Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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4words - Le parole dell’innovazione in sanità

Da gennaio 2016 Recenti Progressi in Medicina si è arricchito del supplemento Forward, nato dalla collaborazione tra Il Pensiero Scientifico Editore e il Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio. A distanza di un anno si è svolta a Roma la prima riunione annuale di Forward per ripercorrere il tragitto compiuto, sintetizzabile nelle quattro parole: precision medicine, valore/valori, empowerment/engagement, big data.

In questa sezione “Dalla letteratura” diamo un rapido resoconto degli interventi degli otto relatori di grande competenza, italiani, inglesi e statunitensi, che da punti di vista diversi hanno approfondito il significato e la complessità di queste parole per tenere aperto il confronto e sollecitare la discussione sulla sanità che sta cambiando. www.forward.recentiprogressi.it




Roberto F. Labianca: medicina di precisione – sì, ma con cautela

«Quando parliamo di medicina di precisione, diciamo qualcosa di ovvio. Chi parlerebbe mai di medicina approssimativa o di chirurgia maldestra? Tutti noi vogliamo una medicina precisa, che vada verso un obiettivo nell’interesse del paziente». È iniziato con queste parole il primo intervento del convegno “4words. Le parole dell’innovazione in sanità” nell’ambito della medicina di precisione, tenuto da Roberto F. Labianca, direttore del Dipartimento interaziendale oncologico della Provincia di Bergamo. Ma che cos’è la medicina di precisione? Dove si applica? Quali sono i risultati? Quali sono le aree di ricerca? E qual è la fattibilità, la trasferibilità, la sostenibilità di questo approccio?

Per rispondere a queste domande, Labianca è partito da una serie di definizioni del termine medicina di precisione. «Mi piace molto quella dei NIH (National Institutes of Health), che parla di un approccio emergente, in fase di sviluppo, che tiene conto degli elementi di variabilità a livello genetico, ambientale e degli stili di vita. Un punto di vista opposto rispetto al concetto per cui “tutto va bene per tutti”, che è quello su cui si sono sviluppate la medicina e l’oncologia. Si era giunti all’idea, tuttora valida, che per ottenere un risultato bisognava fare dei trial clinici su larga scala, in grado di far emergere le differenze, mentre oggi l’obiettivo è quello di individuare la terapia migliore per il singolo paziente». Un approccio che attualmente si basa soprattutto sulla farmacogenomica, lo studio delle caratteristiche genetiche in grado di influenzare la risposta di un paziente a farmaci specifici, e sulla possibilità di integrare questi aspetti nell’individuazione del trattamento migliore per il paziente. «Per quanto seduttiva», ha sottolineato Labianca, «questa è una strategia che bisogna saper governare. Parliamo di aspetti per cui negli ultimi anni si sono prese posizioni importanti a un livello politico planetario, quello della presidenza degli Stati Uniti d’America. È un concetto che è uscito dai laboratori e dalle corsie ed è arrivato ai massimi livelli decisionali del nostro pianeta».




Labianca ha poi presentato una serie di esempi relativi al carcinoma della mammella e ai tumori del colon retto. «Una presentazione fatta dal collega Giuseppe Curigliano dell’IEO (Istituto Europeo di Oncologia) rende l’idea di come il tumore della mammella diventerà una malattia rara. All’interno di questa patologia ci saranno molte variabili che guideranno trattamenti mirati per gruppi sempre più piccoli di pazienti. Oggi invece ci basiamo essenzialmente sui recettori ormonali e sulla determinazione dell’HER2». Una tendenza questa che ha già determinato un’accelerazione dei meccanismi di approvazione dei farmaci, basati su casistiche sempre più ridotte (fase 1 e fase 2). «La rapidità di approvazione è un valore perché ci permette di ampliare le opzioni terapeutiche. Ma bisogna chiedersi: gli effetti si manterranno nel tempo? Questo risultato verrà poi confermato? Non sarebbero necessari degli studi confermatori su casistiche più ampie (fase 3 e altro)? Sono domande che penso possano essere oggetto di discussione».

