Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Le linee-guida sono tornate di moda

Le linee-guida sono tornate inaspettatamente di gran moda con la discussione seguita alla proposta di decreto sulla responsabilità professionale. La nuova legge, infatti, potrebbe prevedere che l’operato del medico sia giudicato sulla base dell’aderenza a linee-guida stilate da società scientifiche e in qualche modo validate da un organismo che giudichi il rigore metodologico e le renda pubbliche in modo sistematico. Molti indicano il National Institute for Health and Care Excellence (NICE) come stella polare. Peccato che al NICE siano molto distanti dalle prospettive suggerite in Italia. Guidance sì, ma è il paziente alla guida.

«Personalising care for the individual is critical», ha scritto David Haslam sul blog del NICE1. Così prosegue il direttore del NICE presentando le nuove pagine dell’agenzia dedicate alle linee-guida: «We have updated and made more prominent our advice to health and social care professionals on how they should use our guidance. Text on the introductory page of each guideline explains its value and its importance in offering patients and service users the best care. It explains that NICE recommendations have been carefully developed, using the best available evidence, by independent experts. And although the guidance should be fully taken into account, the views of the person being cared for and a doctor’s or other professional’s experience can and should affect decisions about care. The new text reflects NICE’s changed and broader work in social care and it explicitly flags the importance of the views of the patient or person receiving care. It should help clinicians to use NICE guidance with confidence – balancing their experience, the needs and wishes of the patient, and gold-standard evidence-based recommendations».

Il confronto su responsabilità e appropriatezza poteva servire a ripensare al ruolo del medico, alla sua formazione e alla sua cultura. Invece, l’opportunità è stata sfruttata soprattutto da chi desidera accreditarsi come potenziale estensore, garante, revisore di linee-guida. Ruoli di cui non si sentirebbe la necessità se gli operatori sanitari fossero capaci di valutare criticamente le informazioni – autonomamente o in collaborazione con i colleghi – e se le istituzioni tornassero a investire in ricerca indipendente capace di produrre conoscenza sui problemi che contano. Ricerca soprattutto non sperimentale, troppe volte superflua, ma finalizzata a sintetizzare le informazioni di cui già disponiamo.

Richard Lehman, sul blog che tiene regolarmente per il BMJ, ha rilanciato la nota di Haslam: «The old ways of prescriptive, top-down medicine are dead, as our new guidelines recognise».

Bibliografia

1. Haslam D. New NICE guidelines help put patients in the driving seat. NICE Blog 2016; 11 marzo.




Il Sunshine Act e l’indipendenza della medicina

Nel 2014, 600 mila medici statunitensi e 1.100 centri ospedalieri hanno ricevuto da 1.444 aziende farmaceutiche circa 6,5 miliardi di dollari in regalo. Di questi, circa 3,2 miliardi erano legati a attività di ricerca, 703 milioni derivavano invece da partecipazioni azionarie o erano redditi da investimenti. Questi dati sintetizzano le cifre contenute nella banca-dati dei Centers for Medicare and Medicaid Services istituita nell’ambito dell’Open Payment Program collegato al cosiddetto “Sunshine Act”, la legge che obbliga le industrie a dichiarare i rapporti economici con i medici statunitensi, pubblicando i dati su un sito aperto ai cittadini.

Il New England Journal of Medicine ha ospitato una Perspective di Shantanu Agrawal e Douglas Brown1, esponenti dei Centers che gestiscono il programma. L’articolo presenta questi numeri considerandoli un successo ottenuto in nome della trasparenza e del supporto all’innovazione. «Più di 6,5 milioni di ricerche sono state compiute nel database e il set completo dei dati è stato scaricato più di 14 mila volte: […] l’obiettivo ultimo è quello di produrre consumatori più informati, con una maggiore consapevolezza delle relazioni finanziarie nel campo dell’assistenza sanitaria, per migliorare lo sviluppo di policy in questo settore».

Oltre alla frase allarmante che trasforma gli utenti in consumatori, nessun accenno all’evidenza più macroscopica: la sanità statunitense è pesantemente finanziata dall’industria e, in gran parte, questo flusso di denaro raggiunge direttamente i clinici che prescrivono medicinali. Ancora: Agrawal e Brown considerano come “attività educazionali” i pagamenti che le industrie riconoscono agli opinion leader che parlano in loro nome ai congressi (50 milioni di dollari) e la spesa per i reprint di articoli promozionali, estratti da riviste (100 milioni di dollari).

