Curare la malattia da HIV: ritorno al paziente?

Enrico Girardi1, Antonella d’Arminio Monforte2, Laura Camoni3, Patrizio Pezzotti3,
Giovanni Guaraldi4, Adriana Ammassari5, Andrea Antinori6, Stefano Bonora7, Cristina Mussini8,
Antonella Cingolani9, Giulio Maria Corbelli10, Silvia Adami11, luca degli esposti12,
Margherita Andretta13

1UOC Epidemiologia Clinica, INMI Lazzaro Spallanzani - IRCCS, Roma; 2Clinica Malattie Infettive, Dipartimento di Scienze della Salute, ASST Santi Paolo e Carlo, Università di Milano; 3Istituto Superiore di Sanità, Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate, Roma; 4Clinica delle Malattie Infettive, Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche del bambino e dell’adulto, Università di Modena e Reggio Emilia; 5UOC Immunodeficienze Virali e Neuro-Oncologia Infettiva, INMI Lazzaro Spallanzani, Roma; Dipartimento di Clinica e di Ricerca Clinica, INMI Lazzaro Spallanzani, Roma; 6Area Dipartimentale HIV/AIDS, Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani IRCCS, Roma; 7Sezione di Malattie infettive, Dipartimento di Scienze Mediche, Università di Torino; 8Clinica Malattie Infettive, Università di Modena; 9Clinica Malattie Infettive, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; 10Chair European Community Advisory Board; 11Settore Farmaceutico-Protesica-Dispositivi medici Regione del Veneto; 12CliCon - Health, Economics & Outcome Research; 13Coordinamento Regionale Unico sul Farmaco, Verona.

Pervenuto su invito nel luglio 2016.

Riassunto. Negli ultimi 20 anni la malattia da HIV è andata progressivamente trasformandosi da una patologia invariabilmente letale a una condizione cronica trattabile, grazie alla disponibilità di terapie antiretrovirali sempre più efficaci. Un uso diffuso di queste terapie ha inoltre la potenzialità di contribuire al controllo della diffusione del contagio. È significativamente diminuita nelle persone con HIV l’incidenza di manifestazioni opportunistiche favorite dalla immunodepressione, mentre sono divenute molto più comuni patologie cronico-degenerative, come patologie cardio- e cerebrovascolari, metaboliche, ossee, renali ed epatiche, legate allo stato di infiammazione cronica e all’invecchiamento della popolazione di queste persone. Nel 2030, si prevede che oltre l’80% delle persone con HIV più anziane e avrà almeno una patologia cronico-degenerativa, rispetto al 19% delle persone HIV-negative, e oltre un quarto di esse avrà tre o più patologie. Tra le persone con HIV va incrementandosi la prevalenza di una condizione di fragilità. La scelta delle strategie terapeutiche per la malattia da HIV quindi deve oggi essere basata non più soltanto sulla capacità dei farmaci di indurre una completa soppressione della replicazione virale nel breve/medio termine. Le scelte terapeutiche devono favorire l’aderenza e l’assenza di tossicità sul lungo termine, avere la capacità di ripristinare l’omeostasi immunitaria e ridurre quindi l’infiammazione cronica e il rischio di patologie correlate, avere un impatto positivo nel tempo sulle condizioni complessive di vita della persona con HIV, misurato anche con indicatori quali i patient related oucomes.

Parole chiave. Esiti della terapia, infezione da HIV, infiammazione, malattie croniche, terapia antiretrovirale.

Treating HIV disease: back to the patient?

Summary. HIV disease has dramatically changed in the last two decades from a progressive, lethal disease to a chronic manageable condition. These changes are due to the availability of potent antiretroviral combination therapy, which also have the potential to contribute significantly to the control of the epidemic. Among persons living with HIV, incidence of immunosuppression-related opportunistic illnesses has clearly decreased, while an increase was observed in the prevalence of age-related noncommunicable comorbidities, including cardiovascular, metabolic, renal, bone and hepatic disease, due to chronic inflammatory state and to an overall aging of the population of persons with HIV. It has been predicted that by 2030 more than 80% of older persons with HIV will have at least one comorbidity, compared to 19% of non HIV-infected persons, and that one fourth of these persons will have three or more comorbidities. Among persons with HIV, the prevalence of frailty is increasing. Choice of therapeutic approach to HIV disease should take into account, in addition to the ability of drug combination to suppress viral replication, the potential for long term adherence to treatment, the lack of long term toxicity, the possibility to fully restore immune function and prevent immune activation, thus reducing the risk of chronic inflammation related disease. In addition the overall impact of treatment on patients’ well-being must be considered, and patients related outcomes should be used to measure this impact.

Key words. Antiretroviral therapy, chronic disease, HIV infection, inflammation, treatment outcomes.

Introduzione

A luglio 2016 il Journal of American Medical Association ha pubblicato, a commento delle nuove linee-guida statunitensi per la terapia della malattia da Human Immunodeficiency Virus (HIV), un editoriale intitolato “Antiretrovirals for HIV treatment and prevention: The challenges of success”1, un titolo che appare particolarmente appropriato. Appropriato perché in primo luogo la storia della terapia antiretrovirale (ART) è indubbiamente un storia di successo per la comunità biomedica e per le persone che vivono con HIV. Negli anni ’80 del XX secolo la malattia da HIV si presentava come una infezione invariabilmente letale che portava a morte la grande maggioranza delle persone in poco più di dieci anni dal contagio. Trentacinque anni di ricerca di base e clinica hanno completamente cambiato questo scenario. Infatti, uno studio condotto in California ha mostrato che nel 1996-1997 l’attesa di vita a 20 anni per una persona con HIV era di oltre 40 anni inferiore a quella di una persona non infetta, mentre questo gap si era ridotto a circa 8 anni nel 2008-20112. Ed è stato stimato che le persone con HIV che ricevano un terapia tempestivamente e che abbiano una aderenza elevata potranno avere una attesa di vita solo di poco inferiore a quella di persone sieronegative3. Un altro aspetto del successo della ART è legato alla sua capacità di contribuire in modo determinante al controllo della diffusione del contagio4.

Ma questo successo implica l’aprirsi di nuove sfide. Come garantire il mantenimento dell’efficacia della terapia nel lungo periodo, in una popolazione che invecchia e sviluppa nuove comorbilità? Quali strategie utilizzare per massimizzare l’effetto di popolazione della terapia sul controllo dell’epidemia? Quali sono gli aspetti da prendere oggi in considerazione nelle scelte terapeutiche e nelle valutazioni dei farmaci antiretrovirali?

In questa rassegna abbiamo analizzato il quadro attuale clinico-epidemiologico della malattia da HIV e abbiamo cercato di delineare alcuni aspetti che vanno oggi presi in considerazione nel definire le strategie di ART.

Le sfide della cura di una patologia cronica in una popolazione di pazienti che invecchia

I dati italiani

Con il sostanziale miglioramento delle aspettative di vita a seguito della disponibilità di regimi di terapia antiretrovirale potenti (cART), assistiamo a un invecchiamento della popolazione delle persone con HIV in cura e, come conseguenza, a un incremento delle patologie croniche-degenerative proprie dell’età avanzata. Tali patologie sono particolarmente frequenti nelle persone con HIV, e soprattutto possono verificarsi in età più precoce rispetto alla popolazione HIV-negativa per vari motivi: abitudini di vita che determinano un aumento del rischio di sviluppare alcune patologie (fumo, alcool, droghe voluttuarie), possibile tossicità della cART, ma anche stato di immuno-attivazione conseguente alla presenza di un’infezione cronica da HIV, che determina una stimolazione cronica della risposta immunitaria e un esaurimento di tale comparto con conseguenti segni di invecchiamento precoce (come si vede dai dati pubblicati recentemente da Guaraldi5) (figura 1).

Dai dati della coorte Icona, una coorte nazionale di persone con HIV, naïve da ART all’arruolamento, costituitasi nel 1997 e tutt’ora attiva, emerge però anche un’altra realtà: non solo la popolazione delle persone con HIV presenta un’età media sempre più elevata in quanto vive più a lungo grazie alla cART, ma la diagnosi stessa di infezione da HIV negli ultimi anni avviene in età sempre più avanzata. Infatti, se nel 1997-99 solo il 23% presentava un’età superiore ai 40 anni all’arruolamento in Icona (che nella maggior parte dei casi coincide con la diagnosi di HIV), nel 2012-2015 tale popolazione rappresenta ben il 46% dei nuovi arruolati. Ciò è dovuto principalmente a una modificazione dell’andamento dell’epidemia, che da epidemia principalmente diffusa tra i tossicodipendenti, in genere giovani, è diventata una epidemia a principale trasmissione sessuale, omo- ed eterosessuale, di persone con età più avanzata e soprattutto con età più avanzata alla diagnosi, in quanto molti (gli eterosessuali soprattutto) non percepiscono il rischio di infezione e quindi eseguono tardivamente il test.

Se poi verifichiamo l’andamento dell’età media di tutti i soggetti inclusi nella coorte e in follow-up attivo per ciascun anno di calendario (quindi comprendente sia i nuovi arruolati sia i soggetti HIV-positivi noti seguiti presso le diverse strutture afferenti alla coorte), vediamo come la stessa vari da 35 anni (in 2686 soggetti) nel 1997 a 45 anni (in 6721 soggetti) nel 2015, senza differenze di genere.

Abbiamo quindi voluto verificare nella coorte Icona la frequenza delle diverse patologie non indicative di AIDS in rapporto all’età e al sesso. Le patologie che abbiamo esaminato sono: patologie cerebrovascolari, infarto del miocardio, diabete mellito, insufficienza renale grave (filtrato glomerulare <60), ipertensione arteriosa, lipodistrofia, ESLD (end stage liver disease= cirrosi epatica scompensata o neoplasia del fegato), neoplasie non-AIDS definenti. La frequenza di tali patologie è stata rilevata nelle diverse fasce di età (<=50 anni, 50-60 anni, >60 anni) e nei due sessi. Inoltre, abbiamo suddiviso le rilevazioni in quelle riscontrate in soggetti naïve e in quelli trattati.

Nei pazienti naïve assistiamo a un netto incremento nello specifico di alcune patologie in relazione all’età in entrambi i sessi (figura 2). In particolare, un’insufficienza renale si riscontra nell’1,4% e 2,4% delle persone con età inferiore ai 50 anni, rispettivamente maschi e femmine; nel 3,1% e 4% in soggetti tra i 51 e i 60 anni e nel 13,2% e 26,4% in persone di età superiore ai 60 anni. Altre patologie che subiscono un incremento della prevalenza in rapporto all’età sono il diabete mellito e le neoplasie non-AIDS, specie nel sesso maschile.

La situazione nelle persone in ART, come illustrato nella figura 3, mostra un incremento della frequenza di molte patologie – diabete, insufficienza renale, ipertensione arteriosa, infarto del miocardio e neoplasie non-AIDS –, in relazione all’incremento dell’età. È da rilevare che la prevalenza di tali patologie sia in generale maggiore, nella fascia di età corrispondente, a quella delle stesse patologie nei soggetti naïve. Concorrono vari fattori a determinare tale aumento della prevalenza: maggiore sopravvivenza in terapia, possibili effetti tossici di alcuni farmaci antiretrovirali, in particolare su cuore e rene, che potrebbero avere un effetto additivo su patologie preesistenti, presenza di coinfezioni, mancata modifica degli stili di vita (quali fumo, uso di sostanze ricreative, sedentarietà, abuso di alcolici, cattive abitudini dietetiche), ma soprattutto è noto che l’abbattimento della carica virale di HIV non porta a una scomparsa dello stato di immunoattivazione, che a sua volta concorre nel mantenere uno stato di infiammazione cronica e quindi di logoramento del sistema immune.







Questi dati vengono confermati da un recente lavoro sulla coorte Icona6 in cui si evidenzia come la presenza di anticorpi anti-Cytomegalovirus (CMV), indice di un’avvenuta infezione da CMV (e CMV, come tutti i virus appartenenti alla famiglia Herpesviridae, resta latente nell’organismo per tutta la vita), comporti maggiore rischio di sviluppare eventi gravi non-AIDS o morte per eventi non-AIDS. I dati si riferiscono a 6111 persone, di cui l’83% CMV-IgG-positive: i pazienti CMV-IgG-positivi al baseline avevano un rischio di 1,53 volte superiore (95% CI 1,08-2,16) di sviluppare eventi non-AIDS o decesso per eventi non-AIDS rispetto alle persone CMV-Ab-negative. In particolare, la positività per anticorpi anti-CMV era un fattore indipendente di rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari (HR 2,27, 95% CI 0,97-5,32 rispetto a CMV-Ab-negativi). Nella figura 4 vengono illustrate con curve di Kaplan-Meier le probabilità di nuovi eventi AIDS (a sinistra) ed eventi gravi non-AIDS (a destra): solo per questi ultimi la probabilità aumenta nei soggetti CMV-Ab-positivi rispetto ai negativi. Quindi, anche l’infezione cronica da CMV concorre all’insorgenza di patologie degenerative in cui il ruolo del virus, nel mantenere uno stato di infezione cronica, si somma all’infezione cronica da HIV determinando un eccesso di eventi nei soggetti portatori di entrambi i virus.

