nella convinzione che si tratti di farmaci origina­tor, quando, invece, sono in realtà generici e hanno quindi subito un processo regolatorio differente da quello degli originator. Le differenze tra le ultime due ca­tegorie e la prima (quella dei farmaci originator) risiede nel fatto che questi ultimi vengono commercializzati in regime di copertura brevettuale e dopo un lungo e complesso iter, mentre gli altri derivano entrambi dal processo di genericazione, consentito solo dopo la scadenza del brevetto del farmaco originator.

La sostituzione dei farmaci branded con i generici

Sostituibilità tra farmaci

La possibilità, prevista dalla legge, che il farmacista sostituisca un medici­nale equivalente con un altro è una pratica introdotta al fine di agevolare l’utilizzo dei medicinali generici. Una conseguenza di questa possibilità è che il paziente in trattamento cronico riceve generici di ditte produttrici diverse nel corso del trattamento. Tale pratica può recare sconcerto e confusione nel paziente (soprattutto se anziano o a bassa scolarizzazione), portando a errori nell’assunzione della terapia e/o mettendo a rischio la continuità del trattamento. Inoltre, quando si considerano trattamenti già in corso in pazienti cronici e ben stabilizzati appare discutibile la modifica del trattamento.

La sostituzione tra farmaci branded ed equivalenti

Le aziende produttrici di farmaci generici non devono presentare documenti che certificano l’efficacia clinica, già prodotti per il farmaco branded, ma solo la docu­mentazione che certifica la bioequivalenza del generico al farmaco originatore.

In linea di principio, se il prodotto generico fosse totalmente identico al prodotto origina­le non sarebbero necessari studi di bioequivalenza per dimostrarne l’uguaglianza. Invece, non è detto che il medicinale generico sia identico al farmaco originale di cui è copia. La composizione farmaceutica delle formulazioni generiche può essere diversa da quella dei rispettivi prodotti di marca. Infatti l’u­so di eccipienti diversi è consentito dalle linee-guida internazionali, anche se nel rispetto di specifici requisiti e condizioni. Per quanto riguarda i principi attivi, que­ste molecole possono essere presenti nelle formulazioni generiche sotto forma di sali diversi o di specie chimiche polimorfiche del composto originale.

In Italia la sostituzione dal branded al generico, in assenza dell’indicazione “non sostituibile” posta dal medico prescrittore, può essere effettuata dal farmacista. Tale pratica, per i rischi che può comportare, è stata fortemente criticata dalle Società Scientifiche nord-americane34,35. Di fatto la sostituzione dovrebbe essere fatta solo se le indicazioni in scheda tecni­ca sono le medesime e dopo la dimostrazione inequivocabile che la formulazione generica è identica nei suoi principi attivi, negli eccipienti, nella via di sommini­strazione e nell’efficacia, alla controparte di marca. Purtroppo i dati sull’efficacia, non richiesti dalla legislazione vigente, sono mol­to scarsi o assenti, mentre abbondano le segnalazioni e gli studi che mostrano la non equivalenza terapeutica. La sostituzione viene incentivata ed effettuata esclusivamente per ragioni economiche, ma non ci sono dati farmaco-economici che dimostrino che è sempre davvero conveniente praticare la sostitu­zione branded-generico36. Le analisi di costo-efficacia relative alle procedure di sostituzione tengono conto esclusivamente del prezzo dei far­maci e non delle altre variabili che contribuiscono a generare i costi complessivi della terapia (in particolare tollerabilità e aderenza).

Gli effetti della sostituzione dei farmaci branded con equivalenti

La sostituzione comporta un incremento dei costi sanitari, quali quelli connessi a visite mediche, spreco dei medicinali rimasti, tempo perso, possibili ricoveri e ammissioni al pronto soccorso. Questi costi “occulti” non vengono quasi mai inclusi nelle analisi dei risparmi possibili. Un’analisi dettagliata della situazione attuale36 ha messo in evidenza alcune circostanze dubbie che devono ispirare cautela nella sostituzione di farmaci nei soggetti già in trattamento, soprattutto se ben controllati. Uno studio ha dimostrato che nei pazienti anziani, quando si passa a un sistema in cui si rimborsano solo i generi­ci37, si è avuta una riduzione dell’uso di farmaci, soprattutto antipertensivi e statine, molti più pazienti hanno interrotto la terapia, hanno utilizzato dosi inferiori a quelle prescritte o non hanno neppure iniziato la terapia consigliata. Occorre, inoltre, tener conto dei possibili rischi della sostituzione non solo tra clas­si di farmaci, ma anche entro classi di farmaci36, come nel caso dei sartani (tabella 1), che sono la famiglia di antipertensivi su cui si concentrano maggiormente le manovre di contenimento della spesa e in cui le incertezze sulla reale equivalenza sono ancora molte. Infatti, a parte il meccanismo, la struttura chimica e le controindicazioni che sono equivalenti, per tutti gli altri parametri l’equivalenza non è nota o è probabilmen­te diversa. Anche all’interno della stessa classe di farmaci, infatti, le varie molecole possono avere indicazioni diverse, diversa tollerabilità e diverso impatto sugli eventi38. Mancando quasi del tutto dati comparativi sull’efficacia antipertensiva, è ovvio che non abbiamo (e mai avremo probabilmente) informazioni sulla prevenzione degli eventi ottenibile con i generici, ma il dato esiste per le statine. Infatti, è stato osservato che il passaggio dall’atorvastatina branded alla simvastatina generica ha comportato un significativo aumento di eventi e di morti cardiovascolari39. In particolare, +30% di mortalità o eventi cardiovascolari maggiori (p<0,03), +49% di eventi cardiovascolari maggiori (p<0,008) e +214% ictus (p<0,009).