Labianca è poi passato a parlare in modo specifico del tumore del colon. «Dal punto di vista dell’oncologia di precisione questo tumore viaggia più lentamente rispetto ad altre neoplasie. Ma accanto al medico, e prima del medico, c’è il paziente, che può essere a conoscenza della possibilità di individuare eventuali alterazioni genetiche in grado di guidare il trattamento». Labianca ha quindi descritto il caso di un paziente operato in modo radicale che, di fronte a un innalzamento del CEA, decide di fare una biopsia liquida in un laboratorio privato dalla quale emergono due alterazioni: espressione del C-MYC ed espressione dell’ERBB2. «Cosa dovrebbe fare un oncologo che si trova di fronte un paziente consapevole dei rischi a cui è esposto e della possibilità di aggredire un’eventuale recidiva con una terapia mirata? La risposta, nella pratica clinica, non c’è. Tuttavia, mentre noi ragioniamo il paziente è lì con il suo problema e pone a noi delle domande».




Labianca ha quindi sottolineato che, per quanto riguarda il tumore del colon retto, questo approccio si trova ancora in una fase di ricerca clinica. «Ci stiamo muovendo verso metodiche nuove. Ad esempio i cosiddetti studi basket, dove si parte da una mutazione e si studia un farmaco per i tumori che presentano una certa quota di pazienti con quella mutazione. Si passa dal concetto di terapia di uno specifico tumore a quello di terapia del paziente con una certa mutazione, un concetto nuovo». L’oncologo è poi passato a descrivere i cosiddetti umbrella trial, dove si vanno a studiare molteplici farmaci per un singolo tumore con un tipo di mutazione, e gli adaptive trial, nei quali l’interazione tra il target e la patologia di base si modifica nel corso del tempo. «Oggi anche il clinico deve conoscere questo tipo di definizioni perché gli studi a cui potrebbe partecipare sono più complessi di quelli tradizionali».

Descrivendo la situazione negli altri paesi, Labianca ha quindi parlato di quelle istituzioni, come la Mayo Clinic, che promuovono l’approccio della medicina di precisione. «Devo dire che tanto più un’istituzione è spostata dal pubblico al privato tanto più questo approccio viene offerto, spesso per attirare i pazienti. Anche nella mia regione ci sono esempi che vanno guardati con attenzione». Invece, soffermandosi sull’atteggiamento degli oncologi nei confronti della medicina di precisione: «Devo dire, facendo un po’ di autocritica, che anche noi siamo un po’ troppo entusiasti riguardo a questi aspetti. Io sono molto d’accordo, in linea globale, con quello che fa l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), attivissima in questi anni. Alcune volte però la comunicazione rivolta al paziente mi sembra un po’ troppo entusiasta. Capisco che si debba usare un linguaggio di stimolazione e di incoraggiamento, ma il paragone tra oncologia di precisione e gran premio di motociclismo mi sembra inadeguato. Penso, ed è una cosa che dico dall’interno, che bisogna essere cauti, anche nelle terminologie che si usano. E la stessa cosa vale anche per la nostra società europea, l’ESMO (European Society for Medical Oncology). È vero che negli ultimi anni abbiamo assistito a dei grandi cambiamenti, vediamo vivere pazienti che una volta morivano, dopo anni, potenzialmente guariti. Tuttavia, un po’ di cautela è assolutamente doverosa».




Labianca ha quindi ricordato il lancio della Precision Medicine Initiative dell’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama: «Mi piace molto il suo modo di esprimersi, un modo visionario. Anche se tutti sappiamo quante belle cose abbia detto e quante sia poi riuscito a realizzare. Ma in poche righe si parla delle malattie sociali più importanti, cancro e diabete, e di una comunità a cui tutti possiamo accedere. C’è una visione davvero molto alta». E in seguito, riferendosi al nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump: «Cosa sarà del futuro? Non lo so. Spero che Trump abbia delle giuste illuminazioni. Ognuno ha il suo punto di vista, ma bisogna rendersi conto che queste cose arrivano ai livelli decisionali più alti». Citando William Osler, Labianca ha infine concluso sostenendo che in medicina la variabilità e l’individualizzazione sono molto importanti. «Non è solo questione di scienza ma di arte medica, di rapporto medico-paziente. Si tratta di guardare al paziente come a un’entità a sé. E non solo per quanto riguarda le mutazioni, ma da un punto di vista globale. Credo sia l’impegno di tutti noi medici».