La comparsa di patologie neoplastiche nelle persone con HIV è sicuramente determinata, in parte, dall’età e dai possibili fattori di rischio, ma alcune osservazioni mettono in relazione l’incidenza di tumori anche non-AIDS-correlati allo stato di immunodepressione rappresentato dalle conte di CD4 correnti, le ultime prima dell’evento. In un lavoro tratto dalla coorte Icona7, l’incidenza di neoplasie AIDS-correlate e non-AIDS-correlate era rispettivamente di 5 casi/1000 persone-anno di follow-up (95% CI: 4,3-5,8) e di 2,4 casi/1000 persone-anno di follow-up (95% CI: 1,9-3,1), con una stretta relazione con le conte dei linfociti CD4 (figura 5).

Infine, a supporto del ruolo non solo della immunodeficienza, ma anche dello stato di immunoattivazione nel concorrere all’aumentata incidenza di patologie non-AIDS-definenti cronico-degenerative o neoplastiche, abbiamo dimostrato, sempre nella coorte Icona, una stretta correlazione tra rapporto linfociti CD4/CD8 prima dell’inizio della cART e incidenza di nuovi eventi non-AIDS-definenti in corso di cART8.




I dati delle coorti internazionali

Le comorbilità e i profili di rischio nelle persone con HIV sono stati analizzati anche in altre coorti nei ­Paesi industrializzati (tabella 1).

Un modello di stima sull’invecchiamento della popolazione con HIV con dati della coorte olandese ATHENA9 ha infatti determinato che l’età media delle persone con infezione da HIV in ART aumenterà da 43,9 anni nel 2010 a 56,6 nel 2030, con la proporzione di soggetti con infezione da HIV con più di 50 anni in aumento dal 28% del 2010 al 73% nel 2030. Nel 2030, si prevede che l’84% delle persone con HIV più anziane avrà almeno una patologia, rispetto al 19% delle persone HIV-negative e il 28% avrà tre o più patologie.

La maggior parte di questo cambiamento previsto sarà guidato dall’aumento della prevalenza di tumori (previsti per il 17% degli individui), dal diabete (17%) e dalle malattie cardiovascolari (78%). Il modello prevede anche un aumento del numero di farmaci per trattare queste patologie. Infatti, nel 2030 al 54% delle persone con HIV saranno prescritti, oltre ai farmaci antiretrovirali, uno o due farmaci, rispetto al 13% nel 2010, e al 20% verranno prescritti tre o più farmaci. A causa delle controindicazioni e interazioni tra farmaci, nel 2030, il 40% dei soggetti potrebbe avere complicazioni con i regimi di prima linea attualmente raccomandati. È verosimile che quanto da loro previsto si verificherà in gran parte dei Paesi “occidentali” e anche in Italia, viste le similitudini nelle caratteristiche epidemiche.




Vance et al.10 hanno analizzato i dati di un grande database clinico dello Stato dell’Alabama (Stati Uniti) nel periodo 2006-2007, per valutare la prevalenza di comorbilità e le caratteristiche cliniche e immunologiche di persone con HIV rispetto a quelle sieronegative lungo tutto l’arco della vita; lo studio ha evidenziato che tra le persone con HIV più giovani è più frequente l’uso di tabacco, di altre droghe ricrea­zionali e la presenza di condilomi acuminati, mentre tra quelle più anziane sono più frequenti insonnia, malattie cardiovascolari, ipertensione, ipercolesterolemia, ipogonadismo, disfunzione erettile, diabete mellito, neuropatia, reflusso gastrointestinale, malattia renale e herpes zoster. Depressione e ansia sono invece patologie più frequenti in tutte le classi di età esaminate, con prevalenze costanti rispettivamente intorno al 40% e al 20%.

Uno studio europeo conferma questi dati e stima che le persone con HIV rispetto alle persone HIV-negative della stessa età presentano un numero medio di comorbilità più alto (1,3 vs 1); inoltre, più del 69% delle persone con HIV presenta più di una patologia rispetto al 61% delle persone HIV-negative, in tutte le fasce di età. Ipertensione, infarto del miocardio e disfunzione renale sono significativamente più frequenti tra le persone con HIV rispetto alle persone HIV-negative e hanno rispettivamente prevalenze pari a 45,5% vs 30,5%, 3,9% vs 1,5% e 4,4% vs 2,1%. Riguardo al profilo di rischio, la probabilità di avere più comorbilità risulta essere significativamente associata con l’età, con l’uso di tabacco, con una storia familiare di malattie cardiovascolari e metaboliche. Anche un lungo periodo con meno di 200 linfociti CD4/µL3, alti livelli di proteina C reattiva, uso prolungato di dosi elevate di un farmaco appartenente alla classe inibitori della proteasi risultavano essere fattori associati con un aumentato rischio di avere più comorbilità.

Guaraldi et al.5 mostrano risultati sostanzialmente simili analizzando dati di una coorte di pazienti italiani stratificati per età e si conferma che la presenza di comorbilità (in particolare malattia cardiovascolare, ipertensione, diabete mellito, osteoporosi e insufficienza renale) è significativamente più frequente nelle persone con HIV rispetto alla popolazione generale in tutte le fasce di età, ma soprattutto nelle fasce di età più anziane. Inoltre, lo studio evidenzia che la simultanea presenza di due o più patologie è significativamente più frequente nella popolazione sieropositiva rispetto alla popolazione generale e sottolinea la necessità di attuare uno screening precoce per queste patologie tra la popolazione infetta. In questo studio, i fattori predittivi di maggiore frequenza di comorbilità sono risultati essere l’età, il genere maschile, l’aver avuto un nadir di linfociti CD4 <200/µL3 e assunzione della ART.

Uno studio della Veterans Aging Cohort Study11 evidenzia che le persone con HIV hanno un rischio più alto di avere infarto del miocardio e malattia renale anche dopo aggiustamento per altri fattori di rischio; tuttavia, contrariamente ad altri studi, non rileva differenza di età alla diagnosi di questi eventi rispetto alle persone sieronegative.

La densità minerale ossea è stata valutata in molti studi che confrontano le persone con HIV con quelle sieronegative. Una meta-analisi di questi studi12 stima che la prevalenza dell’osteoporosi sia circa 3 volte più alta tra le persone con HIV che tra i controlli negativi, specialmente tra quelli che assumono la ART. Altri studi mostrano che la densità minerale ossea diminuisce tra il 2% e il 6% entro i primi due anni di inizio della ART; un simile decremento è stato osservato nei primi due anni di menopausa delle donne sieropositive, anche se tale decremento non sembra si discosti molto da quello delle donne sieronegative13,14. Nella popolazione con HIV sono state osservate anche alte proporzioni di fratture ossee, con percentuali del 30-50% più alte di quelle riportate nella popolazione non infetta15. Le cause della bassa densità ossea possono essere ricondotte a molti fattori che costituiscono una complessa interazione tra i rischi tradizionali dell’osteoporosi, potenziati dall’infezione cronica con il virus dell’HIV (per es., scarsa alimentazione e perdita di peso), dal consumo di alcol e tabacco, da bassi livelli di vitamina D e da fattori correlati con l’uso della terapia ART16.

Altra caratteristica dell’invecchiamento è l’infiammazione cronica che è riconosciuta essere il meccanismo centrale che guida la maggior parte delle malattie età-correlate. Infatti, alti livelli di marcatori dell’infiammazione, come IL-6, TNF, proteina C reattiva, sono indipendentemente associati a molte patologie come malattie cardiovascolari, fragilità e declino neurocognitivo. L’infezione da HIV induce di per sé infiammazione e, poiché l’alterazione non è quasi mai completamente ristabilita dalla ART, persiste nella persone trattate e con soppressione virale prolungata17.

Ulteriore tema particolarmente rilevante della comorbilità è quello della coinfezione con i virus dell’epatite (sia di tipo B che C). Platt et al.18 hanno effettuato una revisione sistematica e una meta-analisi per studiare l’impatto dell’infezione da HCV nella popolazione HIV-positiva e stimano che tra le persone con HIV la prevalenza dell’HCV è pari complessivamente al 2,4%, anche se questa varia notevolmente nelle diverse sottopopolazioni (4% tra le donne in gravidanza e tra gli eterosessuali; 6,4% tra gli MSM; 82,4% tra consumatori di sostanze per via iniettiva). Complessivamente, è stato stimato che le persone con HIV hanno una probabilità quasi 6 volte più alta di avere l’HCV rispetto alle persone HIV-negative.

L’infezione da virus dell’epatite B è identificata nel 5%-10% delle persone con HIV19. Le persone coinfette con il virus dell’epatite B mostrano un peggioramento della malattia del fegato e una più rapida progressione verso la cirrosi. La prevalenza della coinfezione HBV-HIV ha una variazione geografica molto ampia principalmente dovuta a differenze nella modalità di trasmissione. Inoltre, studi sulla storia naturale dell’infezione da HBV in persone con HIV hanno dimostrato nelle persone coinfette un aumento del rischio di morte.

La prevalenza dei disordini neurocognitivi associati all’infezione da HIV varia dal 52% al 59%20-21. Con l’aumentare dell’età, potrebbero aumentare la prevalenza e la gravità dei disordini cognitivi. Valcour et al.22 riportano che le persone con HIV più anziane hanno una probabilità tre volte più alta di sviluppare demenza rispetto alle persone con HIV più giovani. Inoltre, tumori, diabete e disturbi cardiovascolari compromettono le funzioni neurocognitive e possono acuire i disturbi cognitivi associati con l’HIV.

La persona con HIV come paziente fragile

L’innalzamento dell’età media delle persone con HIV, risultato dell’aumentata sopravvivenza delle persone infette e dell’incremento dell’età alla diagnosi5, è un dato di fatto che ha importanti implicazioni nella nostra pratica clinica. Già oggi la metà di tutte le persone infette da HIV negli Stati Uniti è di età superiore ai 50 anni (US Department of Health), ma tale proporzione raggiungerà il 73% entro il 2030 in Europa9.

Non si tratta però solo di un fenomeno demografico: la sovrapposizione tra infezione da HIV e invecchiamento ha infatti radicalmente cambiato, come abbiamo visto da dati delle coorti, il quadro clinico di questa malattia a causa dell’emergere di comorbosità, tipicamente condizioni patologiche età-correlate.

Le comorbosità di natura non infettiva23-26, quali l’ipertensione, il diabete, le malattie cardiovascolari, renali e ossee, la malattia polmonare ostruttiva cronica (COPD) e i tumori, sono patologie che tendono ad aggregarsi nello stesso individuo in complessi quadri polipatologici detti di multimorbilità (MM) e mostrano un impatto significativo sul rischio di disabilità e mortalità; pertanto condizionano la gestione terapeutica e clinica dei pazienti con infezione da HIV del terzo millennio.

Una delle principali conseguenze della MM è un declino accelerato della funzione fisica, condizione necessaria per lo sviluppo di fragilità. Lo strumento più utilizzato per misurare la funzione fisica è la velocità del cammino, in particolare una velocità <1 m/s, è un indicatore attendibile di un aumento della mortalità nella popolazione generale27.

Nella coorte statunitense MACS, le persone con HIV di oltre 45 anni di età presentavano un calo della velocità di cammino 2 volte maggiore rispetto alle persone HIV-negative.

