Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Non così elementare, Watson!

Pochi strumenti tecnologici nella storia sono stati sostenuti da una campagna promozionale tanto intensa ed enfatica come Watson, il sistema computazionale avanzato sviluppato da IBM circa cinque anni fa e divenuto celebre anche presso il grande pubblico per aver battuto due superesperti umani durante lo show televisivo “Jeopardy!”1.

Watson ‒ battezzato così in onore di uno storico dirigente della IBM e non certo del partner di Sherlock Holmes, il cui acume investigativo peraltro era molto scarso ‒ è stato implementato allo scopo di risolvere problemi fuori portata anche per i supercomputer, ma non (o non soltanto) a livello accademico, bensì nel mondo del business, in diverse e potenzialmente infinite declinazioni. Una di queste, forse la più delicata, è quella della Medicina. Il piano di IBM era di “mettere al lavoro” Watson ‒ che tra l’altro è capace di comprendere e decrittare istruzioni vocali anche molto complesse, cioè in un certo senso di “capire” il linguaggio umano ‒ su problemi talmente complessi da sembrarci insolubili, tipo “la fame in Africa” o “la cura per il cancro”. Per affrontare questa seconda sfida l’azienda ha avviato tre anni fa una partnership con la University of Texas MD Anderson Cancer Center e il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York: gli oncologi da allora “addestrano” Watson a comprendere i sintomi dei vari tumori in modo da fare diagnosi più accurate possibile ed elaborare le migliori strategie terapeutiche per i singoli pazienti2.




Le cose, purtroppo, non stanno andando lisce come l’IBM si aspettava. «Non siamo per niente al punto in cui prevedevamo di essere», spiega Lynda Chin, direttrice del Dipartimento Innovazione della University of Texas. «Trasformare un computer campione di Rischiatutto in un esperto di Oncologia si sta rivelando difficile come sembra a dirlo. Parte del problema sta nell’interpretazione dei dati real-life. Watson trova più arduo del previsto non solo decrittare le informazioni spesso incomplete o imperfette fornite dagli esseri umani, ma anche superare un vero e proprio blocco epistemologico: in un gioco come “Jeopardy!” c’è sempre una risposta esatta, bisogna solo individuarla. Nel mondo dell’Oncologia spesso ci sono solo opinioni ragionevoli. Ma sono ancora convinta che Watson possa portarci dove vogliamo arrivare, serve solo più tempo».

Alla University of North Carolina School of Medicine hanno messo alla prova Watson, che si è dimostrato in grado di effettuare le stesse scelte terapeutiche degli oncologi umani in quasi la totalità dei casi e nel 30% dei casi addirittura di individuare un’opzione terapeutica trascurata dagli specialisti. Come ha fatto? Il segreto di Watson è che è in grado di “leggere” tutta la letteratura scientifica pubblicata, quasi 170.000 paper solo in Oncologia ogni anno.




«Watson è la Precision Medicine all’ennesima potenza», ha commentato su Twitter l’oncologo Vinay Prasad dell’Oregon Health and Science Institute. «Ma non abbiamo ancora argomenti per poter essere certi che la medicina di precisione sia una prospettiva sorretta da prove». Le sue perplessità si riferiscono anche alla percentuale di correlazioni che il sistema dell’IBM è in grado di determinare: il 90% di quelle che riesce a formulare un clinico, a giudicare dai comunicati dell’azienda produttrice. Ma la percentuale è in aumento, osserva Prasad maliziosamente, con il susseguirsi delle comunicazioni dell’agenzia che cura le pubbliche relazioni dell’azienda. «Watson può sollevarci di parte dell’onere del fare diagnosi», ha osservato Matt Kalaycio a margine di un entusiastico articolo uscito sulla rivista Fortune, «permettendoci di trovare più tempo da trascorrere col paziente e supportandoci nel decision-making». «L’evidenza è che il sistema suggerisce terapie solo marginalmente attive», ha replicato Prasad, «che non migliorano la sopravvivenza e aggiungono tossicità». E la conclusione è feroce: «Watson può abbreviare la vita della persona malata, se lo confrontiamo con la migliore terapia di supporto. Watson può comportarsi peggio di un oncologo».

Il dibattito sulle potenzialità di Watson non è affatto un esercizio accademico. L’IBM sta attraversando una crisi finanziaria profonda e l’aggressiva Chief Executive Ginni Rometty, per ritagliarsi un ruolo ancora preminente nel panorama tecnologico mondiale, ha puntato tutto su Watson. Nel 2014 è stata creata una business unit dedicata esclusivamente a Watson, che conta 10.000 addetti. Le stime di crescita sul prodotto parlano di un giro d’affari di 500 milioni di dollari generato nel 2016 che potrebbe toccare i 17 miliardi di dollari nel 2022. Ma molti addetti ai lavori sostengono che ormai Watson sia più un brand che un sistema tecnologico, e che si stia cercando di creare un alone di fascino e “hype” che accenda l’interesse dei vari potenziali clienti su tecnologie che in realtà non sono così rivoluzionarie come affermano di essere.