Il percorso per ottimizzare l’aderenza terapeutica

Il ruolo cruciale dell’aderenza per il successo terapeutico

Presupposto indispensabile per ottenere buoni risultati clinici dall’impiego dei farmaci è che il paziente sia aderente alla terapia prescritta in termini di dosaggio, numero di farmaci, durata del trattamento. Quando i farmaci sono utilizzati in maniera non ottimale, i sintomi e/o le condizioni cliniche possono peggiorare causando un deterioramento delle condizioni di salute dei pazienti e un aumento del consumo di risorse sanitarie, quali accessi a visite mediche, esecuzione di accertamenti, ospedalizzazioni40,41. Al contrario, anche se la spesa farmaceutica rappresenta una piccola quota della spesa sanitaria totale, una corretta scelta dei pazienti e un’appropriata assunzione dei farmaci può far sì che modesti incrementi della spesa per farmaci inducano elevati decrementi della spesa per ospedalizzazioni con un bilancio finale a favore della riduzione della spesa sanitaria globale42. Tutti questi effetti benefici sono correlati all’aderenza terapeutica, che pertanto è attualmente divenuta un aspetto cruciale di qualsiasi trattamento farmacologico.

Principali predittori di scarsa aderenza terapeutica

I fattori alla base della scarsa aderenza alla terapia sono molteplici. Schematicamente, essi possono essere ricondotti a problematiche legate al comportamento dei medici curanti, oppure alla disponibilità dei pazienti a seguire le prescrizioni, oppure ancora alle caratteristiche dei farmaci stessi che risultano ostative a un corretto trattamento a lungo termine42.

Le responsabilità dei medici sono essenzialmente riconducibili alle difficoltà logistiche a instaurare un adeguato rapporto medico-paziente. Non di rado, difatti, si verifica una scarsa comunicazione con i pazienti43, che talora non sono ascoltati sufficientemente e non sempre riescono a fugare i dubbi legati alla complessità dei piani terapeutici44.

Relativamente ai fattori legati ai pazienti, vanno ricordati i timori circa i farmaci e i loro effetti avversi, nonché la scarsa conoscenza della propria patologia e la presenza di molteplici comorbilità, motivazioni che si accentuano in presenza di limitazioni culturali e psicologico/cognitive2,11,45-47. Inoltre, l’aderenza è generalmente più bassa nelle donne, nei pazienti con i redditi più bassi e nei pazienti di età >70 anni o <50 anni1.

Anche il sistema farmaceutico, infine, gioca un ruolo importante nel determinismo della non aderenza terapeutica. Fattori come la disponibilità del farmaco prescritto nelle farmacie, il costo del ticket, la classe di rimborsabilità possono favorire o scoraggiare la corretta assunzione delle terapie prescritte. Va poi tenuto in considerazione che anche il fatto che le confezioni e la presentazione delle pillole cambino frequentemente può avere un ruolo importante48.

Verso l’ottimizzazione dell’aderenza terapeutica

Nell’ultimo decennio, sono stati condotti numerosi studi clinici con l’obiettivo di verificare quale impatto possano avere strategie differenti nel migliorare l’aderenza terapeutica. Tra i metodi che si sono dimostrati utili anche se non risolutivi vanno ricordati il maggior numero di colloqui motivazionali, l’uso di promemoria, tramite semplici diari, telefonate, sms o sistemi di controllo telematici49, e una più esauriente spiegazione circa l’utilità dei farmaci e i danni derivanti dalla loro assunzione disordinata50.

Un importante contributo all’attuazione di un percorso moderno verso l’ottimizzazione dell’aderenza terapeutica è rappresentato dal documento intersocietario di consenso sul ruolo dell’aderenza al trattamento farmacologico nella terapia cronica pubblicato di recente in Italia1. Il documento elenca le possibili misure da attuare sinergicamente al fine di aumentare l’aderenza alla terapia (tabella 2)1.