Dall’articolo sul New England, il Sunshine Act sembra essere soprattutto una sorta di foglia di fico. Un programma non sufficientemente informativo per i cittadini che le aziende possono gestire con molta libertà: basti pensare che, adducendo ragioni di riservatezza commerciale, la dichiarazione di compensi a medici per attività di ricerca può tardare anche 4 anni. Così, nei dati pubblicati, mancano 1,7 miliardi di dollari versati non si sa a chi e perché.

Oltre alle perplessità esposte già nel gennaio 2015 sul JAMA2, restano molti dubbi sull’utilità di un programma del genere: non sembra rappresentare un ostacolo ai finanziamenti industriali ai medici e può illudere i cittadini che la situazione sia tenuta sotto controllo dalle istituzioni. Nel frattempo, i medici continuano a ricevere denaro: più ne ricevono, meglio è per l’industria. Uno studio di ProPublicaappena reso noto3 dimostra che i clinici più gratificati prescrivono più farmaci di marca: «Doctors who received more than $5,000 from companies in 2014 typically had the highest brand-name prescribing percentages. Among internists who received no payments, for example, the average brand-name prescribing rate was about 20 percent, compared to about 30 percent for those who received more than $5,000».

Lo Stato ci rimette sia in termini economici, sia di appropriatezza clinica.

Bibliografia

1. Agrawal S, Brown D. The Physician Payment Sunshine Act: two years of the open payment program. N Engl J Med 2016; 374: 906-8.

2. Santhakumar S, Adashi EY. The Physician Payment Sunshine Act: testing the value of transparency. JAMA ٢٠١٥; 313: 23-24.

3. http://www.npr.org/sections/health-shots/2016/03/17/470679452/drug-company-payments-mirror-doctors-brand-name-prescribing

Farmaceutica: un settore a rischio di corruzione?

Diciassette persone su 100 hanno dovuto pagare mazzette o corrompere qualcuno per farsi curare. Quasi una persona su due è convinta che quello della sanità sia un settore corrotto o molto corrotto. La ricerca condotta da Transparency International (TI) su oltre 100 mila persone lascia talmente pochi dubbi che l’associazione ha deciso di studiare a fondo un settore che genera globalmente una spesa di circa 7 trilioni di dollari l’anno. «The sheer number and size of recent prosecuting actions taken against pharmaceutical companies underlines the sector as high risk», ha commentato la rivista economica Forbes.

Molta della responsabilità di una situazione che ha ormai superato i livelli di guardia è dell’industria farmaceutica, spiega il sito specializzato Pharmexec.com1. Ma secondo TI il solo modo per affrontare il problema è in un’alleanza con le aziende: per questo, dal 2016 è stato avviato un programma per sollecitare le imprese a dotarsi di sistemi di prevenzione dell’illegalità, ma in molte nazioni le procedure per cosiddetta “compliance” non sono ancora state introdotte. Ci vorranno almeno 10 anni per vedere i primi risultati, secondo il direttore di TI, Sophie Peresson.

La vulnerabilità della sanità non è dovuta solo ai soldi che girano, ma anche alla particolarità di un settore in cui un attore utilizza ma non paga (il paziente), uno paga ma non utilizza (il governo), uno sceglie ma per conto di altri (il medico) e uno vende ma in condizioni di concorrenza incompleta (l’industria). Intanto, la polizia coreana irrompe negli uffici Novartis2 per trovare le prove della corruzione di medici, e la SciClone Pharmaceuticals deve pagare 12 milioni di dollari di multa per aver corrotto dei professionisti3.

Solo negli ultimi anni, l’industria ha accettato di pagare al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti più di 13 miliardi di dollari per multe conseguenti a comportamenti illegali. Su ProPublica c’è una sorta di classifica che fa venire i brividi4. Tranne che in casi sporadici, però, il pagamento della sanzione chiude la partita, meglio se accompagnato da un’ammissione pubblica della propria colpevolezza (come nel caso di GSK coinvolta in un importante scandalo in Cina)5. Le sanzioni economiche nei confronti dell’industria farmaceutica sono poco efficaci, però. Huffington Post6 propone tre possibili motivi che giustificherebbero lo scarso impatto delle azioni legali nei confronti dell’industria, ma forse il motivo principale è che nessun manager è perseguibile individualmente. Nessuno risponde personalmente del proprio operato, insomma, nonostante i danni causati ai pazienti.