Non esiste, e forse non è necessaria, una definizione HIV-specifica di fragilità28. Rifacendoci alla letteratura geriatrica possiamo definire questa condizione clinica attraverso due diversi modelli concettuali: il modello fenotipo29 e quello dell’accumulo di deficit30. Ognuno di questi modelli ha punti di forza e limiti, e devono pertanto essere considerati complementari e non alternativi31,32. La tabella 2 mostra come questi due strumenti abbiano in realtà finalità differenti33. Lo strumento di misurazione per la fenotipo-fragilità più utilizzata è stato proposto da Fried et al.29 e definisce la fragilità come la presenza di tre o più delle seguenti cinque caratteristiche: lentezza, perdita di peso, resistenza ridotta, stanchezza e bassa attività fisica/energia. Questo fenotipo è altamente predittivo di ridotta qualità della vita (QoL) e aumentata probabilità di sviluppo di disabilità e mortalità34. La prevalenza della fragilità nella persona con HIV varia dal 7 al 29%, decisamente più elevata di quanto atteso in coorti di pari sesso ed età35. La coorte olandese AGEhIV ha recentemente mostrato una prevalenza di fenotipo fragile del 10,6% in 500 pazienti con infezione da HIV contro il 2,7% dei controlli HIV-negativi. In questo studio, HIV rappresentava un fattore di rischio indipendente di fragilità dopo aggiustamento per variabili demografiche, fumo, coinfezione HCV e comorbosità, e conferiva una probabilità doppia di fragilità nella popolazione infetta36.




La fragilità fenotipica è ampiamente descritta anche nei Paesi emergenti. In uno studio effettuato in Sud Africa, la fragilità è stata identificata nel 19% dei soggetti HIV-positivi rispetto al 13% dei controlli HIV-negativi37. Questo fenotipo si associa a ricoveri ospedalieri, sindromi geriatriche come per es. cadute, ridotta QoL e mortalità38,39.

La concettualizzazione della fragilità quale accumulo di deficit considera la fragilità uno stato di salute piuttosto che una sindrome clinica specifica. Questo modello teorizza che tale condizione clinica derivi dall’erosione dei sistemi omeostatici di controllo dei vari apparati per accumulo di deficit legati all’invecchiamento. L’indice di fragilità, proposto da Mitnitski et al. nel 200140, calcola il rapporto dei deficit di salute presenti in un individuo rispetto al numero prestabilito di variabili raccolte. L’indice di fragilità comprende un minimo di 30 variabili che descrivono molteplici sistemi fisiologici; ogni deficit deve essere associato a esiti negativi per la salute e incrementano con l’età41. Queste variabili derivano dalle informazioni routinariamente raccolte nell’ambito della valutazione geriatrica globale e fanno riferimento, oltre a variabili sanitarie, a variabili di salute riportate dal paziente e derivanti da uno stato di vulnerabilità sociale. Non si tratta pertanto di un algoritmo che intende predire con il minor numero di variabili possibile un singolo evento avverso, valutando l’impatto delle singole variabili esaminate, quanto piuttosto utilizzare la ridondanza di variabili per descrivere l’età biologica dell’individuo prescindendo dall’età anagrafica. La sua potenzialità deriva dalla capacità, attraverso misure ripetute, di poter descrivere una traiettoria di salute, particolarmente efficace per misurare gli interventi di salute che possono essere attuati nelle persone fragili per diminuire il rischio di disabilità.

Negli studi sulla popolazione generale, che hanno incluso tra le 30 e le 100 variabili, l’indice di fragilità è stato un potente predittore di molteplici risultati di salute quali ospedalizzazioni, sindromi geriatriche, spesa sanitaria, MM e mortalità42.

Nella coorte della Clinica Metabolica di Modena (MHMC), un indice di fragilità costituito da 38 variabili routinariamente raccolte durante le valutazioni mediche era in grado di predire la MM incidente e la mortalità, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla conta delle cellule CD4 e dall’uso di droghe per via endovenosa43. In una recente analisi della MHMC44, sono stati confrontati il fenotipo fragilità e l’indice di fragilità; il 10% dei partecipanti era fragile, il 30% era pre-fragile e il 60% dei partecipanti era robusto, mentre il punteggio dell’indice di fragilità era 0,30±10. Con entrambi gli strumenti la fragilità tendeva ad aumentare con l’età, non differiva per sesso e si associava a più basso nadir di cellule CD4 e a pregressa diagnosi di AIDS. I punteggi più alti di indice di fragilità si associavano a ipertensione, diabete, cirrosi epatica, osteoporosi/osteopenia, insufficienza renale, dislipidemia, sarcopenia e MM, mentre il fenotipo non si associava alle comorbosità. Sono necessari ulteriori lavori per comprendere meglio le differenze tra questi due modelli di fragilità nelle persone con infezione da HIV, ma soprattutto il loro utilizzo, per monitorare gli interventi mirati a contrastare il declino funzionale dei pazienti con HIV.

L’aumento della prevalenza di fragilità nella popolazione HIV può essere giustificato da meccanismi di immunoattivazione e immunosenescenza specifici di questa popolazione. In uno studio clinico presso l’Università del Colorado, la compromissione funzionale accompagnata dalla fragilità si associava sia con l’attivazione immunitaria (misurata con i valori solubili di CD14, CD163 e CD16, e la conta di monociti e delle celluleCD8 HLA-DR+/CD38+), sia con i marcatori di senescenza CD45RA+ terminalmente differenziate CD45RA+), così come con le citochine infiammatorie circolanti (quali, interleuchina IL-6 e il fattore di necrosi tumorale α, TNF-α)45. La fragilità nelle persone con infezione da HIV è stata anche associata con un minore numero di cellule CD4 e una incontrollata replicazione virale dell’HIV46,47.

La figura 6a ipotizza di poter descrivere la fragilità, misurata con il Frailty Index, attraverso una curva a “U” in cui il lato sinistro della curva rappresenta valori elevati di fragilità associati alla condizione di immunodeficit associati a una bassa conta dei linfociti CD4 e una replicazione incontrollata di HIV. Al contrario il lato destro della curva “a U” descrive l’incremento della fragilità che si osserva nelle persone con controllo dell’infezione virale e buon recupero dei linfociti CD4 il cui incremento è guidato dallo stato di immunodisregolazione o inflammaging. Un recente report della MHMC ha permesso di confermare questa ipotesi mostrando, in una casistica di 2756 pazienti che contribuivano a 8975 misurazioni di fragilità, la relazione esistente tra conta CD4 e Frailty Index e il ruolo indipendente del rapporto linfociti CD4/CD8 nel predire lo stato di fragilità (figura 6b)48. Questi risultati rendono plausibile che il declino funzionale associato all’invecchiamento nelle persone infette da HIV sia guidato da un fenomeno di inflammaging.

Possiamo pertanto concludere che la fragilità è una condizione clinica prevalente nelle persone con infezione da HIV associata a variabili immunologiche HIV-specifiche. La misurazione della fragilità permette una corretta stratificazione di questa popolazione per individuare i soggetti vulnerabili che necessitano di interventi specifici per prevenire eventi avversi e la comparsa di disabilità.




l’aderenza alla terapia antiretrovirale

In generale, l’aderenza alla terapia deve essere considerata il fulcro tra l’efficacia teorica e l’efficacia di qualsiasi regime farmacologico. Infatti, il successo del progetto di cura è intrinsecamente legato all’aderenza, intendendo per questa la capacità del paziente di seguire esattamente le indicazioni terapeutiche consigliate. Mai come nel trattamento dell’infezione da HIV quest’argomento ha ricevuto tanta attenzione ed è stato oggetto di eccezionali mutamenti. Se, infatti, in passato le caratteristiche dei farmaci erano gli aspetti che maggiormente impattavano in senso negativo sulla corretta assunzione della terapia, in epoca recente permangono attuali ancora gli aspetti legati al paziente e acquistano di consistenza quelli riferiti alla struttura sanitaria (tabella 3). Tutto ciò appare ancora più rilevante se si considera il cambiamento del quadro clinico dell’infezione che, da condizione acuta con esito spesso infausto, si è trasformato in patologia cronica a lungo termine in una popolazione HIV-positiva che, nella maggioranza dei casi, si sta muovendo dalla seconda alla terza età. In buona sostanza, la gestione dell’infezione da HIV è transitata dall’epoca in cui la non aderenza alla terapia determinava il frequente sviluppo nel virus di mutazioni conferenti resistenza ai farmaci antiretrovirali, e quindi a gravi limitazioni nella trattabilità dell’infezione, alla condizione attuale nella quale l’assunzione dei farmaci è facilitata dalla semplicità dei regimi e il successo terapeutico è raggiunto nella quasi totalità dei soggetti.

Premessa necessaria all’argomento dell’aderenza alla ART è la considerazione che in epoca recente le linee-guida raccomandano di candidare alla ART tutti i soggetti con diagnosi di infezione da HIV, anche indipendentemente dai valori di linfociti CD4+ o dalla carica virale49. Questa modifica di strategia terapeutica comporta nella persona HIV-positiva il venir meno del vissuto dell’infezione in assenza di trattamento e la fusione del momento traumatico della diagnosi con l’inizio della terapia. In epoca moderna, quindi, la valorizzazione in senso positivo dei farmaci antiretrovirali nella speranza di governare la malattia ha sostituito la preoccupazione di un aggravamento delle proprie condizioni cliniche tale da necessitare l’inizio della terapia basato sul valore dei linfociti CD4+ comune nei pazienti in passato.




Per quanto attiene alle caratteristiche del regime antiretrovirale, espresse dalla complessità in termini di numero di dosi e di pillole giornaliere, oltre che dai possibili sintomi ed effetti collaterali, si è assistito nel corso degli anni a uno straordinario sovvertimento dei fatti: oggi il trattamento dell’infezione da HIV può essere attuato sin dal principio con un’unica pillola giornaliera, grazie alla coformulazione di più principi farmacologici e con eccellente tollerabilità delle medicine. In passato, invece, erano necessari regimi molto complessi, con 2-3 assunzioni di più pillole al giorno e con frequenti sintomi ed effetti collaterali. Da allora, è stato inequivocabilmente documentato che la complessità del regime e le somministrazioni multiple giornaliere hanno un impatto negativo sulla corretta assunzione della terapia50,51. Contestualizzando la corrente semplicità della ART nell’attuale popolazione HIV-positiva, frequentemente costituita da una parte di persone anziane con comorbilità e trattamenti poli-farmacologici e dall’altra da soggetti giovani scarsamente inclini ad adattare la propria vita alle esigenze terapeutiche, si comprende bene il vantaggio costituito dal numero limitato di dosi e pillole.

In merito alle caratteristiche del regime, assieme alla complessità, deve necessariamente essere menzionata, per il passato, la frequente comparsa di effetti collaterali di varia natura (per es., alterazioni dell’alvo, disturbi neuropsicologici, sindrome lipodistrofica, ittero) la cui presenza è nota per essere legata alla scarsa aderenza ai farmaci52. Oggi l’ottima tollerabilità dei farmaci antiretrovirali e la bassa frequenza di effetti collaterali consentono al medico infettivologo di poter indagare nei pazienti, che da qualche tempo attuano un trattamento efficace, gli aspetti minori relativi alla tollerabilità dei farmaci e di risolvere anche quei sintomi che, se pur accettabili, rendono la terapia sopportabile ma non ottimale.

La non aderenza alla ART nelle sue varie forme è ancor oggi piuttosto frequentemente riportata dal paziente in occasione della visita clinica: l’omissione di pillola o di dose nell’ultima settimana dal 12-22%, l’interruzione della terapia per due o più giorni consecutivi nel 5-12%, la deviazione di orario nel 33-35%. Fortunatamente, l’aumento della potenza antiretrovirale e le caratteristiche farmacocinetiche dei farmaci di recente introduzione sembrano contrastare il livello di aderenza sub-ottimale nel mantenimento della soppressione virologica minimizzando le conseguenze sulla selezione di resistenze nell’HIV53. Pur essendo questo riscontro sostanzialmente a vantaggio del paziente meno aderente, deve essere mantenuta massima cautela da parte dello staff medico-infermieristico, poiché i livelli minimi di aderenza necessari per l’efficacia terapeutica con le nuove classi di antiretrovirali non sono stati ben identificati54. Anche il fatto che il rischio di fallimento virologico e la probabilità di sviluppo di resistenza nei diversi tipi di non aderenza e per le differenti classi di farmaci non siano gli stessi, deve comunque indurre il medico, assieme al paziente, a perseguire sempre l’aderenza ottimale come obiettivo strategico.

Riguardo ai fattori correlati alla corretta assunzione della terapia e associati al paziente, rimangono preoccupanti, accanto al grave disagio socio-economico, tutte le condizioni associate alla salute mentale. Particolare attenzione deve essere riservata alle sindromi ansioso-depressive e alle ripercussioni psicologiche relative alla diagnosi di HIV legate alla paura di stigmatizzazione sociale, familiare e nella coppia55-57. Tutte queste condizioni sono più frequenti nelle donne, negli anziani e nei soggetti con condizioni predisponenti e rappresentano se non trattate un ostacolo concreto alla corretta assunzione dei farmaci, portando anche a interruzioni terapeutiche e alla perdita della soppressione virologica. Il quadro clinico purtroppo spesso rimane misconosciuto e richiede lo screening sistematico58 e un approccio multidisciplinare con l’aiuto di tutte le figure professionali tra cui medici, infermieri, psicologi, psichiatri, assistenti sociali e soggetti “pari”. L’attenzione a questa problematica è particolarmente necessaria in alcuni momenti critici nel percorso di malattia del paziente (patient journey), quali la diagnosi dell’infezione da HIV, la comunicazione della propria sieropositività al partner sessuale o a genitori/figli, la diagnosi di una comorbilità.