Riferimenti

1. https://www.youtube.com/watch?v= WFR3lOm_xhE&feature=youtu.be

2. https://www.youtube.com/watch?v=TuxL3yzXxJo&feature=youtu.be

David Frati

MA17R: ricercatori italiani mettono in discussione gli endpoint

Le possibili interpretazioni dei risultati di un trial clinico, specie per quanto riguarda l’efficacia di un farmaco, dipendono anche dalla scelta delle misure di endpoint utilizzate nello studio. È questo il punto di vista di Francesco Perrone dell’Istituto Nazionale per la Cura e lo Studio dei Tumori “Fondazione G. Pascale” di Napoli, Massimo Di Maio dell’AO Ordine Mauriziano Ospedale “Umberto I” di Torino e Lucia Del Mastro dell’IRCCS AOU San Martino – Istituto Nazionale per la Ricerca sul cancro (IST) di Genova, che su JAMA Oncology1 hanno commentato l’esito del trial clinico MA17R: uno studio che aveva l’obiettivo di indagare gli effetti della somministrazione per dieci anni di inibitori dell’aromatasi come trattamento adiuvante del carcinoma della mammella ormono-responsivo, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine (NEJM) e presentati al congresso 2016 dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO)2.

Secondo il team di ricercatori coordinato da Paul E. Goss della Harvard Medical School, direttore della Breast Cancer Research all’MGH Cancer Center del Massachusetts General Hospital, l’analisi dell’endpoint primario di MA17R dimostra che il prolungamento della terapia con letrozolo da cinque a dieci anni (ma fino anche a 15 anni per una discreta proporzione di pazienti nello studio) risulta efficace nel ridurre la probabilità di recidive della malattia in pazienti post-menopausali. Un effetto che, pur non determinando un effettivo aumento della sopravvivenza complessiva, è statisticamente significativo e non associato a una riduzione della qualità della vita.

Tuttavia, suggeriscono Perrone e colleghi, i risultati della ricerca possono essere interpretati diversamente a seconda della definizione di endpoint utilizzata. Infatti, l’endpoint primario dello studio MA17R ‒ la disease free-survival (DFS) – è stato definito non considerando come evento l’eventuale decesso della paziente in assenza di recidiva. Una mancanza rilevante in quanto, come dimostrato da un’analisi post hoc contenuta nell’articolo pubblicato su NEJM, se la morte delle pazienti viene invece presa in considerazione assieme agli altri dati l’analisi di efficacia del farmaco produce un risultato di dimensioni molto più contenute e non più statisticamente significativo.




Come fanno notare gli autori dell’articolo di JAMA Oncology, esistono delle misure di esito standardizzate e condivise dalla comunità scientifica per la valutazione dei trattamenti adiuvanti per il carcinoma della mammella, definite dal cosiddetto “sistema STEEP”3. Tra queste, nessuna esclude la morte dall’elenco dei fattori che devono essere presi in considerazione nella valutazione dell’efficacia di un farmaco oncologico. Se ne può dedurre, quindi, che secondo i criteri STEEP la misura di esito utilizzata nello studio MA17R non è idonea a determinare gli effetti della somministrazione prolungata di inibitori dell’aromatasi sull’incidenza di carcinoma della mammella ormono-responsivo. Particolarmente rilevante risulta essere l’esclusione dall’analisi di tutte le morti non associate alla patologia neoplastica oggetto di studio, per il fatto che tale evento è tutt’altro che raro per la classe di pazienti a cui il farmaco è destinato, nella maggior parte donne anziane.




In linea di principio, i risultati di un trial clinico andrebbero sempre interpretati sulla base dell’endpoint primario e reinterpretarli alla luce di un endpoint alternativo è, sottolineano Perrone e colleghi, metodologicamente e concettualmente sbagliato. Proprio per questo motivo in Inghilterra è nato il gruppo COMPare, costituito da accademici e studenti del Centre for Evidence-Based Medicine (CEBM) della Oxford University impegnati a individuare, tra gli studi pubblicati, quelli in cui la scelta dell’endpoint finale è diversa da quella indicata nei protocolli originali. Da una loro indagine, per esempio, è emerso che dei 67 studi presi in analisi solo 9 potevano essere considerati perfetti, mentre i restanti erano caratterizzati da più di 700 modifiche, tra misure di outcome omesse e nuovi parametri aggiunti in corso d’opera. Appare quindi probabile che lo switching o l’aggiunta di endpoint durante le fasi di sperimentazione di un farmaco oncologico siano strategie utilizzate di frequente dai ricercatori per favorire un’interpretazione positiva dei risultati. Pur tuttavia, MA17R rappresenta un’eccezione in cui una definizione criticabile dell’endpoint primario lo rende nei fatti causa di una interpretazione sbagliata e in cui è necessario, con buon senso, guardare al risultato di un’analisi secondaria dello studio. Un fenomeno, questo, che deve essere considerato da clinici e policy-maker nel momento in cui vengono prese decisioni che coinvolgono l’utilizzo di tali farmaci.

Bibliografia

1. Perrone F, Di Maio M, Del Mastro L. A Case Where switching the end points for clinical trial interpretation might be the right choice. JAMA Oncol 2016 Nov 10. doi: 10.1001/jamaoncol.2016.4896.

2. Goss PE, Ingle JN, Pritchard KI, et al. Extending aromatase-inhibitor adjuvant therapy to 10 years. N Engl J Med 2016; 375: 209-19.

3. Hudis CA, Barlow WE, Costantino JP, et al. Proposal for standardized definitions for efficacy end points in adjuvant breast cancer trials: the STEEP System. J Clin Oncol 2007; 25: 2127-32.

Fabio Ambrosino