Bibliografia

1. http://www.pharmexec.com/target-pharma-rooting-out-corruption

2. https://www.statnews.com/pharmalot/2016/02/22/novartis-south-korea-bribes-doctors/

3. https://www.sec.gov/litigation/admin/ 2016/34-77058-s.pdf

4. http://projects.propublica.org/graphics/bigpharma

5. http://www.ibtimes.co.uk/gsk-statement-apology-people-china-full-text-1466238

6. http://www.huffingtonpost.com/caroline-beaton/holding-big-pharma-accoun_b_8280952.html




Obama, l’economia e la salute

Negli ultimi mesi del suo mandato, sembra che il Presidente degli Stati Uniti stia dando il tutto per tutto per lasciare al successore un paese ancora più saldamente ancorato agli obiettivi di sicurezza, prosperità e salute che sin dall’inizio hanno caratterizzato il suo programma politico. Dopo l’annuncio del gennaio 2015 con cui si apriva la Precision Medicine Initiative (PMI), l’attenzione di Barack Obama per la politica sanitaria è stata costante.

Il primo obiettivo è stato quello di consolidare l’Affordable Care Act sottolineando i risultati ottenuti in termini di tutela della salute di un numero sempre maggiore di cittadini. L’impegno dell’amministrazione statunitense è stato accompagnato da un sostanziale supporto garantito dalla gran parte della sanità statunitense, come è stato di recente confermato anche dai contributi pubblicati nel dossier “The future of US health care” del JAMA. Molta strada è ancora da fare: «Reforming the huge, complex, faltering US health care system is one of most difficult challenges for the nation to address. However, international and domestic examples show that it is possible to do better. The means to improve exist, if the political will exists to seize them»1, scrive David Blumenthal. Ma prevalgono le ragioni per essere ottimisti: «Even though the ACA is not a perfect bill, it has improved the US health care system. If venture investing is a trustworthy indicator and if additional reforms enabled by the ACA, such as more payment change and drug cost controls, are implemented, Americans can be optimistic about the future of the US health care system»2, conclude Ezekiel J. Emanuel.

Accanto all’impegno per una maggiore copertura sanitaria, gli Stati Uniti hanno tenuto a indicare alcune priorità su cui concentrare la ricerca e un maggiore sforzo assistenziale: le malattie oncologiche, la neurologia, l’infettivologia e le emergenze epidemiche. Lo scopo politico sembra quello di far sentire più tranquilla la popolazione, perché meno esposta all’incertezza che la malattia inevitabilmente comporta.

Leggendo l’intervista di Obama sul sito web di Popular Science 3 si ha la percezione di quanto – nella sua visione – sia stretto il legame tra benessere fisico e benessere economico. La relazione tra stato di salute della popolazione e stato dell’economia del paese. Come in un circolo virtuoso, la persona la cui salute è maggiormente tutelata può più facilmente lavorare, percepire un reddito adeguato, produrre valore per la nazione ma contemporaneamente consumare beni aiutando il paese a crescere e generando nuove risorse che potranno essere reinvestite anche per migliorare ulteriormente la qualità di vita dei cittadini.

Educazione e tecnologia sono le due leve che possono determinare il vantaggio competitivo della nazione e, pertanto, in questi ambiti vanno indirizzati i maggiori investimenti: «We have to make college affordable for every American. Because no hardworking student should be stuck in the red. We’ve already reduced student loan payments to ten percent of a borrower’s income. Now, we’ve actually got to cut the cost of college. Providing two years of community college at no cost for every responsible student is one of the best ways to do that, and I’m going to keep fighting to get that started this year».

La finalità è poter contare su un nuovo ceto produttivo ancora più competente, capace di rispondere alle sfide dei prossimi decenni: il cambiamento climatico dovuto al riscaldamento globale, in primo luogo. Ma anche la medicina di precisione che proponga soluzioni disegnate sul profilo genetico della persona, ma non solo. In una tavola rotonda di fine febbraio 2016, Obama è tornato sulla PMI per sottolineare che la medicina di precisione non è solo ricerca sul fenotipo ma anche studio accurato dell’influenza degli stili di vita individuali e dell’epigenetica sul profilo di rischio di ciascun abitante degli Stati Uniti. Obama si immagina nonno in un mondo in migliore forma. Sarà in primo luogo il pianeta a essere più in forma. Con lui, abitanti più sereni, più sani, più felici.