Fabio Ambrosino

Vinay Prasad: l’illusione della precisione

La Medicina di precisione in generale e l’Oncologia di precisione in particolare rappresentano forse soltanto una magnifica illusione. Per sostenere la sua tesi “forte” e abbastanza controcorrente – dopo averla già esposta in un editoriale pubblicato recentemente dalla rivista Nature1 – Vinay Prasad, ematologo al Knight Cancer Institute e professore all’Oregon Health and Sciences University, parte da una serie di domande che pone all’uditorio, ma innanzitutto a se stesso. Che cos’è l’Oncologia di precisione? Cosa significa questa espressione? Quali sono gli equivoci e gli errori che si sono sedimentati attorno a questo concetto? Perché non ha funzionato? Perché non funzionerà? In che modo va analizzata, nella speranza che ci sia comunque qualcosa da salvare in questo approccio terapeutico? E perché non è stata analizzata nel modo corretto, finora?

Sin dall’alba dei tempi i medici quando prescrivono una terapia a una persona si informano su quella persona, esiste da sempre una personalizzazione delle cure, almeno come obiettivo, come approccio filosofico, suggerisce Prasad, quindi in realtà il concetto di Medicina di precisione non è affatto nuovo: «È l’Oncologia di precisione a essere una novità, qualcosa a cui circa vent’anni fa non avremmo nemmeno pensato. Tutto è partito con un paper pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 20012: fino a quel momento le terapie oncologiche erano terapie citotossiche, qui per la prima volta si presentava un’opzione terapeutica che aveva come target una specifica mutazione di uno specifico tumore. Per molti questa è stata l’alba di una nuova era, quella di una Oncologia di precisione, appunto. Ma a ben vedere la differenza con l’era precedente per molti aspetti non è così marcata: invece che attaccare la replicazione del DNA si attacca una singola mutazione, ma in fondo viene sempre usato lo stesso farmaco per tutti i pazienti con quella condizione. Qualche anno dopo i concetti di Medicina e Oncologia di precisione hanno cominciato a essere affinati. L’approccio che è gradualmente emerso è quello di una terapia oncologica guidata dai biomarker, di una caccia alla mutazione: se il paziente ha quella specifica mutazione allora lo tratteremo con il farmaco adatto. Ma è ancora un approccio non così diverso dalla Medicina tradizionale, viene fatto lo stesso da molto tempo in Cardiologia, per esempio: la differenza è che la specificità di un paziente eleggibile al trattamento viene verificata con un ecocardiogramma e non con un’analisi molecolare, ma tutto qui».




Come definire insomma l’Oncologia di precisione? Interessante notare come la definizione cambia con il tempo: prendendo in esame cinquanta articoli scientifici che si sono occupati dell’argomento in tre distinti momenti (2005-2010, 2013 e 2016), si osserva come nella prima fase l’espressione “Oncologia di precisione” venisse utilizzata in sostanza come un sinonimo di Target therapy, mentre nel 2013 la maggior parte la intendeva come “utilizzo dei biomarker per delineare sottogruppi di pazienti” e infine nel 2016 la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori intende per Oncologia di precisione l’utilizzo di next generation sequencing del genoma per identificare mutazioni che siano potenziali target terapeutici. «Forse la vera ragione per cui il dibattito sull’Oncologia di precisione è così vivo è che non sappiamo con precisione di cosa stiamo parlando».