In primo luogo, gli esperti italiani sottolineano che il medico deve assicurare una informazione estesa del paziente circa la patologia da cui è affetto e la necessità di assumere farmaci. Lo schema terapeutico, poi, deve essere concordato da medico e paziente anche sulla base delle esigenze lavorative e sociali di quest’ultimo. Anche lo stato psicologico del paziente deve essere preso in considerazione nella scelta della terapia, così come è utile coinvolgere l’entourage del paziente e le altre figure professionali, in particolare quella del farmacista, nel processo terapeutico. Tutti questi sono aspetti fondamentali di un’efficace comunicazione tra medico e paziente, che è di cruciale importanza nel mantenimento della continuità terapeutica. Una recente metanalisi ha infatti dimostrato che i pazienti con medici in grado di stabilire un solido rapporto comunicativo avevano un incremento del livello di aderenza del 19% e che i medici con competenze specifiche di comunicazione possono migliorare l’aderenza del 12%51.

Seconda componente fondamentale del percorso verso l’ottimizzazione dell’aderenza terapeutica è rappresentata dai pazienti stessi. Nel documento intersocietario di consenso viene sottolineato che il paziente non deve decidere di modificare o interrompere la terapia senza consultare il proprio medico curante e che deve informare il medico circa gli eventuali effetti collaterali dei farmaci. Un importante fattore che influenza positivamente l’aderenza è lo sviluppo di una consapevolezza da parte del paziente della necessità e dell’efficacia della terapia assunta52. A tal fine, nella pratica clinica quotidiana, un aspetto molto importante è quello di sensibilizzare e motivare i pazienti ad assumere i farmaci secondo le indicazioni mediche. Questo aspetto deve essere costantemente tenuto presente dai pazienti e, a tal fine, appare sicuramente utile mettere a loro disposizione decaloghi ad hoc che consentano di rammentare i consigli e le raccomandazioni dei medici curanti (tabella 3)53.




Un ultimo importante target delle moderne strategie per migliorare l’aderenza terapeutica è rappresentato dalle stesse terapie farmacologiche. A questo riguardo, è innanzitutto cruciale che lo schema terapeutico sia quanto più possibile semplificato. È documentato che la riduzione della frequenza e del numero totale di pillole che si deve assumere ogni giorno può migliorare l’aderenza ai farmaci54. Per questo la semplificazione delle terapie farmacologiche mediante la combinazione di due o più classi di farmaci in un’unica pillola deve essere presa sempre in considerazione55. Lo studio UMPIRE (Use of Multidrug Pill to Reduce Cardiovascular Events) recentemente pubblicato è stato il primo studio randomizzato disegnato per valutare a lungo termine l’efficacia di una strategia “fixed-dose combination” nel migliorare l’aderenza dei pazienti ai farmaci. L’aderenza nel gruppo polipillola era dell’85%, rispetto al 60% nel gruppo standard di cura (p<0,001)56. In una grande revisione sistematica di 76 studi clinici, Claxton et al.57 hanno rilevato che l’adesione era inversamente proporzionale alla frequenza di dosaggio.

Il documento intersocietario di consenso, infine, raccomanda anche un ulteriore rimedio per migliorare l’aderenza terapeutica: non modificare le terapie farmacologiche in atto1. È ormai dimostrato, infatti, che il numero di modificazioni del piano terapeutico e l’introduzione di farmaci sconosciuti al paziente deve essere limitato quanto più possibile. Le evidenze rispetto all’impatto dell’impiego dei farmaci equivalenti e delle modificazioni terapeutiche sull’aderenza alla terapia sembrano dimostrare, da un lato, la sovrapponibilità tra farmaci originator e farmaci generici rispetto all’aderenza al trattamento e, dall’altro, il maggior rischio di non aderenza dei pazienti sottoposti a modificazione terapeutica (switch da originator a generico, da generico a originator oppure da generico a generico)58. Un nuovo importante studio italiano dimostra ora in modo incontrovertibile come il fenomeno dello “switching” tra composti differenti della stessa sostanza si associ a una maggiore frequenza di interruzione della terapia prescritta59 (figura 5). Tale rischio associato alla sostituibilità tra farmaci equivalenti andrebbe preso in considerazione soprattutto in relazione ad alcuni principi attivi che prevedono la disponibilità di numerosi prodotti equivalenti48 e, infine, soprattutto per alcune categorie di pazienti, tra cui gli anziani, che generalmente hanno molteplici terapie in atto e risultano, quindi, sottoposti a un maggior rischio di interruzione dei trattamenti in atto1. A questo proposito, il farmacista assume un ruolo fondamentale di orientamento, formazione e informazione del paziente, lavorando in sinergia con il suo medico curante. Analogamente al medico, i farmacisti sono consapevoli che i pazienti che assumono molti farmaci, soprattutto quelli più fragili e anziani, possono avere difficoltà a seguire la terapia o rischiano di confondersi e quindi, insieme al medico curante, giocano un ruolo fondamentale per contrastare la non aderenza terapeutica53.




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