La visione dell’ultimo Obama è certamente sostenuta dai successi conseguiti in ambito economico e sociale. Da questi deriva una fiducia che gli consente di esprimersi – come ha fatto nell’ultimo State of the Union address4– in maniera netta: «A better politics doesn’t mean we have to agree on everything». Agli occhi del Presidente si presenta un paese ancora troppo diviso, ancora più lacerato dalla campagna presidenziale rispetto al passato, così che l’approccio top-down che ha fortemente caratterizzato la politica governativa americana più recente sia ancora più evidente. D’altra parte, c’è l’invito a una crescita collettiva: «Our collective future depends on your willingness to uphold your obligations as a citizen. To vote. To speak out. To stand up for others, especially the weak, especially the vulnerable, knowing that each of us is only here because somebody, somewhere, stood up for us. To stay active in our public life so it reflects the goodness and decency and optimism that I see in the American people every single day».

Con l’ottimismo che la verità disarmata e l’amore incondizionato per il paese avranno la parola finale.

Bibliografia

1. Blumenthal D. Better health care: a way forward. JAMA 2016 Mar 3; doi:10.1001/jama.2016.0590.

2. Emanuel EJ. How well is the Affordable Care Act doing? Reasons for optimism. JAMA 2016 Mar 3; doi:10.1001/jama.2016.2556.

3. www.popsci.com/features/interview-with-president-barack-obama/

4. https://goo.gl/rLHvVr




Come leggo un articolo scientifico?

Non è un gran momento per le riviste scientifiche, la cui credibilità è ogni giorno messa in discussione. Una delle grandi protagoniste – Science – decide di ripartire dai fondamentali e affida a Elizabeth Pain il… doloroso compito di svolgere un’inchiesta informale basata sulla semplice domanda: come leggi un articolo scientifico? «Parto sempre dal titolo e dal riassunto», è la prevedibile risposta di Kevin Boehnke, doctoral candidate in Environmental health sciences alla University of Michigan. Non è il solo a preferire un approccio forse un po’ scontato: «Inizio a leggere l’abstract e poi butto un occhio sull’Introduzione e a tutto il lavoro prestando una particolare attenzione alle immagini», dice Jesse Shanahan, master’s candidate in Astronomy alla Wesleyan University di Middletown, Connecticut. Una scelta simile a quella di Cecilia Tubiana, del Max Planck Institute di Gottingen: lei però legge prima abstract e Conclusioni.

«La mia strategia dipende dal tipo di articolo – spiega invece Gary McDowell, postdoctoral fellow in Developmental Biology alla Tufts University – e innanzitutto leggo rapidamente il lavoro per capire se può interessarmi. In questo caso lo studio con maggiore attenzione, saltando l’Introduzione che probabilmente è già sufficientemente familiare». «Quello che cerco di tirar fuori da un articolo riguarda le questioni di ordine metodologico, il disegno sperimentale e l’analisi statistica», dice Brian Nosek del dipartimento di Psicologia della University of Virginia. Uno sguardo più attento, dunque, mai quanto quello di Ulf Leonhardt – docente di Fisica al Weizmann Institute of Science in Israele: «Se l’articolo è fondamentale per i miei studi, vorrei reinventarlo e in questi casi faccio mio solo il punto di partenza degli autori e costruisco qualcosa per conto mio, senza guardare l’articolo».

Il punto di vista di Marcia K. McNutt è invece quello dell’Editor-in-Chief dei periodici del gruppo Science: «In genere, inizio con i riassunti dei Corrisponding Editor per poi controllare se qualcuno ha pubblicato qualche notizia sulla stampa o in rete a proposito di quell’articolo. Terzo, verifico la presenza di una Perspective di commento. Poi, leggo l’abstract per arrivare infine alla lettura dell’articolo complete leggendo nell’ordine l’Introduzione, le Conclusioni, le figure e solo a questo punto il lavoro nella sua interezza».

Il mondo è bello perché è vario: detto che funziona anche in ambito scientifico, in barba alla sistematicità e alle convenzioni della ricerca. Ma come sopravvivere alla quantità di informazione alla quale siamo esposti? «All’inizio, chiunque è più lento a ingranare perché non ha una cornice di riferimento che possa accogliere ciò che legge. Ma ci sono dei modi per usare la lettura come sistema per creare una biblioteca mentale e, dopo pochi anni, diventa facile riporre gli articoli negli scaffali della propria mente. Allora puoi rapidamente leggere un articolo per sapere se può esserti d’aiuto», sostiene Rima Wilkes, del Department of Sociology della University of British Columbia a Vancouver.