Definizioni e dibattiti a parte, questo approccio terapeutico sta funzionando? Spiega Prasad: «È un concetto seducente, ma come tutte le idee seducenti e persino entusiasmanti in Medicina, dobbiamo stare molto attenti a distinguere le evidenze a supporto di una tesi dal nostro desiderio che questa tesi sia confermata. Tra tutti i pazienti oncologici, solo il 6% riceve davvero una terapia personalizzata, cioè viene abbinato a un farmaco mirato alla sua condizione molecolare”.
E con quali risultati? «Se analizziamo il guadagno in progression free survival (PFS) e overall survival (OS) ottenuto tra 2002 e 2014 con l’impiego dei 71 farmaci approvati dalla FDA per il trattamento di tumori solidi refrattari, avanzati o metastatici vediamo che è di poco superiore ai due mesi. E se valutiamo l’impiego off label degli stessi farmaci il dato è ancora più basso: come definire questi risultati se non con il termine fallimento?». Eppure la percezione tra gli addetti ai lavori e nel pubblico è molto diversa. Dipende dalla metodologia con cui vengono analizzati i risultati delle diverse opzioni terapeutiche, secondo l’ematologo statunitense: «Come dovremmo giudicare i farmaci dell’Oncologia di precisione? Come abbiamo giudicato i farmaci per decenni: randomizzando i pazienti a un percorso di Oncologia di precisione o a un percorso terapeutico tradizionale, seguendoli con un follow-up e verificando gli outcome clinici e la sopravvivenza nel tempo, tutto qua. È il disegno del recente trial SHIVA, per esempio, un trial che infatti si è rivelato negativo».

David Frati

Bibliografia

1. Prasad V. Perspective: the precision-oncology illusion. Nature 2016; 537: S63. doi:10.1038/537S63a.

2. Druker BJ, Talpaz M, Resta DJ, et al. Efficacy and safety of a specific inhibitor of the BCR-ABL tyrosine kinase in chronic myeloid leukemia. N Engl J Med 2001; 344: 1031-7.

Iona Heath: misurare il valore tra etica ed economia

Dopo una rapida riflessione sulle sottili differenze riscontrabili nell’accezione del termine “valore” a seconda della prospettiva da cui lo si considera, Iona Heath, medico di medicina generale di lunga esperienza che ha presieduto il Comitato Etico di The BMJ, punta senza indugio il dito sulla preminenza del valore economico nel contesto dell’attuale “rampante capitalismo neoliberale”: «Il denaro, usato in passato come mezzo di scambio, sembra avere soppiantato più fondamentali valori. La venerazione per il successo economico sembra minare ogni tipo di impegno verso principi morali». I dati dell’ultimo Rapporto Oxfam, che cita, lo confermano: il valore economico degli otto uomini più ricchi del pianeta risulta uguale a quello della metà più povera della popolazione globale (3,6 miliardi di persone).




Per definire meglio l’oggetto della sua riflessione, Iona Heath pone tre quesiti:

1. qual è il valore di una vita umana?

2. Come si può misurare il valore?

3. Qual è il fine della medicina e dell’assistenza sanitaria?

Al primo, imprescindibile quando ci si accinge ad affrontare una discussione sui valori nell’ambito dell’assistenza sanitaria, Heath prova a dare risposta con le parole del grande scrittore John Berger, morto all’età di 90 anni all’inizio di quest’anno: «Non pretendo di sapere qual è il valore di una vita umana. Al quesito non si può rispondere con parole ma solo con l’azione, creando una società più umana»1.

Per rispondere al secondo quesito, Heath cita invece il premio Nobel Amartya Sen che nel suo libro The idea of justice scrive: «La tradizione utilitaristica, che opera per portare ogni cosa valutabile a una qualche dimensione presumibilmente omogenea di “utilità”, ha contribuito molto a formare questo senso di sicurezza nel “contare” esattamente una cosa (“qui ce n’è di più o di meno”). Tuttavia, ogni serio problema in materia di giudizio sociale difficilmente può evitare di considerare la pluralità dei valori»2.

Complessa è poi la questione dei fini della medicina e dell’assistenza sanitaria: gli scopi sono molteplici e richiedono mezzi profondamente diversi, rischiando di entrare in conflitto tra loro; quelli che Heath elenca sono:

questioni che riguardano i singoli, come alleviare la sofferenza, assistere i malati e i moribondi, curare le malattie;

problematiche che richiedono interventi a livello di popolazione, come prevenire le malattie, aumentare la longevità, crescere una forza lavoro produttiva e in salute;

la vendita di farmaci e i profitti dell’industria.