In ultimo, anche se non meno rilevante ai fini della corretta assunzione dei farmaci, deve essere citato il rapporto del paziente con lo staff sanitario e la struttura ospedaliera. Una relazione di fiducia con medici, infermieri e farmacisti si associa a livelli di aderenza ai farmaci e di ritenzione nel progetto di cura più elevati rispetto a quelli osservati in soggetti che nutrono diffidenza nell’équipe sanitaria59. Pertanto, oggi come ieri, appare essenziale riconoscere al paziente l’“unicità di persona”, valorizzando la sua storia personale, le sue relazioni familiari e sociali e il ruolo professionale, al fine di controbilanciare la “perdita di identità” scaturiti dalla diagnosi dell’infezione da HIV. La costruzione di un “sodalizio terapeutico” tra medici, infermieri, farmacisti e paziente è alla base per una gestione efficace e duratura nel tempo dello stato di salute della persona con infezione da HIV.

È noto come l’approccio multidisciplinare comprendente il medico infettivologo, gli infermieri e il farmacista costituisca un valido strumento per ottimizzare l’aderenza ai farmaci e il monitoraggio/gestione degli eventi avversi. Infatti, ciascuno per il proprio ruolo, deve spiegare al paziente il vantaggio della cura, l’importanza dell’aderenza alla terapia in tutti i suoi aspetti, i possibili effetti collaterali e la loro gestione.

Altra tematica concerne il corretto rifornimento di farmaci antiretrovirali da parte del paziente presso la struttura sanitaria. Infatti, tra i comportamenti di non aderenza ai farmaci devono essere annoverati, oltre all’omissione di dose e/o pillole e la deviazione dall’orario di assunzione, anche le brevi interruzioni della continuità della ART riconducibili a un ritiro irregolare delle medicine presso la farmacia ospedaliera. La necessità da parte del paziente di recarsi presso la struttura ospedaliera di riferimento in occasione di scadenze predeterminate può creare, in alcune persone, problematiche organizzative o di altra natura. D’altra parte va considerato che il momento del ritiro del farmaco può costituire un’occasione per verificare l’aderenza alla terapia farmacologica, anche attraverso la somministrazione di specifici questionari.

In conclusione, pur essendo straordinariamente migliorate le variabili associate ai farmaci antiretrovirali, in termini di semplicità e di tollerabilità del regime, ancor oggi la non aderenza rappresenta un fenomeno degno di attenzione nell’infezione da HIV. Infatti, per rendere l’assunzione della terapia ottimale e quindi per garantire la più elevata percentuale di successo terapeutico, è necessario aumentare l’attenzione alle psicopatologie della persona sieropositiva e migliorare l’accessibilità alla struttura sanitaria. Questo a maggior ragione se si considera la frequente comorbilità e fragilità dei soggetti HIV-positivi più anziani, ma anche le esigenze di realizzazione personale e di mobilità rivendicate dai giovani sieropositivi.

Se il sistema sanitario e i singoli ospedali saranno capaci di attualizzare l’assistenza in base alle necessità della maggioranza dei soggetti HIV-positivi cronici in età avanzata e di rispondere in maniera pro-attiva alle esigenze di una popolazione giovane piena di speranze, si potranno registrare un beneficio sull’aderenza alla terapia, ottenere e mantenere l’efficacia virologica in tutti i soggetti trattati, erogare elevata qualità di cura e contribuire a migliorare la qualità di vita delle persone con infezione da HIV.

Come scegliere un farmaco per la terapia della malattia da HIV: alcuni problemi di metodo

Una scelta basata sull’evidenza in assenza di studi clinici comparativi

Nel campo della ART, le evidenze alla base delle decisioni cliniche raccomandate dalle linee-guida sono frequentemente basate sui risultati degli studi clinici randomizzati (RCT). Tuttavia, le aree di incertezza clinica, quelle in cui le informazioni da RCT risultano assenti o non soddisfacenti, rimangono ancora ampie e significative. Valga come esempio la questione del punto ottimale di inizio della ART, in particolare se l’inizio precoce della stessa sia legato o meno a un beneficio clinico, materia oggi in larga parte definita da studi randomizzati60, ma a lungo basata sull’evidenza, talora controversa, da studi osservazionali, che rimangono strumento applicativo indispensabile per definire il reale beneficio clinico in rapporto alle caratteristiche della popolazione rappresentativa della distribuzione epidemiologica reale61. E altri esempi di aree di incertezza, in cui l’evidenza da un singolo o da specifici studi randomizzati sia insufficiente e in cui risulti necessario il ricorso alla revisione sistematica o alla meta-analisi di studi o a studi osservazionali, riguardano gran parte dell’evidenza sul tema aderenza alla terapia, la tossicità di farmaci e regimi, il rischio di interruzione o di cambio della terapia, il rischio di malformazioni fetali legate all’esposizione alla terapia antiretrovirale nella donna in gravidanza. Ulteriori aree di incertezza vengono dall’analisi dell’efficacia clinica in popolazioni in cui l’impatto della letteratura sia ancora limitato per numerosità di popolazione inserita negli studi (donne, pazienti pediatrici, pazienti anziani), o per carenza di studi specifici in particolari condizioni o sottogruppi (pazienti late presenters, MSM, popolazioni migranti o appartenenti a gruppi etnici specifici).

Criticità delle evidenze sul come iniziare la terapia antiretrovirale

Una recente revisione sistematica ha individuato circa 100 studi clinici randomizzati nel paziente ART-naïve tra il 2002 e il 2013, che hanno a loro volta “informato” più di 400 revisioni sistematiche molte delle quali includono formali meta-analisi62. Rappresentando tali studi comparativi in base alla geometria delle network meta-analysis in termini di comparazioni pertinenti alle diverse classi farmacologiche (figura 7), appare evidente come non tutte le comparazioni a tale livello siano presenti, e come un principio di sufficiente rappresentatività riguardi soprattutto il confronto tra regimi contenenti inibitori delle proteasi con o senza boost (PI e PI/r) e inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTI), su cui insistono la maggior parte degli studi. Limitate sono ancora le informazioni sul confronto tra le due classi storiche di terzo farmaco (NNRTI e PI/r) e gli inibitori delle integrasi (INI o INSTI). E, laddove analizzate su ampia scala (29 studi comprendenti 9.047 partecipanti), le differenze di efficacia tra regimi contenenti NRTI e PI/r sono risultate trascurabili63. In merito all’impatto clinico delle nuove classi farmacologiche, una recente meta-analisi comprendente 114 studi (con 216 gruppi di trattamento e 40.124 partecipanti), in cui l’efficacia risultava pari al 75% nei regimi preferiti e del 65% per i regimi alternativi (in rapporto alle raccomandazioni delle linee-guida DHHS 2013), ha stabilito una superiore efficacia per i regimi contenenti tenofovir disoproxil fumarato+emtricitabina (TDF/FTC) come backbone NRTI, e un INSTI come terzo farmaco64. Un ulteriore limite è rappresentato dalla bassa numerosità e rappresentatività di molte delle possibili comparazioni tra i differenti standard di riferimento, in particolare per i confronti tra nuovi farmaci e regimi, e tra regimi contenenti farmaci della stessa classe farmacologica. A conferma di questo, va evidenziato che, al 2013, in una larga parte degli studi pubblicati, lo standard di controllo era ancora rappresentato da efavirenz, farmaco oggi classificato come “alternativo” nella maggior parte delle linee-guida65. In tale contesto, ancora risultano mancanti diversi confronti head-to-head tra gli INSTI e altri terzi farmaci standard di classe (per es., rilpivirina tra gli NNRTI, atazanavir/r e darunavir/r tra i PI/r), e tra diversi INSTI oggi standard assoluti in base alle raccomandazioni delle linee-guida (dolutegravir verso elvitegravir/cobicistat, elvitegravir/cobicistat verso raltegravir). Le tecniche della network meta-analysis possono fornire la stima dell’efficacia relativa per regimi non direttamente analizzati in studi comparativi randomizzati66, anche laddove tali informazioni mancanti non siano deducibili dall’analisi di coorti osservazionali, a causa dell’ancora limitato tempo di follow-up nei database osservazionali per i farmaci di nuova generazione e di più recente introduzione in clinica. Al problema della carenza di rappresentatività dei confronti più significativi in termini clinici vanno ad aggiungersi alcune questioni di metodo che aumentano potenzialmente il grado di incertezza e soprattutto limitano la traducibilità di tali risultati in termini di raccomandazioni valide per la pratica clinica. Tali questioni investono prioritariamente il disegno degli studi, ma anche le caratteristiche degli studi stessi in termini di popolazione arruolata e analizzata. Per esempio, è nozione consolidata che la stragrande maggioranza degli studi clinici nel setting HIV sia studi di non inferiorità, con una piccola minoranza di studi di equivalenza. Anche se molti degli studi di non inferiorità di ultima generazione hanno previsto una valutazione predefinita di superiorità in caso di dimostrazione di non inferiorità all’end point primario (in genere 48 settimane di osservazione), i disegni originari di superiorità sono estremamente rari e tale prassi segue il principio condiviso a livello regolatorio in base al quale l’inserimento di un nuovo farmaco (o regime) debba rispondere a una dimostrazione di non inferiorità rispetto agli standard in essere, secondo un principio di almeno eguale efficacia con dimostrati benefit sul profilo di tollerabilità, tossicità, convenienza (pill burden), tutti elementi critici per un successo duraturo di una terapia cronica. Se tali considerazioni appaiono giustificabili per gli studi registrativi (su cui pesa il vincolo della richiesta di tale tipologia di studi a livello di enti regolatori quali FDA ed EMA), meno comprensibile risulta il ricorso sistematico al disegno di non inferiorità per gli studi post-registrativi o strategici, in particolare quelli condotti da organismi istituzionali (ACTG, ANRS, MRC). Alla carenza di disegni alternativi a quello di non inferiorità vanno ad aggiungersi altri limiti metodologici, quali la durata (in genere raramente superiore alle 144 settimane), le caratteristiche dell’end point primario (TLOVR o Snapshot) e dell’analisi primaria dello studio (intention-to-treat, ITT; missing=failure, MEF), che rendono difficile una reale comparazione di efficacia, privilegiando caratteristiche di tollerabilità, diluendo il fallimento virologico nel più ampio novero delle interruzioni della terapia per differenti cause e non consentendo una valutazione effettiva della pura efficacia virologica67. A questi limiti vanno ad aggiungersi quelli relativi alla rappresentatività, all’interno degli studi, di popolazioni o sottogruppi da considerare come maggiormente critici e difficili in rapporto alla valutazione dell’end point primario di efficacia. Tra queste, la popolazione femminile, con potenziali rischi di minore aderenza al trattamento, i gruppi di età più estremi (adolescenti, under 25 e over 60) i tossicodipendenti attivi, i soggetti con una condizione viro-immunologica sfavorevole (T-linfociti CD4+ <200 cell/mm3; HIV-1 RNA >100.000 copie/mL e >500.000 copie/mL) o con pregresse condizioni cliniche indicatori di AIDS. Le soluzioni a tali problemi causati da informazioni incomplete o mancanti possono essere sia quella di studi randomizzati centrati su popolazioni targeted (quali donne, AIDS presenters, anziani), sia l’impiego a fini di efficacia di database osservazionali, pur con il limite storico non sempre risolvibile del bias di selezione legato alla sussistenza, negli studi di coorte, di channeling bias dovuti alla allocazione non random del trattamento.




