Ricerca scientifica tra filantropia e scarcity

Antonio Addis1, Luca De Fiore2, Giuseppe Traversa3

1Dipartimento di Epidemiologia del Servizio Sanitario della Regione Lazio; 2Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane; 3Istituto Superiore di Sanità.

Riassunto. Alcune grandi aziende informatiche, quali di recente Google, Microsoft e Facebook, hanno incrementato i loro investimenti nel campo della ricerca biomedica. Facebook, in particolare, si è fatto promotore della Zuckerberg-Chan Initiative che prevede il coinvolgimento di tre fra le maggiori università californiane (UC San Francisco, Berkeley e Stanford). L’entità di tali investimenti da parte del settore privato induce ad alcune riflessioni. Primo, gli investimenti nella ricerca scientifica costituiscono una grande strategia di marketing, in quanto migliorano l’immagine “corporate” delle aziende. Secondo, la disponibilità di fondi privati è senz’altro utile, specie se a favore della conduzione e disseminazione trasparente di progetti o studi di rilievo. Terzo, gli investimenti privati non devono intendersi sostitutivi dei finanziamenti pubblici bensì integrativi e ininfluenti ai fini della determinazione dell’agenda di ricerca. Quarto, nel definire e attuare i percorsi di studio, i ricercatori coinvolti nei progetti finanziati da enti pubblici possono giovarsi dei margini di libertà assicurati dagli investitori privati. Infine, la scarsità delle risorse disponibili rischia di distogliere le energie e l’attenzione dei ricercatori pubblici, aspetto questo che deve essere tenuto in considerazione dai decisori nello stabilire l’entità e i destinatari dei finanziamenti da stanziare per la ricerca.

Biomedical research from philanthropy to scarcity.

Summary. Some huge information technology companies have increased investment in biomedical research: recently Google, Microsoft, and Facebook. The latter presented the ambitious Zuckerberg-Chan Initiative involving three major Californian universities: UC San Francisco, Berkeley and Stanford. These important private investments arouse reflections. First, investing in scientific research improves the corporate image of the most generous companies and it is a great marketing strategy. Second, the availability of private funds is surely useful, especially if these funds are directed to relevant projects, and produce studies conducted and disseminated in a transparent way. Third, private funding should not replace public ones, representing an integration that will not likely affect the determination of the research agenda, which should remain the prerogative of public institutions. Fourth, the researchers involved in public funded projects should benefit from the margin of freedom that private industry promises, both in the decision of research pathways and in their course. Finally, the scarcity of resources is likely to divert energy and attention of the public researchers and this aspect should be considered by decision makers when determining size and recipients of research funding.

Ci sono novità dalla Silicon valley e riguardano la salute. Gli ultimi giorni dell’estate hanno visto il susseguirsi di una serie di annunci da parte di alcune tra le grandi aziende informatiche, la cui attenzione sembra concentrarsi sulle applicazione di parte delle loro ricerche nel campo della sanità.

Iniziamo dagli studi di intelligenza artificiale portati avanti da Google che potranno essere sfruttati dallo University College London Hospital NHS Foundation Trust per migliorare l’approccio radioterapico ai pazienti con tumore testa-collo. L’obiettivo della collaborazione tra l’azienda statunitense e il trust britannico è sviluppare un sistema in grado di riconoscere e differenziare i tessuti cancerosi dai sani, per una segmentazione più sicura e rapida. Utilizzando una banca dati di casi clinici implementata a partire dal 2008, i dati saranno elaborati da DeepMind Health – una società di proprietà di Google – per costruire una soluzione informatizzata che dovrebbe permettere di ridurre a una sola ora il tempo necessario per determinare l’area da trattare. Tempo del medico e del radioterapista liberato da un’incombenza tecnica in favore di una maggiore attenzione al paziente, promette il comunicato stampa dell’azienda di Mountain View. Ancora: il valore di un progetto pilota per la costruzione di un algoritmo che potrà essere applicato anche ad altre patologie oncologiche.