«Ma» si chiede Heath «qual è la gerarchia? Chi decide? Di chi sono i valori che dominano la discussione? Al momento la preminenza dei valori economici sembra conferire all’ultimo punto maggiore priorità di quella che meriterebbe se altri valori fossero considerati alla stessa stregua, se non come più importanti». Un’affermazione, questa, che Heath suffraga con due grafici: il primo riporta le stime delle vendite farmaceutiche dello scorso anno in miliardi di dollari; il secondo mostra invece la vendita di farmaci prescritti che, si prevede, sarà quasi raddoppiata in 14 anni, raggiungendo i mille miliardi di dollari entro il 2020, con una crescita media del 5,1% all’anno dal 2013 al 2020. Inquietante, secondo Heath, è che «questi profitti dipendono interamente dal fatto che tutti noi veniamo convinti ad assumere un numero enorme e rapidamente crescente di farmaci».




Come se non bastasse, riflette la relatrice, lo stupore che proviamo di fronte alle straordinarie prestazioni delle nostre innovazioni tecnologiche è tale che rischiamo di non vedere i danni che possono causare. «Siamo dei giganti della tecnologia ma siamo dei moscerini dal punto di vista etico. La nostra capacità tecnologica ha il sopravvento sui nostri valori morali. Ogni volta che prescriviamo un esame diagnostico e troviamo una qualche anomalia che non avrebbe comunque causato al paziente alcun danno, gettiamo un’ombra di paura su almeno una vita». Con queste considerazioni Heath ci pone di fronte ai problemi posti dalla prioritizzazione della prevenzione che «esprime i valori, basati sulla popolazione, di politici e decisori, ma che senza dubbio causa danni a livello del singolo». A questo proposito Heath cita l’interessante articolo di Dave Sackett sulle caratteristiche della medicina preventiva, giudicata arrogante perché «è aggressivamente assertiva, insegue i soggetti senza sintomi dicendo loro cosa devono fare per rimanere in buona salute; è presuntuosa, sicura che gli interventi che adotta porteranno, in media, più vantaggi che danni a coloro che li accetteranno e vi aderiranno; è autoritaria e attacca quanti mettono in discussione il valore delle sue raccomandazioni»3. Oltre a ciò, Heath invita a considerare il senso di minaccia alla salute e l’accresciuto livello di ansietà e paura che generano nelle persone gli interventi che la medicina preventiva invita a effettuare. E «la paura non può essere rimossa».

Governi e media, opinione pubblica e alcuni medici, nonché le industrie farmaceutiche e di tecnologia sanitaria abbracciano con entusiasmo le promesse della medicina preventiva, ma in questo modo, secondo Heath, «cerchiamo di applicare soluzioni biotecniche all’antico problema esistenziale di dare un significato all’inevitabilità dell’umano dolore, alla perdita, alla morte, permettendo ai valori tecnico-scientifici di sostituire quelli umani».

Nel corso della sua vita professionale come medico di medicina generale, Iona Heath ha potuto constatare con preoccupazione il crescente predominio dei valori economici e utilitaristici della prevenzione sull’assistenza sanitaria e come questi alterino il lavoro clinico e le priorità del sistema sanitario, «minati alla base da fattori che si rafforzano reciprocamente, ossia: la corruzione e lo stravolgimento della scienza biomedica per ottenere benefici finanziari o di carriera; la persistente metafora che paragona il corpo umano a una macchina; la supremazia della scienza preventiva su quella terapeutica; l’assenza della persona che soffre».