Criticità delle evidenze sul come cambiare la ART

Gli studi sullo switch terapeutico in condizioni di persistente soppressione virologica rappresentano un prototipo di studi di nuova generazione, volti a indagare efficacia e benefit clinici aggiuntivi del cambio proattivo della terapia dopo il raggiungimento del successo virologico. Nonostante la crescente espansione di tale specifica area di indagine, le informazioni risultano ancora limitate e sulla maggior parte degli studi al momento pubblicati gravano ancora limiti di disegno (non inferiorità con limiti inferiori della differenza in genere non più ristretti del -12%), durata temporale (molti studi ancora di solo 24 settimane) e numerosità del campione. Un altro limite è costituito dalla disomogeneità dei criteri di inclusione delle popolazioni in studio (durata della soppressione virologica allo screening, nadir dei T-linfociti CD4+ all’arruolamento), della mancanza di dati e informazioni su indicatori e predittori di possibile perdita di efficacia dopo il cambio di terapia (resistenze al baseline di inizio terapia, HIV-1 DNA allo screening e ampiezza del reservoir latente, livello di viremia residua al di sotto delle 50 copie/mL, frequenza di blip virali negli ultimi 12 mesi precedenti l’arruolamento, comportamenti misurabili di aderenza allo screening). Un altro limite degli studi di switch è rappresentato dalla potenziale ampia eterogeneità dei regimi di destinazione, con numerosità talora insufficienti, caratteri pilota degli studi e risultati non omogenei se non nell’ambito di un approccio di revisione sistematica, come nel campo degli switch verso regimi contenenti due farmaci (dual therapy)68. Inoltre, un altro punto critico è rappresentato dall’eterogeneità dei regimi di provenienza (background) e dalla mancanza di informazioni sufficientemente robuste sull’efficacia del cambio in rapporto alle caratteristiche del regime di provenienza. Studi di switch randomizzati di generazione più recente forniscono dati sufficientemente robusti di efficacia in rapporto al regime di provenienza69, ma questo tipo di informazione non è ancora disponibile per la maggior parte degli studi fonte di attuale evidenza. Infine, limiti ancora importanti sussistono in rapporto alla definizione degli outcome, specie laddove si confrontino non solo farmaci o regimi, ma strategie terapeutiche (quali un approccio immediato o differito al cambio). Il limite storico di tutti gli studi di ART rimane quello della sostanziale assenza di outcome clinici quali end point primari, legato alla bassa numerosità degli eventi clinici nei pazienti in trattamento, e mitigato dal valore predittivo clinico dei marker di sostituzione virologici, in particolare della determinazione della carica virale plasmatica. L’integrazione con dati osservazionali, utilizzando l’elevata numerosità dei database osservazionali al fine di simulare strategie comparative di switch terapeutico sul modello degli studi randomizzati, può consentire applicazioni di modelli di valutazione di outcome clinici, quali progressione clinica e sopravvivenza70.

Il contributo degli studi di farmacocinetica

L’aumento dell’età media delle persone con infezione da HIV e l’aumentato rischio di comorbilità rispetto alla popolazione generale ha determinato anche un’attenzione crescente alla compatibilità farmacologica dei composti antiretrovirali e degli altri farmaci che il paziente assume71. Si comprende pertanto come, in un’ottica centrata sulle necessità del paziente, la valutazione del potenziale di interazione farmacologica possa costituire un determinante fondamentale delle scelte terapeutiche. Ricordiamo che le interazioni farmacologiche stesse sono parte integrante del cammino di sviluppo della ART, che ha incorporato il concetto di “boosting” (storicamente ritonavir, ora cobicistat) attraverso la somministrazione di composti destinati a rallentare il metabolismo di altri farmaci e, quindi, a incrementarne gli effetti.

Il clinico infettivologo dispone senz’altro di strumenti informativi facilmente accessibili sul web, dei quali il capostipite probabilmente insuperato è HIV Drug Interactions dell’Università di Liver­pool (http://www.hiv-druginteractions.org), grazie ai quali possono reperire i dati farmacocinetici disponibili e ottenere consigli sull’opportunità di co-somministrazione. Ricordiamo però alcuni limiti informativi, che lasciano al clinico ampia libertà interpretativa e decisionale.

In primis, i dati a disposizione riguardano solo una parte delle possibili interazioni, generalmente quelle per le quali è richiesta, in ambito regolatorio, un’analisi durante lo sviluppo dei farmaci. In molti casi non è possibile effettuare studi formali di interazione per ovvi motivi clinici e ne consegue che in molti casi l’interazione stessa è ipotizzata sulla base dei meccanismi metabolici dei farmaci, ma non è agevole la previsione della sua rilevanza clinica.

Per esempio, la conoscenza delle differenze tra ritonavir e cobicistat può rivestire un ruolo importante nelle scelte farmacologiche. Cobicistat rappresenta l’evoluzione del concetto di booster laddove presenta una selettività di azione maggiore rispetto al predecessore, inibendo l’attività dell’isoenzima CYP3A4 senza però mostrare attività inibente o inducente su altri isoenzimi, quali 2C9, 2C19 o 2D672. I regimi basati su cobicistat rispetto a ritonavir possono essere considerati ragionevolmente privi di rischio significativo di interazione, benché manchino studi farmacocinetici ad hoc, con diverse categorie di farmaci substrati di questi ultimi quali antidepressivi (paroxetina, duloxetina), anticoagulanti (warfarin), anticonvulsivanti (valproato, lamotrigina) e altri. D’altro canto, resta simile a ritonavir il potenziale di interazione con i composti primariamente substrati del CYP3A472.

Una considerazione complementare alla precedente è quella relativa ai meccanismi di interazione. Sebbene la maggior parte delle interazioni sia dovuta a un effetto sul sistema del citocromo P450 e sui trasportatori intestinali quali la glicoproteina (Pgp), una parte di interazioni di possibile significato clinico può riconoscere meccanismi inerenti l’assorbimento del farmaco, quale il ben noto effetto limitante degli inibitori di pompa protonica su atazanavir e rilpivirina73, o l’escrezione degli stessi. Un esempio in quest’ultimo ambito è rappresentato da dolutegravir, farmaco riconosciuto a basso potenziale generale di interazione, ma in grado di incrementare i livelli di metformina in pazienti diabetici per competizione sulla secrezione tubulare della stessa74. Un altro caso riguarda i corticosteroidi assunti per via non sistemica, quale per esempio il fluticasone nel trattamento delle sindromi asmatiformi. Come già segnalato per i regimi contenenti ritonavir, anche cobicistat è stato descritto incrementare i livelli plasmatici del farmaco inalato con conseguente rischio di malattia di Cushing su base iatrogena75.

Un secondo aspetto importante da considerare nell’interpretazione dei dati di interazione è il range terapeutico dei farmaci in gioco. Non è tanto importante di per sé l’entità di incremento o decremento delle concentrazioni di un dato farmaco, ma quanto tale modifica sposti la concentrazione plasmatica dalla finestra terapeutica utile, causando una diminuzione al di sotto del livello di efficacia o un aumento al di sopra del livello di tossicità. Farmaci che hanno un ampio range terapeutico, quali per esempio gli inibitori dell’integrasi, possono tollerare pertanto variazioni di concentrazioni superiori ad alcune tipologie di farmaci concomitanti a ristretto range terapeutico (per es., digitale, antiaritmici, anticoagulanti, anticonvulsivanti, immunosoppressori). La prevedibilità clinica di questi effetti non è sempre agevole, ma rappresenta comunque un ausilio interpretativo dei dati di farmacocinetica. Per es., un decremento del 30% delle concentrazioni di elvitegravir non viene considerato di reale significato clinico laddove gli studi di fase III hanno dimostrato la stessa efficacia in tutti i diversi ranghi di esposizione plasmatica a elvitegravir stesso, quindi con variabilità da paziente a paziente superiori al 30%76. Di diverso tenore, per es., la stessa entità di decremento di concentrazione se relativa a un immunosoppressore quale tacrolimus in un paziente trapiantato, necessitante di pronto adeguamento posologico.

Un terzo punto di valutazione clinica è costituito dalla riproducibilità dei dati ottenuti su volontari sani nel contesto clinico dei pazienti con HIV. Se il dato che deriva da uno studio formale farmacocinetico effettuato su base regolatoria nel volontario sano individua in chiave generale un rischio di interazione potenzialmente significativo in termini di entità della stessa, non è detto che quest’ultima sia trasferibile tout court nel contesto clinico. È noto che nel paziente con HIV il profilo farmacocinetico di alcuni composti e, di conseguenza, l’entità dell’interazione possano differire dai dati ottenuti nel volontario sano, per variabilità del pH gastrico, malassorbimento e differenze metaboliche legate all’attivazione di CYP3A4 e del network citochinico. Un classico esempio è rappresentato dall’incremento delle concentrazioni del farmaco antimicobatterico rifabutina quando somministrato con i boosted PI. Sulla base dei dati ottenuti sui volontari sani, per molti anni il consiglio reperibile sulle linee-guida è stato di diminuire il dosaggio del 75% (150 mg a giorni alterni)7. Dopo diverse segnalazioni di fallimento terapeutico con evidenza di sottoesposizione plasmatica di rifabutina, si convenne che l’entità dell’interazione era senz’altro minore nei pazienti e che il decremento di dosaggio non dovesse superare il 50% (150 mg/die)77.

Un ultimo punto di frequente riscontro clinico è rappresentato dalle interazioni multiple, ovvero le associazione di più di due farmaci con potenziali interazioni reciproche mono- o bidirezionali. In questi casi, per lo più, non esistono studi formali di interazione e la risultante degli stessi processi interattivi è di difficile previsione. Per es., l’associazione di darunavir/ritonavir con etravirina (induttore enzimatico che si oppone in teoria all’azione inibitoria di ritonavir) si è dimostrata altamente efficace nella pratica clinica pur con un decremento del 30% delle concentrazioni di etravirina e sostanziale stabilità di quelle di darunavir, dato farmacocinetico non prevedibile a priori78. Tra l’altro, la mancanza di dati farmacocinetici controindica allo stato attuale l’uso dei regimi con cobicistat in associazione a etravirina, per il rischio di diminuzione delle concentrazioni dello stesso cobicistat e minore efficacia del suo effetto booster. Tale controindicazione, però, è del tutto prudenziale e andrà presto confermata o meno con dati provenienti dalla pratica clinica, similarmente a quanto fu fatto per i boosted PI associati a etravirina stessa.

In conclusione, la lettura clinica ragionata dei dati di farmacocinetica disponibili relativi alle interazioni farmacologiche rappresenta un elemento imprescindibile per una corretta valutazione del reale impatto di queste nella pratica e per il management ottimale delle scelte terapeutiche nel singolo paziente.

Quali esiti considerare?

La terapia come prevenzione

La ART non ha solo profondamente modificato la storia naturale dell’infezione da HIV determinando un netto miglioramento dell’aspettativa di vita delle persone affette e della qualità della stessa. Un altro risultato, altrettanto se non più rilevante della capacità delle terapie attuali di sopprimere la replicazione virale, sta nel poter considerare la persona con infezione da HIV in terapia efficace non più come una fonte di contagio per gli altri. Le prime evidenze che hanno mostrato come con l’aumentare dei soggetti in terapia vi fosse una diminuzione dell’incidenza delle nuove infezioni da HIV sono venute dal gruppo di Julio Montaner della British Columbia in Canada. La popolazione appartenente a quei centri include un numero elevato di soggetti che fanno uso di droghe per via endovenosa e tale fenomeno era presente anche in questa popolazione a elevato rischio di acquisizione dell’infezione79. Montaner è stato anche il primo a coniare l’espressione inglese treatment as prevention (TASP) e a intraprendere una battaglia per l’inizio precoce della terapia per motivi di salute pubblica, che ha portato tutte le linee-guida del mondo, OMS inclusa, a indicare l’inizio della terapia in tutti i soggetti con infezione da HIV indipendentemente dalla conta dei linfociti CD465. Oltre a questi effetti straordinari di popolazione, è a livello individuale, cioè della vita quotidiana delle persone che vivono con l’infezione da HIV, che il raggiungimento di una carica virale plasmatica soppressa ha portato i maggiori cambiamenti. Gli ambiti nei quali si è esplicitato questo effetto protettivo sono infatti molteplici: dalla trasmissione materno-fetale alla trasmissione sessuale agli incidenti occupazionali. Per quanto riguarda la prevenzione della trasmissione materno-fetale era noto dallo studio ACTG 07680, che aveva valutato la monoterapia con zidovudina, come la ART, anche la più incongrua attualmente ai nostri occhi, potesse diminuire il rischio d’infezione nel nascituro. Ma è soltanto con la triplice terapia e con il raggiungimento della carica virale soppressa al parto che abbiamo raggiunto livelli di trasmissione vicini allo zero. Certamente permangono problematiche aperte, in quanto nei nostri centri la maggior parte delle donne gravide con infezione da HIV è immigrata, con conseguenti barriere linguistiche e culturali che impattano negativamente sull’accettazione della terapia e sull’aderenza, al punto che dati recenti mostrano come soltanto il 63% delle donne abbia nel terzo trimestre una carica virale plasmatica <50 copie/mL (Registro Italiano di Sorveglianza 2014). Questo dato pone anche un ostacolo al ricorso routinario al parto vaginale; infatti, tale modalità di parto non aumenta il rischio di trasmissione nelle donne con viremia soppressa e in assenza di indicazioni ginecologiche al parto cesareo. I risultati straordinari ottenuti sulla trasmissione materno-fetale hanno gettato le basi per dire che la terapia assunta correttamente e quindi la presenza di un livello bassissimo di virus nel plasma potesse prevenire la trasmissione sessuale.

