Medici sono gli altri

Giorgio Bert1

1Medico.

Pervenuto il 1° agosto 2016.

Lunedì. Colazione al bar, panino, giornale. D’improvviso tutto si scompone nella mente, non riesco a parlare, mi muovo “strano”. Pensiero lucido: “È un ictus”. Silvana dice qualcosa come “Andiamo al Pronto”. Io, oppositivo come al solito: “No!”. La parola ritorna, un po’ disartrica. Già, forse è meglio, andiamo al Pronto. Posso camminare fino alla macchina, ma la mano destra è partita per chissà dove. Botta di culo: il Pronto è a dieci minuti. E pensare che non avrei neanche dovuto essere lì, stamattina. Altra botta di culo: in Pronto c’è un neurologo di turno, TAC immediata e trombolisi entro trenta minuti dall’esordio. Tempistica ideale quanto non facile da verificarsi: se ero, per dire, a casa, si sarebbe largamente superata l’ora. Se fossi stato (e dovevo essere) in montagna, ciao mano, gamba, parola…

Bene, di certo è fondamentale rimanere aperti a ogni pratica di cura, a ogni modello che dia benessere: non siamo solo corpo, dopo tutto. Ma nessun paradigma di cura ad oggi noto mi avrebbe impedito di essere ora emiplegico o peggio, eccettuato il paradigma scientifico tradizionale, con tutti i difetti che spesso critichiamo.

Rianimazione. La Rianimazione è un altro mondo. Un mondo bianco, luminoso, gelido (sul serio: ci saranno 16 gradi), silenziosissimo: niente campanelli, solo bip elettronici. Una chiesa in cui officiano bianche sacerdotesse (talora con cardigan per via della temperatura polare); in cui gli “stranieri”, fossero anche feroci primari, entrano con cautela e sussurrano. Le vestali sono gentili, accoglienti, ma è subito chiaro che qui non c’è spazio per contrattazioni, capricci, esibizioni di diritti. Questo mondo è governato da regole rigorose su cui non hai alcun potere negoziale. Ti rendi conto che qui non sei nemmeno una “macchina rotta” da riparare ma il semplice ingranaggio danneggiato di una più grande macchina: le persone che ti vogliono bene, la cui vita è stata danneggiata dal tuo “guasto”, che va riparato al più presto con la massima efficienza possibile. In questa fase la tua preziosa identità conta poco; ed è giusto così.

Agnosia. Sei legato da un intrico di tubi e di fili, fissato in una posizione scomoda e dolorosissima ma non puoi muoverti. D’improvviso ti senti toccare. La mano di un cadavere, di uno zombie, da dove arriva? Non c’è nessuno qui vicino. Con l’altra mano cerchi quella mano fantasma e non riesci a trovarla. Ah, eccola. Una mano fredda, cadente, morta. La tua.

Una regola interessante: qui ti chiamano per nome, il cognome non viene utilizzato, forse per ragioni di privacy: i cognomi sono più identificabili. È strano ma non spiacevole sentirsi dire “Ascolti, Giorgio…”. Bene o male l’uso del tuo nome ti dà identità, riconoscimento.

Notte. Orribile. Immobilità e dolore ovunque. Le vestali sono sostituite da un sacerdote educato quanto indifferente. Il genere che può comunicare col medesimo tono distaccato: “Le serve dell’acqua?” o l’ora del tuo decesso. Siccome campanelli non ce ne sono, se avessi necessità di qualcosa dovresti chiamarlo a gran voce, solo che lui sta lontanissimo. E chi si metterebbe a gridare in Rianimazione?

Sì, una chiesa piena di regole, questa. Ma tutto sommato, in qualche modo, sentirti come un pezzo da aggiustare non ti dà – come credevo – la sensazione di perdere umanità, ma al contrario ti dà sicurezza. La sicurezza che puoi essere riparato.