Soprattutto, fa notare Heath, sono le ferite della persona che soffre quelle che non compaiono nelle linee-guida o nei sistemi di valutazione della qualità, pur essendo assolutamente fondamentali per il lavoro clinico. Se, con le parole di Arthur Kleinman4, Heath ci ricorda che «fornire assistenza è uno dei significati morali fondamentali e una delle pratiche dell’esperienza umana in ogni luogo: definisce il valore umano e si oppone alla mera riduzione al calcolo e al costo», avverte anche che ciò non accade laddove sono gli imperativi utilitaristici a governare sia la sanità pubblica sia la ricerca biomedica. E quando non è in grado di stabilire il valore della persona che soffre, l’assistenza sanitaria produce risposte generate da algoritmi, ridotte a formule da applicare in maniera indifferenziata5.

L’ultimo punto cruciale che Heath affronta nella sua relazione è come consideriamo i valori della pratica in relazione ai valori della teoria. A partire dalle parole di Toulmin6, che afferma che tutti i protagonisti della filosofia moderna hanno promosso la teoria svalutando la pratica, Heath fa notare che anche nell’assistenza sanitaria contemporanea «la teoria batte la pratica e l’evidenza derivata dalla scienza biomedica è usata per guidare la pratica». Quando ciò avviene ci ritroviamo in situazioni in cui «l’EbM viene usata per indirizzare la clinica»7. Questo modo di agire, oltre a spostare il fulcro dell’assistenza sanitaria dal singolo paziente al sottogruppo di popolazione, comporta anche il rischio di trasferire i fini ai mezzi, mentre «la vera sfida è occuparsi della malattia e di come essa frammenti, disarticoli e renda incerte la condotta e la dignità delle vite umane»8.

Nella consapevolezza che non ci sono risposte facili, Heath ritiene necessario far in modo che i valori dell’assistenza sanitaria seguano il «circolo che va dalla pratica alla teoria e poi di nuovo alla pratica, anziché viceversa», cercando al contempo di liberarli da quella che, adottando un’espressione di Rebecca Solnit9, Heath chiama “tirannia del quantificabile”.

Silvana Guida

Bibliografia

1. Berger J, Mohr J. A fortunate man. The story of a country doctor. London: Penguin Press, 1967.

2. Sen A. The idea of justice. London: Penguin Books, 2009 (Trad. it.: L’idea di giustizia. Milano: Mondadori, 2010).

3. Sackett DL. The arrogance of preventive medicine. CMAJ 2002; 16: 363-4.

4. Kleinman A. Caregiving as moral experience. Lancet 2012; 380: 1550-1.

5. Holmes J. The therapeutic imagination. Using literature to deepen psychodynamic understanding and enhance empathy. New York, NY: Routledge, 2014.

6. Toulmin S. Cosmopolis: the hidden agenda of modernity. Chicago: University of Chicago Press, 1990.

7. Greenhalgh T, Howick J, Maskrey N. Evidence based medicine: a movement in crisis? BMJ 2014; 348: g3725.

8. Hargraves I, Kunneman M, Brito JP, Montori VM. Caring with evidence based medicine. BMJ 2016; 353: i3530.

9. Solnit R. Woolf’s darkness: embracing the inexplicable. The New Yorker, April 24, 2014.

Elena Granaglia: il valore in una prospettiva di finanza pubblica

Uno sguardo esterno al mondo della medicina è quello di Elena Granaglia, docente di Scienza delle Finanze all’Università di Roma Tre, che affronta il tema valore/valori in una prospettiva di finanza pubblica, per aiutarci a capire quali valori ci possono guidare nella gestione delle risorse del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

La docente prende spunto dal numero di Forward sul tema, per alcune prime, brevi osservazioni sui due valori a cui la rivista ha dedicato spazio: l’importanza degli esiti in termini di salute e il punto di vista del paziente. Sembrerebbero due valori piuttosto ovvi, in realtà Granaglia ne denuncia la quotidiana violazione affermando che è sulla base degli input (i mezzi per produrre salute, le retribuzioni dei lavoratori) che in realtà si misura il valore dell’SSN. E aggiunge: «Se andiamo a vedere alcune delle riforme che vengono proposte per l’SSN, non c’è praticamente quasi mai un riferimento a “più salute”, ma l’attenzione è rivolta essenzialmente alla minimizzazione dei costi». Infatti, «ancora oggi, l’ultima legge di stabilità ha aumentato il peso del sostegno fiscale che viene dato al welfare occupazionale» e viene messa in atto «una politica di sostegno a una spesa che va ad aiutare l’acquisto di fondi sanitari … ma non abbiamo alcun riferimento al valore che questi producono, anzi probabilmente dalla contrattazione aziendale non verrà fuori granché per il miglioramento della salute».