I primi a porsi tale problema e a modificare le proprie linee-guida sono stati gli svizzeri ormai diversi anni fa. Riguardo questo argomento è importante sottolineare come la pratica clinica ambulatoriale avesse evidenziato un uso del profilattico all’interno di coppie stabili siero-discordanti almeno discontinuo, ma sono state le evidenze emerse dallo studio PARTNER a mostrare l’entità impressionante di questo fenomeno sia quando si parla di rapporti vaginali sia di rapporti anali, persino quelli recettivi, notoriamente più rischiosi81.

L’evidenza definitiva della protezione per quanto riguarda la trasmissione di HIV al partner eterosessuale della ART in presenza di una viremia plasmatica soppressa è arrivata dallo studio randomizzato HPTN05282. Infatti, tale ricerca ha arruolato più di 2000 coppie discordanti nelle quali il partner con HIV veniva randomizzato ad assumere immediatamente la terapia o ad attendere che la conta dei linfociti CD4 scendesse al di sotto delle 350 cellule/uL, in accordo con le linee-guida dell’OMS vigenti al momento della sperimentazione. La protezione della ART è stata del 96% con una sola infezione trasmessa nel braccio in trattamento rispetto alle 27 nell’altro braccio. L’unico caso di trasmissione si è verificato in un paziente che aveva iniziato la ART da poco e che non aveva quindi raggiunto una viremia plasmatica soppressa, dimostrando come non sia tanto la ART quanto una carica virale plasmatica soppressa a proteggere.

Un ulteriore aspetto da considerare per quanto riguarda la protezione dalla trasmissione è quello della profilassi post-esposizione (PEP). Indubbiamente la presenza di una carica virale soppressa ha completamente modificato la percezione di infettività delle persone con infezione da HIV, pertanto in caso di infortunio biologico minore o rapporto sessuale a rischio se il soggetto fonte è soppresso all’ultimo controllo c’è la tendenza a non prescrivere la profilassi. Tuttavia, con l’applicazione nella pratica clinica di controlli clinici sempre più distanziati nel tempo, può capitare che l’ultimo controllo della viremia risalga a 6 mesi prima e sia quindi non del tutto attendibile anche da un punto di vista medico-legale. Inoltre, mentre per quanto riguarda il rapporto eterosessuale vi sono già diverse evidenze, anche a lungo termine, quali i 5 anni di follow-up dello studio HPTN052 o lo studio PARTNER, per quanto riguarda il rapporto anale recettivo, l’intervallo di confidenza dello studio partner era troppo ampio al punto da aver spinto i ricercatori a effettuare un nuovo studio soltanto sulla popolazione di uomini che fanno sesso con uomini (men who have sex with men, MSM) il PARTNER 2. Apparentemente sono questi i motivi per i quali le linee-guida italiane hanno mantenuto la raccomandazione alla PEP in caso di rapporto anale recettivo.

Un ulteriore aspetto da considerare è la capacità che hanno mostrato alcuni farmaci utilizzati per la terapia dell’infezione da HIV di prevenire il contagio se assunti da soggetti non infetti. L’uso dei farmaci antiretrovirali con questa modalità viene definita “profilassi pre-esposizione” (PrEP). Abbiamo già ricordato come i dati dello studio PARTNER abbiano evidenziato un uso insufficiente del profilattico e questo ha portato a un aumento dell’incidenza d’infezione nelle popolazioni che hanno rapporti più a rischio dal punto di vista anatomico e una maggiore promiscuità sessuale, come accade per gli MSM. Infatti, la PrEP viene vista come una strategia di riduzione del danno che si attua non quando non si riesce a incidere in modo significativo sui comportamenti a rischio che, anzi, con l’avvento del cosiddetto “chemsex”, cioè l’uso di droghe ricreazionali per prolungare l’attività sessuale e moltiplicare quindi il numero di partner, sono diventati ancora più pericolosi. Le basi patogenetiche della possibilità di utilizzare farmaci per la prevenzione sono state certamente desunte dalla profilassi per la trasmissione materno fetale dove l’esposizione del bambino a farmaci antiretrovirali ne previene l’infezione. La prima combinazione di farmaci studiata per la PrEP è stata quella basata su tenofovir ed emtricitabina nello studio randomizzato IPrex condotto in MSM, che aveva evidenziato una protezione dall’infezione del 44% nel braccio che assumeva quotidianamente il farmaco rispetto a coloro che assumevano il placebo83. Questo risultato non proprio entusiasmante era però giustificato dalla scarsa aderenza al regime di profilassi della popolazione arruolata, particolarmente giovane, e dal fatto che non vi fosse troppa convinzione sulla possibile efficacia preventiva. Infatti, quando il dato dell’IPrex era ormai noto, due studi randomizzati condotti uno in Inghilterra, lo studio PROUD, e uno in Francia, lo studio Ipergay, hanno entrambi mostrato una protezione di tenofovir/emtricitabina dell’86%84,85. I due studi differivano come schema di assunzione; infatti lo studio PROUD utilizzava lo schema IPrex, quindi un’assunzione giornaliera, mentre lo studio francese prevedeva una assunzione dei farmaci “on demand”. In pratica una prima dose di due compresse veniva assunta 2-24 ore prima dei rapporti sessuali, seguita da una terza compressa dopo 24 ore e da una quarta dopo ulteriori 24 ore. In caso di periodi di attività sessuale più prolungati, veniva assunta una compressa al giorno fino all’ultimo rapporto sessuale, e quindi una compressa dopo 24 e 48 ore. L’efficacia nei due studi è stata identica, nonostante nello studio Ipergay i soggetti abbiano assunto quasi la metà della dose totale dei farmaci rispetto allo studio PROUD. Quest’ultimo dato è particolarmente importante perché stiamo parlando di persone sane, anche giovani, che potrebbero assumere farmaci per un’infezione che non hanno anche per molti anni. Inoltre, i farmaci utilizzati hanno una tossicità a carico di osso e rene che è risultata direttamente proporzionale, almeno nello studio IPrex, alla concentrazione di tenofovir nei capelli, ponendo alcuni dubbi sul fatto di prescrivere la PrEP. Al momento sono stati studiati e presentati alla Conference on Retrovirus and Opportunistic Infections (CROI) nel 2016, ma non in studi di efficacia, anche maraviroc (Studio HPTN 069) sia da solo sia in combinazione con tenofovir, con emtricitabina e comparato con tenofovir/emtricitabina che deve rappresentare il gold standard con il quale effettuare confronti, e i risultati non sono stati molto incoraggianti, forse per il numero di compresse da assumere, e, solo per la tollerabilità, cabotegravir (studio ECLAIR), che potrebbe essere somministrato per via intramuscolare una volta al mese. Infine, si sta studiando se tenofovir alafenamide abbia la stessa efficacia protettiva del difumarato.

Tra le donne, l’efficacia della PrEP è risultata sempre minore rispetto a quella registrata tra gli MSM, e ciò è dovuto a ragioni sia di aderenza, che è stata nettamente inferiore, sia farmacocinetiche. Infatti, tenofovir si concentra circa 10 volte di più nella mucosa rettale rispetto a quella vaginale, e uno studio recente ha evidenziato come le donne per raggiungere una protezione adeguata dovrebbero assumere tenofovir/emtricitabina una volta al giorno86. Infine, per la protezione delle donne dal contagio è stato sviluppato un anello vaginale che rilascia dapivirina, che ha mostrato un’efficacia al momento insoddisfacente (44%), ma in fondo non diversa da quella osservata per la PrEP nello studio IPrex, e che quindi si spera possa migliorare in futuro87. In definitiva, l’effetto preventivo della ART rappresenta, sia in una prospettiva nazionale sia globale, il secondo miracolo clinico ottenuto nell’infezione da HIV dopo l’impatto straordinario sulla prognosi.

I patient reported outcome

Un patient reported outcome (PRO) viene definito come qualsiasi indicazione di esito clinico riportata direttamente dal paziente senza l’interpretazione del dato da parte del medico o di qualsiasi altra figura professionale88. Gli strumenti di misurazione dei PRO possono essere utilizzati in differenti contesti clinici, come trial clinici per la valutazione dei benefici terapeutici del prodotto farmaceutico in sviluppo, o per supportare le indicazioni prescrittive dal punto di vista del paziente o al fine di misurare l’effetto di un intervento medico su uno o più concetti come la qualità di vita, l’aderenza, i sintomi, l’aspetto funzionale, la gravità della malattia, la soddisfazione del trattamento. Un altro contesto è rappresentato da studi di “real world” (ricerche di mercato, studi di costo/efficacia, ricerche di sanità pubblica) al fine di valutare aspetti come i bisogni di cura dei pazienti, l’accettabilità di prodotti farmaceutici, la preferenza dei pazienti rispetto a prodotti differenti, l’aderenza e i fattori a essa correlati. Un ulteriore contesto è rappresentato dagli studi di pratica clinica dove particolare importanza rivestono l’identificazione e il monitoraggio dei sintomi riportati dai pazienti, le difficoltà nell’assumere le terapie, i bisogni di salute non soddisfatti, tutti fattori fondamentali al fine di condividere le decisioni mediche con il paziente stesso.

In considerazione della diffusione della ART, e della trasformazione della malattia da HIV in una condizione cronica, nel corso degli ultimi anni sta rivestendo sempre maggiore importanza l’impatto che tali terapie possono avere su molti aspetti della vita del paziente con infezione da HIV, spesso in precedenza sottovalutati.

La disponibilità degli attuali regimi antiretrovirali, generalmente associati a livelli di efficacia superiori all’80% nel paziente che inizia una ART, rende necessario spostare l’attenzione dai classici outcome di efficacia virologica e immunologica verso nuovi standard di efficacia, di cui i PRO rappresentano senz’altro un aspetto rilevante e innovativo.

I PRO si sono dimostrati estremamente utili nella gestione clinica dell’infezione da HIV. Rispetto ai protocolli di raccolta degli eventi avversi, essi si sono rivelati strumenti maggiormente sensibili89,90, così come si è osservato che sintomi riportati dai pazienti, quali fatica, febbre, appetito, disturbi del sonno e dolore muscolare e articolare erano correlati più strettamente con misure di QoL, salute fisica, ospedalizzazione e sopravvivenza rispetto a quanto riportato del medico91-94. Inoltre, è stato dimostrato come più elevati punteggi di sintomi riportati dai pazienti, dubbi riguardo possibili effetti collaterali e persistenza dei sintomi dopo l’inizio della cART siano associati a più bassi livelli di aderenza al trattamento52,95,96 e a un rischio aumentato di interruzione del rapporto di fiducia con il proprio medico curante97. Il valore dei PRO è inoltre stato recentemente riconosciuto negli USA dalla Food and Drug Administration, che ha lanciato l’iniziativa Patient-Focused Drug Development, con lo scopo di ottenere valutazioni specifiche dalla prospettiva del paziente su determinate patologie inclusa l’HIV/AIDS.

La misurazione dei PRO si è dimostrata di notevole utilità anche in trial comparativi su differenti regimi antiretrovirali. In particolare, i dati più rilevanti in letteratura riguardano studi di paragone tra regimi contenenti NNRTI e regimi contenenti PI, mentre sono assai più limitati studi di paragone tra regimi contenenti farmaci all’interno della stessa classe.

Ma un aspetto tutt’oggi ancora da definire è quali siano vantaggi e svantaggi dei differenti strumenti di misurazione dei PRO in modo da costruire una batteria di strumenti che sia utilizzabile al meglio nei trial clnici. In una recente revisione sistematica di letteratura, si è valutato l’utilizzo dei PRO in trial clinici su NNRTI e si sono identificati 27 strumenti di valutazione98. Tra essi, il Medical Outcomes Study HIV Health Survey (MOS-HIV) si è dimostrato il più comunemente utilizzato (8 trial). Il 65% dei trial includeva almeno uno strumento di misurazione multidimensionale di QoL (HRQL) mentre altri strumenti validati misuravano il sonno (5 trial), la depressione (5 trial), l’ansia (4 trial), sintomi psichiatrici e valutazioni rispetto ai farmaci anti-HIV (2 trial). Nonostante ciascuno strumento di misurazione dei PRO fornisca informazioni assai rilevanti, è di cruciale importanza valutare pro e contro di ogni strumento, particolarmente in termini di sensibilità e specificità nel catturare gli aspetti legati al paziente che possano rivestire maggiore importanza.