Se il progetto di Google, nei cinque anni di durata preannunciata sembra nel complesso ragionevole, quello di Microsoft pare invece non solo più ambizioso ma anche meno plausibile: «Risolveremo il problema del cancro entro i prossimi 10 anni, considerando la malattia come scatenata da un virus informatico che invade corpo e cellule. Riprogrammandola, la persona tornerà a essere sana». Il direttore del Microsoft Research’s Lab di Cambridge, Chris Bishop, ha spiegato alla stampa: «The field of biology and the field of computations seem like chalk and cheese, but the complex processes that happen in cells have some similarity to those that happen in a standard desktop computer». Vedremo se davvero è così. Più misurati in casa Facebook, dove Mark Zuckerberg e Priscilla Chan hanno “semplicemente” annunciato l’avvio di un’iniziativa di ricerca biomedica che intende rispondere a una domanda non banale: “Can we cure all diseases in our children’s lifetime?”. La Chan-Zuckerberg Initiative1 avrà un finanziamento iniziale di 3 miliardi di dollari. Di questi, 600 milioni serviranno a sostenere un primo gruppo di lavoro collaborativo, il Biohub, tra le università di Stanford, Berkeley e UC di San Francisco. Obiettivo di partenza è lo studio dell’interazione cellulare (Cell Atlas Initiative) e la costruzione di nuovi strumenti diagnostici nel settore dell’infettivologia, principalmente focalizzati su HIV, Ebola e Zika virus. “Prevent, care, and manage” è il claim del progetto che, più realisticamente di quello della società di Bill Gates, si è dato un secolo di tempo: «Dobbiamo essere pazienti, è una roba difficile», ha dichiarato Zuckerberg.

Quattro riflessioni sulla ricerca

Questo nuovo mecenatismo porta con sé, insieme a ricadute potenzialmente rilevanti, anche alcuni richiami alla cautela circa la capacità dei sistemi pubblici di guidare i processi o quanto meno di integrare al meglio le diverse fonti di finanziamento. Un interesse forte da parte di grandi aziende può suggerire qualche riflessione più generale sullo stato della ricerca scientifica?

La prima è che gli incentivi fiscali fanno aumentare le attività filantropiche e che gli investimenti in ricerca trovano un terreno fertile nella solida considerazione che gode la ricerca scientifica: le aspirazioni filantropiche continuano a concentrarsi su di essa. Nel caso del fondatore di Facebook, aveva a suo tempo avviato un’attività di beneficienza regalando 200 milioni di dollari a una rete di istituti scolastici di Newark, NJ, con l’obiettivo di renderli un modello educativo per gli Stati Uniti e, successivamente, 120 milioni alle scuole del quartiere nel quale lui stesso era cresciuto. In entrambi i casi non si è trattato di un successo. Si è quindi anche lui orientato verso l’ambito che da anni attrae l’attenzione della Bill and Melinda Gates Foundation che continua a finanziare studi nel campo della salute globale. Ad oggi sono stati assegnati fondi per 3 miliardi di dollari per studi sull’AIDS e per 1,6 miliardi al Global fund for fight AIDS, Tuberculosis, and Malaria. Tutti i finanziamenti sono elencati in un Awarded grants database. Investire nella global health è utile al pianeta, è una buona scelta di marketing ma sostiene anche l’autostima, come avverte causticamente Evgeny Morozov: «For Silicon valley and its idols, innovation is the new selfishness»2.