Ritorno al mondo “normale”. La Rianimazione mi espelle: quel che si poteva aggiustare è stato aggiustato. Avanti il prossimo pezzo fallato. Mi preparo a rientrare, da paziente, nel mondo normale, “in corsia”, insomma. Viatico di mia figlia, frutto di 25 anni di esperienza geriatrica: “Attento, ché la differenza tra rompicoglioni e delirium è minima. E se il rompicoglioni è un ultraottantenne, con ischemia cerebrale e sponde al letto, la diagnosi è immediata e certa, e il Serenase anche…”.

Vieni rotolato (uno, due, tre,) dal letto di dolore (finalmente!) alla lettiga, e via! La corsia neuro è situata in un’altra struttura ospedaliera dell’ASL, quindi viaggetto in ambulanza. Eccitante. Confesso all’autista del 118 che ho sempre sognato la sirena. Cortese lui la attacca e, wooooo… in un attimo siamo arrivati. La sirena, desiderio infantile: sarà l’ischemia?

Uno, due, tre. Eccomi nel nuovo letto. Traversa di plastica, sbarre alzate ai lati: forse è il caso di rompere gentilmente le palle. “Sta plastica fa sudare…”. “E se la fa addosso?”. ”Non sono incontinente!”. “Questo lo decide il dottore”. Lo stesso vale per le sbarre (“E se cade dal letto?”), per la disfagia (che non ho: “E se le va nei polmoni?”). Risposta unica: “Lo decide il dottore”. Prima regola della corsia: rompere le palle più che molesto è inutile: le cose più importanti le decide il dottore e il dottore passa quando vuole (o quando può). Per tutta la giornata il solo tramite verso il mondo lì fuori è il personale non medico. E qui bisogna imparare qualcosa, che apprendo grazie ai miei compagni (siamo in tre) di corsia. Le infermiere sono in blu, quelle in bianco (in gran parte straniere) non lo sono, però in ambedue i sottogruppi sembrano esserci differenze di ruolo, di funzioni, forse di gerarchia. Domanda ansiosa: se devo chiedere qualcosa, a chi devo rivolgermi? E in che termini? Perché mica hanno tempo da perdere, quelle, sono sempre di corsa, spingono carrelli, rispondono a chiamate, fanno terapie, vuotano padelle, cambiano pannoloni, spingono sedie a rotelle, portano cibi, riempiono moduli, fanno prelievi, rispondono al telefono, assistono pazienti poco mobili o dementi. Sapete che penso? Piuttosto che essere al loro posto, è quasi meglio essere il paziente a letto (“allettato”: che termine ridicolo!). Sto male, è vero, ma non ho responsabilità né mansioni e me ne sto coricato (sia pur con traversa di plastica, sponde alzate, accesso venoso che si impiglia, mano balorda, dolori dappertutto).

Usavo affermare con orgogliosa sicurezza che mai avrei voluto dividere la stanza con altri: il mio punto di vista da paziente è ora diverso, complicità, storie di vita e di malattia ma anche di figli e nipotini, di lavoro e di ferie mancate, storie… Confermo: le persone sono molto più interessanti di quel che appaiono, e più relazionali, anche. Di sentirmi più relazionale sta capitando perfino a me, che non passo per essere un campione di socialità. Ci si aiuta a vicenda a superare i rispettivi impedimenti. La notte è lunga, fa piacere non sentirsi soli. Le tre di mattina: dalla porta vedi passare un’infermiera, senti qualcuno che parla sottovoce, suona un campanello. A ricordarci che siamo alla neuro, una voce femminile grida a ripetizione “Mauriziaaaaa”. Ti senti protetto, ti riaddormenti. Per niente al mondo vorrei essere in una clinica privata.