Molto spesso strumenti derivati da quanto prodotto in termini generici sono stati applicati e normalizzati all’infezione da HIV. È il caso di strumenti di HRQL come il MOSHIV, il FAHI e WHOQOL-HIV BREF, che sono stati mutuati a partire da strumenti generici come SF-20, Funcional Assessement of Cancer Therapy-General (FACT-G) e il WHOQOL-BREF, includendo considerazioni e aspetti che derivavano direttamente da pazienti con infezione da HIV o da medici che curavano i pazienti con infezione da HIV stessa. Gli autori sono generalmente concordi nel ritenere tali strumenti specifici per l’infezione da HIV molto utili in termini di misurazioni psicometriche nella popolazione HIV, mentre rivestono meno valore rispetto ai test generici laddove si voglia andare a includere tali misurazioni in valutazioni clinico-economiche tramite health technology assessment98.

Una recente applicazione dei PRO è stata riportata nello studio STAR, studio di confronto in pazienti naïve alla ART tra due regimi “single tablet” (rilpivirina/FTC/tenofovir vs efavirenz/FTC/tenofovir)99. Complessivamente i pazienti di questo studio hanno mostrato elevati livelli di aderenza autoriportata e di soddisfazione al trattamento in entrambi i gruppi, nonché un miglioramento della qualità di vita in entrambi i gruppi in studio. Inoltre, è stata osservata una differenza in termini di tollerabilità tra i due regimi, a favore del braccio contenente RPV. Il vero fattore aggiunto della strategia di trattamento single tablet, oltre alla maneggevolezza del regime, è rappresentato dall’importante riduzione dei sintomi collegati al trattamento e questo si associa a un miglioramento dell’aderenza stessa. Una bassa aderenza è stata associata a un incremento globale dei sintomi, e in particolare disturbi del sonno, fatica, ansia52, cosi come a un peggiore outcome virologico100. Nell’analisi snapshot effettuata nello studio STAR, una percentuale più elevata di pazienti nello strato di aderenza <95% nel gruppo EVF/FTC/TDF ha interrotto il trattamento per effetti collaterali, e questo suggerisce che il declino di aderenza sia un fattore sintomo-correlato. Nei pazienti dello studio, naïve al trattamento antiretrovirale, è stata dimostrata una riduzione dal baseline nella maggior parte degli item HIV SIQ in maniera similare nei due bracci di studio, e questo aspetto probabilmente riflette il miglioramento in termini di salute legato all’aumento dei linfociti CD4, a una minore replicazione virale, a una minore preoccupazione legata all’infezione da HIV dal momento che il paziente inizia la terapia. Sebbene l’applicazione dei PRO allo studio STAR presenti dei limiti legati per esempio all’effettiva completezza del questionario che può essersi ridotta nel tempo nei singoli pazienti, al fatto di essere uno studio randomizzato in aperto, cosa che potrebbe aver creato un bias nel paziente randomizzato a effettuare un regime di trattamento non “nuovo” come EFV/FTC/TDF rispetto all’altro regime “innovativo” come RPV/FTC/TDF, o al fatto che nello studio si è creato un effetto “ceiling”, con una percentuale di risposte verso l’ottimale molto alta nei due gruppi di studio che ha reso difficile differenziare i due gruppi, non riduce comunque il valore effettivo dello studio nell’aver reso i PRO un outcome indispensabile nella valutazione di trattamenti ormai giunti a livelli di efficacia estremamente elevati.

La valutazione dei PRO si è dimostrata, negli ultimi anni, di rilevante utilità anche nell’ambito dell’epatite cronica da HCV. Nei trial clinici dei nuovi farmaci anti-HCV la misurazione dei PRO ha dato risultati estremamente favorevoli rispetto a regimi basati su IFN. In particolare, si è osservato come durante il trattamento con regimi IFN-free vi sia una sostanziale stabilità o in altri studi un miglioramento dei parametri, con un netto miglioramento invariabilmente riportato al momento della SVR101. Tali risultati, ovviamente, riflettono la migliore tollerabilità dei regimi IFN-free rispetto ai regimi contenenti IFN con maggiori possibilità di portare a termine il trattamento stesso.

Gli esiti nelle sperimentazioni cliniche: il punto di vista delle persone con HIV

«Condanniamo il tentativo di etichettarci come “vittime”, termine che implica sconfitta, e solo occasionalmente siamo “pazienti”, che implica passività e dipendenza dalle cure di altri. Siamo “persone con AIDS”». Sin dal ١٩٨٣, con i cosiddetti Principi di Denver102, uomini e donne con HIV si sono impegnati perché la loro voce fosse ascoltata anche nel campo della ricerca e della pratica clinica. A partire da allora, quel tipo di impegno negli anni ha cambiato profondamente l’interazione del mondo della scienza clinica con i partecipanti alla ricerca e con chi usufruirà dei suoi risultati.

Avvicinare i trial alla quotidianità

Già negli anni Ottanta, gli attivisti sollevarono alcune questioni relative alle modalità con cui si svolgeva la ricerca sull’AIDS, che ancora oggi non hanno trovato una risposta definitiva. Nel 1988, nella guida per interagire con la Food and Drug Administration, gli attivisti di ACT UP New York denunciavano che «gli studi sui farmaci contro l’AIDS escludono molti di coloro che sono infettati con il virus»103. La rappresentatività delle popolazioni ammesse nei trial registrativi è ancora oggi uno degli argomenti che più spesso gli attivisti sul trattamento devono sollevare con chi conduce la ricerca e con chi ne stabilisce le regole. Le agenzie regolatorie hanno accolto nelle proprie indicazioni la necessità di selezionare una popolazione di studio con caratteristiche più simili a quella degli utilizzatori reali del farmaco: «Il programma di sviluppo clinico dovrebbe includere un numero sufficiente di donne, di individui dalle minoranze etniche, di pazienti infettati con sottotipi non-B e pazienti coinfetti con HBV e/o HCV per permettere conclusioni generalizzabili su sicurezza ed efficacia. Questi dati dovrebbero essere raccolti il prima possibile durante il programma di sviluppo del farmaco, preferibilmente in tempo per fornire indicazioni al disegno degli studi confermativi»104.

Ciononostante, la presenza di donne nei trial clinici sull’HIV è ancora troppo scarsa105 così come quella delle persone che usano sostanze a scopo ricreativo106 o di altri gruppi con importanti peculiarità come gli anziani o le persone transgender. Questo fa sì che una parte non trascurabile della popolazione con HIV usi dei farmaci che non sono stati testati su persone con caratteristiche simili: la possibilità di sovra- o sotto-dosaggi e di interazioni farmacologiche è un rischio concreto in questi gruppi.

La necessità di avvicinare gli studi clinici alla vita reale era già stata evidenziata nel 1983: Alvan Feinstein distingueva per esempio tra studi “pragmatici” e studi “fastidiosi”107. I primi dovrebbero rispondere a questioni pratiche legate alla gestione clinica dei pazienti; perciò il design dello studio dovrebbe «tenere conto della eterogeneità, delle ambiguità casuali o frequenti, e degli altri aspetti “confusi” della pratica clinica». Chi sostiene l’approccio “fastidioso”, invece, «teme che la strategia [pragmatica] possa portare a una risposta “confusa”. Preferisce una sistemazione “pulita”, usando gruppi omogenei, riducendo o eliminando le ambiguità, ed evitando la possibilità di risultati non obiettivi». Oggi questa divisione è datata: nessuno vuole mettere in discussione la necessità del rigore scientifico degli studi clinici randomizzati. Ma la necessità di trovare strategie per renderli più vicini alla vita reale è pressante.

Oltre il controllo della replicazione virale

Gli studi clinici randomizzati condotti con questo principio di rigore hanno permesso di avere oggi la disponibilità di trattamenti per l’infezione da HIV con un’alta efficacia e una buona tollerabilità. Dato l’alto livello raggiunto, può la ricerca clinica trovare molecole “migliori”, che rispondano cioè ancora meglio ai bisogni delle persone che vivono con l’HIV?

I progressi che si sono verificati dall’introduzione degli inibitori della proteasi prima, dai non nucleosidici della trascrittasi inversa poi e ultimamente dagli inibitori della integrasi sono confermati dai dati osservazionali derivanti dalla vita reale108. Questo progresso ha avuto come conseguenza un sempre minore ricorso a studi randomizzati di superiorità, attualmente quasi del tutto abbandonati nel campo dei trattamenti per l’HIV. Gli studi di non inferiorità sono disegnati per dimostrare che sicurezza ed efficacia di un nuovo regime non sono peggiori di quelli ottenuti con le terapie standard: secondo alcuni analisti109, questo tipo di studi sono strutturati in maniera da avere scarse possibilità di fallire. Basandosi sull’assunto che ci siano tassi di successo inferiori rispetto a quelli osservati nella vita reale, gli studi di non inferiorità arruolano un gran numero di partecipanti e scelgono un margine di non inferiorità ampio a sufficienza da poter rendere estremamente raro il fallimento del trial.

Dobbiamo perciò puntare a un abbandono dei trial di non inferiorità, come richiedono alcuni osservatori110? Dal punto di vista della comunità dei pazienti, il problema dovrebbe essere spostato sugli esiti da considerare. Per le agenzie regolatorie, la valutazione dei nuovi farmaci si basa comunque su dati relativi a efficacia e sicurezza. Per la valutazione della prima, carica virale e conta dei linfociti CD4+ sono ancora considerati i marker di riferimento (ai quali si affiancano i risultati dei test di resistenza per limitare le possibilità di fallimento), mentre per la safety l’Agenzia europea raccomanda l’esecuzione di studi post-marketing per acquisire dati a lungo termine104.

Eppure è evidente come anche il concetto di safety sia cambiato negli ultimi anni: per es., se all’inizio del terzo millennio erano ammissibili combinazioni gravate da tossicità mitocondriale, oggi la riduzione di eventi avversi di tipo metabolico è da considerare un elemento imprescindibile per lo sviluppo di nuove opzioni terapeutiche. Nonostante i tanti miglioramenti, i bisogni di salute delle persone con HIV a cui gli studi clinici sono chiamati a dare una risposta sono ancora molti. L’invecchiamento con HIV rende la presenza di comorbilità un elemento centrale per la valutazione della safety dei regimi terapeutici, mentre diversi dati mostrano come i marker di infiammazione, che si associano a un maggiore rischio di patologie come arteriosclerosi111, si mantengano più alti nella popolazione sieropositiva rispetto al controllo HIV-negativo112. I meccanismi per i quali lo stato di infiammazione si mantenga più elevato anche in chi ha una carica virale stabilmente non rilevabile non sono ancora del tutto chiariti, così come occorre ulteriore ricerca per stabilire l’effetto dei diversi regimi antiretrovirali sui marker di infiammazione113. Eppure, è proprio su questo campo che si gioca il miglioramento della salute delle persone con HIV: al di là del controllo della replicazione virale, come è possibile intervenire per limitare o fermare i processi di infiammazione che sono alla base del danno d’organo osservato nelle persone con HIV in stabile ed efficace trattamento?

È necessario un impegno di ricerca corposo per individuare i marker legati al processo di infiammazione e di sviluppo di patologie d’organo o sistemiche da poter usare in trial clinici che mirino a valutare l’effetto dei farmaci antiretrovirali, anche in congiunzione con eventuali ulteriori strategie terapeutiche.

Qualità della vita e benessere generale

In linea con i Principi di Denver, la scienza dell’HIV deve considerare il benessere della persona nel suo complesso. Il concetto di individualizzazione della ART è alla base dei successi ottenuti nel campo del trattamento dell’infezione da HIV: se il regime scelto non si adatta alle esigenze sanitarie, sociali e legate allo stile di vita della persona che lo deve assumere, il rischio di scarsa aderenza, e quindi di risultati sub-ottimali o persino di fallimento, aumenta. Anche per questo motivo, nonostante la disponibilità di numerosi farmaci antiretrovirali che concorrono a formare moltissime opzioni terapeutiche, l’introduzione di nuove molecole deve considerarsi un fatto positivo anche nel caso in cui la loro efficacia sia paragonabile a quella di altri farmaci già esistenti, purché le nuove opzioni possano offrire vantaggi relativi alla modalità di somministrazione, all’impatto su altre patologie o alla capacità di adattarsi allo stile di vita del paziente (anche nel caso, per es., di assunzione frequente di sostanze a scopo ricreativo).