La seconda riflessione è che queste donazioni sono utili. Ci si può anche chiedere, come avviene in una nazione come il Regno Unito, dove la ricerca scientifica è il principale target delle donazioni caritatevoli3, se questi soldi siano spesi bene. Non c’è nulla di male a interrogarsi se l’onda di generosità della west coast statunitense abbia portato a sprechi nella conduzione di progetti di ricerca inutili perché non rilevanti per i cittadini, oppure ridondanti in quanto già condotti in precedenza, o perché mal disegnati, gravati da conflitti di interesse o non pubblicati4. Tuttavia, va rilevato che le raccomandazioni fatte dalla AllTrials Initiative in una lettera aperta ai coniugi Zuckerberg si applicano a tutti i finanziamenti della ricerca: non finanziare nessun ricercatore che in passato abbia trascurato di pubblicare i risultati dei propri studi, sincerarsi che sui quesiti di ricerca finanziati non siano già stati condotti studi conclusivi e avere garanzie che i disegni degli studi siano tali da poter rispondere agli interrogativi dei ricercatori5. A questo riguardo, può rassicurare sapere che gli studi finanziati da charity indipendenti sono pubblicati più spesso (nel 56% dei casi) rispetto a quelli supportati da governi (47%) o da industrie (40%)6. La ricerca sostenuta da fondazioni potrebbe dunque essere più libera e vicina agli interessi dei cittadini?

La terza riflessione riguarda l’entità dei finanziamenti, non tanto in valore assoluto ma in relazione ai corrispondenti investimenti pubblici. È consolante considerare che il budget dei National Institutes of Health è di circa 32 miliardi di dollari l’anno7. Ovviamente più ridotti, perché destinati a specifici obiettivi di ricerca, quello della Precision Medicine Initiative voluta dal presidente Barak Obama di 215 milioni di dollari8 e quello del Cancer Moonshot patrocinato dal vicepresidente Joe Biden di 195 milioni di dollari nel 2016, su un totale di un miliardo, a valere sui fondi dei NIH. In Italia, il finanziamento preannunciato per lo Human Technopole è di 1,5 miliardi di euro. In dieci anni, però. Che queste risorse possano essere integrate da finanziamenti privati è una buona notizia. Sarebbe invece potenzialmente problematico se questi fondi giungessero in sostituzione, e non come aggiunta, rispetto al finanziamento pubblico. Il rischio principale, per fare un esempio concreto, è che si vengano a creare più situazioni simili a quella della World Health Organization, che vede i contributi da parte di paesi importanti di entità minore rispetto a quella di singoli donatori privati. Una situazione pericolosa, sia per il potenziale squilibrio nella determinazione dell’agenda di ricerca, sia perché – se improvvisamente i finanziamenti privati venissero a mancare – sarebbe messa in discussione l’intera attività di ricerca.

La quarta considerazione si riferisce alla possibilità che un tipo di fonte di finanziamento sia più “utile”, in termini di ricadute, di altri. Consideriamo l’interesse di Google per la salute, che data da anni, come testimoniano i numerosi progetti avviati: da Google Health a Flu Trends o alle applicazioni cliniche e chirurgiche dei Google glasses. Sebbene ci sia chi li consideri un’imbarazzante case series di fallimenti, si è trattato di esperienze preziose per accrescere il know-how dell’azienda. Sempre a proposito di “utilità”, va anche detto che in genere gli effetti collaterali legati agli annunci di questi progetti non sono trascurabili, in termini di confusione e creazione di attese e speranze di un pubblico tormentato dai messaggi sensazionalistici dei media.

Le notizie che si susseguono sui media contribuiscono a generare nell’opinione pubblica l’impressione che la creatività risieda nei colorati edifici delle grandi aziende di IT statunitensi: «The greatest originals are the one that fail the most, because they’re the ones who try the most», sostiene Adam Grant, della Wharton School of Business. Qui è un punto critico (per i finanziamenti pubblici): nonostante anche la più disinteressata filantropia punti sempre a integrare l’utile aziendale – e quindi a risultati molto concreti – si ha l’impressione di una relativa maggiore libertà della ricerca finanziata da privati rispetto a quella pubblica o, come si suol dire, indipendente. La seconda ancora più della prima sopravvive soprattutto in virtù del riconoscimento che deriva da pubblicazioni o dal rinnovo dei finanziamenti stessi. Conta la quantità più della qualità e sembra quasi che la ricerca pubblica – stretta tra mille lacci amministrativi e valutazioni talvolta arbitrarie – sia diventata più miope di quella privata. Da una parte, l’eminenza – come è stata definita la sintesi di ruolo accademico, citazioni e riconoscimento pubblico – si autoperpetua attraverso l’enfasi della visibilità e non con un comportamento improntato alla prudente selettività nella conduzione di progetti di ricerca e nella disseminazione di risultati. Dall’altra, molto spesso confligge con l’aspirazione a esplorare percorsi di ricerca realmente nuovi, necessariamente più rischiosi9.