Eccoci alla fine di questi appunti presi in fretta sul campo. Chissà come racconterò le stesse cose tra un anno. Il mondo “là fuori”. Passa a trovarmi qualche collega; molti amici mi mandano mail. In ogni caso, clima di imbarazzo: la malattia, evocata o meno, è sempre presente tra noi. Persone con cui al tavolino di un bar faresti – hai sempre fatto – una conversazione normale, qui si esibiscono in oscure rassicurazioni, in stereotipati auguri e si defilano non appena possibile. Io una conversazione normale la farei anche, ma pare che un malato sia diverso, alieno, non possa parlare di politica, di sport, di libri. Così: “Cominci già a muovere la mano? Riesci a mangiare? Dormi bene? Quando ti tolgono l’ossigeno? Hai fatto l’ecodoppler?” Eccheppalle! Non sarà che il cosiddetto “mondo del malato”, su cui hanno dissertato molti sociologi, è una creazione dei “sani” per esorcizzare la malattia (e gli stessi malati)?

Discriminazioni. Il fatto di essere medico non produce effetti, né positivi né negativi: sostanzialmente e giustamente qui se ne fregano. Hanno tutti troppo da fare per trattare il “dottore” in modo diverso dal postino del letto accanto. Fai le tue brave code in sedia a rotelle, aspetti il tempo che ci vuole perché vengano a prenderti, non passi davanti a nessuno. Questa è democrazia!

Quanto ai colleghi, ecco che passa un medico: è presente mia figlia geriatra. Il medico si sofferma con lei, le parla del mio “caso” con dovizia di particolari tecnici (con me, manco per sbaglio), guarda lei e non me, che sono lì “allettato”. Già, loro due sono colleghi, io solo un malato.

Dimissione. Momento clou, fondamentale e sottovalutato. Il malato abbandona un contesto protetto per essere ributtato nel mondo. È pieno di domande: può capitarmi ancora? Cosa mi deve preoccupare? Cosa posso mangiare? Posso fare sesso? Posso camminare anche in salita? E fare il bagno in mare? Andare in montagna a mille metri (sa ho una casa…)? Cosa mi succede se salto una medicina? E se mi viene il sangue dal naso o mi taglio mentre prendo gli anticoagulanti? Quanto spesso devo misurare la pressione? Devo fare degli esami di controllo? E queste dita che non funzionano, sarà per sempre? E questo fiato corto, è preoccupante? E l’insonnia? E la stipsi? Ci vorrebbe del tempo per una conversazione calma in un luogo tranquillo, non lì in corsia mentre portano il pranzo e senti che il medico – paziente e gentile – non vede tuttavia l’ora che questa incombenza finisca, ché è pieno, ma sul serio, di cose da fare. “Ne parli col suo medico di base, ne parli col suo cardiologo. Per fortuna è andato tutto bene, arrivederci. Se qualcosa la preoccupa mi raccomando ci avvisi”. Ti senti un cane abbandonato.

Cosa mi porto a casa? Beh, il mio caso era grave ma semplice in termini di percorso clinico, di diagnosi e terapia. Penso ai malati invisibili tuttora a caccia di diagnosi e a quegli altri che hanno solo la diagnosi. Una vita angosciosa in cui i percorsi clinici si ripetono ancora e ancora e ancora senza esito. Un incubo di sofferenza e abbandono. Quanto a me, mi sento assai più di prima precario, provvisorio, fragile. In fondo sono appena uscito, sono tuttora a rischio. Mai avrei pensato di avere paura a star solo, di provare ansia. Manco sapevo cosa fosse, l’ansia: passerà? Devo affrontare un percorso nuovo e ignoto, trovare un nuovo equilibrio. Mica facile alla mia età.

Un’ultima osservazione: senza un Servizio Sanitario Nazionale non penso che avrei avuto a disposizione un sistema complesso accettabilmente coordinato di ambulatori, neurologi, cardiologi, rianimatori. E poi ancora, fisiatra, fisioterapista, logopedista. Certo, il sistema sanitario è ampiamente da cambiare, ma di sicuro non nel senso della privatizzazione. Oggi credo più di prima che sia doveroso difenderlo. Con tutti i suoi difetti, salvaguarda la democrazia: almeno in tema di salute.