Peraltro questo fattore è preso in considerazione anche dall’Agenzia europea del farmaco, che nella guida sullo sviluppo di nuovi farmaci antiretrovirali sostiene: «L’uso di strumenti validati per la qualità della vita in studi a lungo termine, controllati e preferibilmente in doppio cieco può fornire importanti informazioni aggiuntive sul profilo di rischio-beneficio, dato l’impatto di una scarsa tollerabilità sull’aderenza e il benessere psico-sociale».

In questo settore, un grosso contributo può venire dai cosiddetti “Patient Reported Outcomes” e soprattutto da quelli direttamente riferiti dal paziente. Anche a questo riguardo, tuttavia, è necessario un lavoro per identificare e validare i fattori più affidabili nella valutazione della QoL e del benessere della persona con HIV. La ricerca sta cominciando a muoversi in questa direzione: mai come in questo caso è indispensabile che essa avvenga con il coinvolgimento diretto dei rappresentanti delle associazioni delle persone sieropositive, in accordo con i Principi di Denver e con la storia della collaborazione multisettoriale che ha garantito successi importanti alla nostra comunità.

Quali esiti considerare nella costruzione di un PDTA?

Nell’attuale contesto clinico ed epidemiologico della malattia da HIV, il percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) si configura come strumento di governo dei processi assistenziali in carico ai Centri prescrittori al fine di fornire un omogeneo iter di cura e rendere ottimale il rapporto tra costi dei servizi e ritorno in termini di salute, nel rispetto della centralità del paziente e della sua patologia.

La Regione Veneto ha messo in atto negli anni numerose iniziative per ridurre le aree di inappropriatezza prescrittiva e governare la spesa, con la collaborazione fondamentale di gruppi di clinici, farmacisti, economisti, rappresentanti delle associazioni di pazienti, medici di medicina generale e altri esperti; tra queste, la produzione di linee-guida, percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali e indirizzi prescrittivi, valutazioni farmaco-economiche, l’individuazione di centri autorizzati alla prescrizione di farmaci ad alto costo, la definizione di obiettivi e indicatori di aderenza e il costante monitoraggio dei consumi114. Nel caso specifico, la Regione ha prodotto un documento “Percorso diagnostico terapeutico del paziente affetto da infezione da HIV”, approvato dalla Commissione Terapeutica Regionale Farmaci115,116.

È noto che l’obiettivo principale della ART di combinazione, in tutte le classi di pazienti, è quello di ridurre la viremia HIV stabilmente a valori non misurabili: la viremia è l’indicatore più importante di efficacia terapeutica e va misurata a intervalli regolari, soprattutto nei pazienti che iniziano la terapia49,116. Il marcatore immunologico prognostico più importante è invece rappresentato dalla conta dei linfociti T CD4+ che consente di determinare l’indicazione alla ART all’inizio o alla sospensione delle profilassi delle infezioni opportunistiche. Il test di resistenza rappresenta, infine, uno strumento diagnostico fondamentale per un corretto approccio terapeutico finalizzato al mantenimento per lungo tempo della viremia non rilevabile e dell’omeostasi immunitaria e clinica e va effettuato sia per la scelta della terapia di prima linea nei pazienti naïve sia per la scelta della terapia alternativa in caso di fallimento virologico.

La scelta del regime iniziale deve necessariamente basarsi sulle condizioni cliniche del paziente, sui dati viro-immunologici e sulle caratteristiche dei farmaci (efficacia, tossicità, tollerabilità e barriera genetica). A parità di condizioni, la scelta sarà poi guidata da criteri di costo/efficacia, che tengano conto anche di una strategia terapeutica a lungo termine (tabella 4). Il farmaco equivalente, poiché possiede gli stessi requisiti di efficacia e sicurezza dell’“originator”, può essere vantaggiosamente utilizzato sempre nell’ambito di una corretta selezione del paziente e anche di una condivisione della scelta con il paziente stesso. In particolare, l’equivalente può essere vantaggiosamente utilizzato nel paziente naïve qualora sia tra quelli che consentono di comporre uno dei regimi raccomandati per l’inizio della terapia, mentre nel paziente in cui è già stata raggiunta la soppressione virologica, nel caso di assunzione di farmaco originator non co-formulato, questo può essere sostituito dall’equivalente a minor costo senza compromettere l’efficacia. Nei pazienti in trattamento con le formulazioni a dosi fisse, si consiglia, invece, di tutelare il principio della continuità terapeutica; l’eventuale scelta di sostituire la formulazione a dosi fisse con una terapia contenente un farmaco equivalente va condivisa con il paziente.

È comunque importante ricordare che il successo clinico e virologico è fortemente correlato all’aderenza alla terapia farmacologica, intesa come la capacità del paziente di seguire le raccomandazioni del medico riguardo ai tempi, alle dosi e alla frequenza nell’assunzione dei farmaci prescritti. Un’aderenza sub-ottimale alla terapia è associata a progressione clinica di malattia, morte, regimi terapeutici complessi, costi sanitari più elevati e rischio di trasmissione di HIV, per cui la valutazione e il sostegno dell’aderenza costituiscono elementi fondamentali nella gestione dei pazienti con HIV.

Qualsiasi PDTA necessita di essere monitorato al fine di valutarne l’applicazione e l’impatto economico, oltre che verificare la necessità di aggiornamento. Gli indicatori di aderenza riportati nel PDTA rappresentano un necessario completamento degli indicatori di variabilità prescrittiva (costo annuo per paziente) e sono strettamente correlati agli indicatori di esito, in quanto una maggiore aderenza, ovvero la riduzione dello scostamento tra pratica clinica e raccomandazioni terapeutiche, è associata a un miglioramento dello stato di salute del paziente (box).

Le Direzioni Sanitarie, in collaborazione con i Direttori dei Centri prescrittori e con i Direttori di Farmacia, hanno il compito di diffondere il PDTA regionale a tutti gli operatori sanitari coinvolti nella presa in carico del paziente e promuovere audit interni per il controllo dell’appropriatezza prescrittiva, anche tenendo conto degli obiettivi annuali di salute e di funzionamento dei servizi assegnati alle Aziende Sanitarie.







Conclusioni

Sono trascorsi quasi trent’anni dalla pubblicazione del primo trial clinico sulla ART117. Questo studio, così come quelli pubblicati negli anni immediatamente successivi, aveva come obiettivo principale quello di verificare la capacità della terapia di rallentare lo sviluppo delle manifestazioni cliniche della malattia da HIV, capacità che con le terapie allora disponibili appariva comunque molto limitata. Nell’ultimo decennio del ventesimo secolo la disponibilità di nuovi farmaci e di nuovi marcatori surrogati di efficacia, in particolare la possibilità di misurare la quantità di virus circolante, hanno portato a una modificazione radicale del disegno degli studi clinici118. La soppressione della replicazione virale, definita da una viremia plasmatica inferiore ai limiti di rilevazione dei test disponibili per uso clinico, misurata su un periodo di 1-2 anni, è diventata quindi il principale marcatore di efficacia degli antiretrovirali.

Ma nel contesto attuale emerge chiaramente la necessità di valutare (anche) altri esiti per guidare le scelte di terapia119. In primo luogo appare necessario tornare al paziente e alle sue condizioni cliniche e valutare la capacità della terapia di ridurre il rischio di sviluppare patologie che non sono più, come abbiamo visto, principalmente quelle legate alla immunodeficienza indotta da HIV, ma le patologie cronico degenerative nel cui sviluppo l’infiammazione cronica causata da HIV svolge verosimilmente un ruolo centrale. E oltre a questo appare necessario tornare ad ascoltare ciò che la persona con HIV racconta sul suo benessere, attraverso strumenti quali la valutazione (e la validazione) dei PRO. Si deve ripensare ai problemi di aderenza alla terapia, visti in un’ottica di lungo termine, e valutare le terapie anche per il loro contributo al controllo dell’epidemia. E infine va esaminata attentamente la sostenibilità a lungo termine delle terapie, come una delle componenti di una spesa sanitaria per l’infezione da HIV che vede oggi, e vedrà sempre più nel futuro, un peso rilevante che deriva dalle comorbilità.

Ciascun autore ha contribuito in pari misura alla stesura del lavoro, curando i seguenti paragrafi: Enrico Girardi ha sviluppato l’idea dell’articolo e curato il coordinamento della sua stesura: Introduzione e Conclusioni; Antonella d’Arminio Monforte: I dati italiani; Laura Camoni e Patrizio Pezzotti: I dati delle coorti internazionali; Giovanni Guaraldi: La persona con HIV come paziente fragile; Adriana Ammassari: L’aderenza alla terapia antiretrovirale; Andrea Antinori: Una scelta basata sull’evidenza in assenza di studi clinici comparativi; Stefano Bonora: Il contributo degli studi di farmacocinetica; Cristina Mussini: La terapia come prevenzione; Antonella Cingolani: I patient reported outcome; Giulio Maria Corbelli: Gli esiti nelle sperimentazioni cliniche: il punto di vista delle persone con HIV; Silvia Adami, Luca Degli Esposti e Margherita Andretta, a nome del Gruppo di lavoro regionale HIV*: Quali esiti considerare nella costruzione di un PDTA?

Tutti gli autori hanno letto e approvato la versione finale.

Conflitto di interessi: E. Girardi: compensi per attività di formazione da Gilead Sciences e Janssen-Cilag, consulenza per Otsuka Novel Products, finanziamento per attività di ricerca da Gilead Sciences; A. d’Arminio Monforte: Board, Onorari per ECM e Finanziamenti di ricerca per Abbott, Bristol, Myers Squibb, Gilead Sciences, Janssen-Cilag, Merck Sharp & Dohme, ViiV Healthcare; L. Camoni: assenza di conflitto di interessi; P. Pezzotti: assenza di conflitto di interessi; G. Guaraldi: Board, Onorari per ECM e Finanziamenti di ricerca per Bristol-Myers Squibb, Contura, Gilead Sciences, Merck Sharp & Dohme, Theratechnologies, ViiV Healthcare; A. Ammassari: Board e Onorari per ECM per Abbott, Bristol-Myers Squibb, Gilead, GlaxoSmithKline, Janssen-Cilag, Merck Sharp & Dohme; A. Antinori: Onorari per ECM/Consultancy e Finanziamenti di ricerca per Abbvie, Bristol-Myers Squibb, Gilead Sciences, Janssen-Cilag, Merck Sharp & Dhome, ViiV HealthCare; S. Bonora: Board e Onorari per ECM per Abbott, Boehringer Ingelheim, Bristol-Myers Squibb, Gilead Sciences, Janssen-Cilag, Merck Sharp & Dohme, ViiV Healthcare; C. Mussini: Board e Onorari per ECM per Abbott, Bristol-Myers Squibb, GlaxoSmithKline, Merck Sharp & Dohme, ViiV Healthcare; A. Cingolani: assenza di conflitto di interessi; G.M. Corbelli: assenza di conflitto di interessi; S. Adami: assenza di conflitto di interessi; L. Degli Esposti: finanziamenti per attività di ricerca da Gilead Sciences, Janssen-Cilag, Merck Sharp & Dohme; M. Andretta: assenza di conflitto di interessi.

*Gruppo di lavoro regionale HIV: Margherita Andretta, Azienda ULSS 20, Verona; Giovanni Berti, Azienda ULSS 9, Treviso; Anna Maria Cattelan, Azienda Ospedaliera, Padova; Ercole Concia, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Verona; Enrico Costa, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Verona; Annalisa Ferrarese, Azienda ULSS 18, Rovigo; Anna Maria Grion, Azienda ULSS 16, Padova; Massimiliano Lanzafame, Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Verona; Marina Malena, Azienda ULSS 20, Verona; Vinicio Manfrin, Azienda ULSS 6, Vicenza; Saverio Parisi, Azienda Ospedaliera, Padova; Sandro Panese, Azienda ULSS 12, Veneziana; Giampietro Pelizzer, Azienda ULSS 6, Vicenza; Francesca Russo, Dirigente Servizio Sanità Pubblica e Screening Regione Veneto; Mario Saia, Responsabile Settore Ambulatoriale Regione Veneto; Mario Saugo, Responsabile del coordinamento del sistema epidemiologico Regione Veneto; Pier Giorgio Scotton, Azienda ULSS 9, Treviso; Giovanna Scroccaro, Dirigente Settore Farmaceutico-Protesica-Dispositivi Medici, Regione Veneto.

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