Più liberi nel pubblico o nel privato

I grandi gruppi sanno bene che l’unico modo per governare l’innovazione è fare ricerca, molto meglio se “indipendente” nel senso di non condizionata da idee già superate/testate/assodate ed in quanto libera consente di allargare conoscenze/mercati. Il pubblico sta rischiando di perdere questa libertà?

La domanda appena posta stimola l’ultima riflessione sugli effetti della carenza, la scarcity che sempre più spesso si preferisce lasciare in lingua inglese nonostante sia presente un perfetto equivalente in italiano: scarsità. Come scrivono Sendhil Mullainathan e Eldar Shafir10, la penuria di risorse determina una pressione emotiva che si traduce in un danno cognitivo, in una perdita di apertura mentale. L’ossessione costante al “da dove arriverà il prossimo dollaro” porta a scelte non ottimali, addirittura non razionali, a preferire obiettivi immediati a traguardi più ambiziosi. In un contesto di carenza, viene colpita la capacità di concentrazione, di attenzione, di programmazione a lungo termine. L’attenzione quotidiana ai finanziamenti che non arrivano assorbe “la larghezza di banda” e rende chi ne è soggetto schiavo dei compromessi. Tra gli effetti negativi della scarsità di risorse c’è l’aumento della burocrazia, l’incentivo per i ricercatori ad adottare obiettivi a breve, oltre all’inquadramento contrattuale flessibile o precario del personale. Gli effetti sfavorevoli dell’eccessiva riduzione dei finanziamenti pubblici sono solo molto parzialmente compensati dalla presenza di finanziamenti privati: soprattutto, per dover inseguire i finanziamenti, si regala al privato l’orientamento della ricerca.

In conclusione, un sistema della ricerca sostanzialmente sostenuto dallo Stato potrebbe sì, trarre vantaggio dal supporto privato, ma sarebbe opportuno che anche le istituzioni pubbliche fossero capaci di far conoscere e valorizzare il proprio impegno, senza lasciare ad altri il merito quasi esclusivo di sostenere ed eventualmente portare a compimento i programmi di ricerca di maggiore impatto per l’opinione pubblica. È da augurarsi una ripresa del confronto sui temi della ricerca che porti al recupero di una visione d’insieme e di prospettiva, la sola che può favorire le energie migliori: non a caso, il preside della Stanford University, Lloyd Minor – all’indomani dell’annuncio del finanziamento della Fondazione Chan Zuckerberg – si è lasciato andare a un commento eloquente: «We can never know what will prompt a life-changing discovery, the trick is to create the best environment for mental serendipity»11.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Si ringrazia Francesco Perrone per i suggerimenti dati su una versione preliminare di questo articolo.

Bibliografia

1. https://chanzuckerberg.com/

2. Morozov E. The meme hustler. The Baffler 2013; 22.

3. UK Civil Society Almanac 2015.

4. Macleod MR, Michie S, Roberts I, et al. Biomedical research: increasing value, reducing waste. Lancet 2014; 383: 101-4.

5. http://www.alltrials.net/news/open-letter-zuckerberg-pledge-medical-research/

6. Avoiding waste in medical research. Giving Evidence 2016; 29 settembre.

7. https://www.nih.gov/about-nih/what-we-do/budget

8. https://www.nih.gov/precision-medicine-initiative-cohort-program

9. Feist GJ. Quantity, quality, and depth of research as influences on scientific eminence: is quantity most important? Creativity Res J 1997; 10: 325-35.

10. Mullainathan S, Shafir E. Scarcity. Perché avere poco significa tanto. Milano: Il Saggiatore, 2014.

11. Minor L. Can the Chan Zuckerberg Initiative and Stanford really beat disease? I think so. LinkedIn 2016; 21 settembre.