Ma c’è un terzo valore che, secondo Granaglia, andrebbe maggiormente sottolineato, ed è il valore dell’equità.

Per spiegare l’importanza di questo valore la docente si sofferma brevemente sul concetto di sanità come diritto: la salute è un diritto sancito dalla nostra Costituzione, ma i diritti vanno specificati rispetto allo spazio che possono avere, in particolare i diritti a prestazioni positive, come sono i diritti sociali, e tra questi i diritti sanitari, soprattutto a fronte di una situazione di “scarsità limitata”. Ecco perché, dice Granaglia, ci occupiamo di giustizia e di equità. «… non a caso vediamo come, nei momenti di crisi economica, diventa più difficile ragionare in termini di giustizia. La giustizia nasce quando ci sono circostanze limitate di scarsità». La difficoltà, ragiona Granaglia, nasce nel momento in cui dobbiamo specificare a quali prestazioni in particolare abbiamo tutti diritto: infatti, essendo le risorse limitate, ci troviamo di fronte alla necessità di dover scegliere.

Come uscire da questa tensione? «Il modo è essenzialmente quello di fare leva sulla nostra fondamentale uguaglianza morale», individuando i diritti che possiamo specificare attraverso una procedura di scelta che faccia del rispetto della comune uguaglianza morale esattamente il criterio cardine. Questo è quello che fa l’equità, quanto meno nelle prospettive contemporanee dell’equità».

A questo punto la relatrice propone un interessante excursus sull’evoluzione del concetto di equità: dal lavoro seminale di Rawls del 1971, in cui l’equità era essenzialmente imparzialità, a Dworkin che indica nel rispetto della comune uguaglianza morale il criterio utile a specificare i diritti, a Nagel per il quale «l’equità è il linguaggio della prima persona plurale, anziché il linguaggio della prima persona singolare», senza dimenticare, in Italia, Salvatore Veca, che vede nell’equità il rispetto del punto di vista dell’individuo “chiunque” o, nella filosofia politica più antica, Guido Calogero secondo cui la giustizia doveva prendere il punto di vista della terza persona. Comunque, per tutti costoro, ci tiene a ribadire Granaglia, «il riferimento è sempre qualcun altro, confermando una tendenza a dover giustificare verso gli altri le pretese che noi portiamo nella sfera pubblica».







Individuare scelte consensuali basate su processi equitativi certamente pone molti problemi, tra cui soprattutto quello del “cosa” garantire. Granaglia a questo proposito riporta il pensiero di Amartya Sen, secondo il quale non ha senso discutere per trovare un’idea perfetta di giustizia, ma si deve cercare di andare a contrastare le disuguaglianze più evidenti. Anche nelle soluzioni parziali, tuttavia, bisogna identificare il punto forte: «Ciò a cui dobbiamo arrivare come consenso non è un’idea di interesse pubblico, come aggregazione di meri interessi, compromessi tra posizioni diverse; ma un nucleo di soluzioni accettabili per tutti, in quanto riflettono un’idea condivisa di ciò che è desiderabile perseguire. L’equità, anche in questa prospettiva più parziale, non si accontenta della manifestazione del volere del singolo, facendo dell’interesse pubblico solo la maggioranza degli “io” che avanzano la loro richiesta. Questa non è equità, perché in questo caso è solo il più forte che vince». L’equità richiede inoltre che le preferenze avanzate vengano argomentate sulla base di giustificazioni accettabili da tutti.

Adottare questo percorso può servire a selezionare alcuni ambiti cui dare la priorità nel contesto sanitario.

Granaglia porta qui l’esempio delle aspettative di vita: garantire uguali aspettative di vita a tutti è estremamente difficile (basti pensare a quanto riportato da Sir Michael Marmot nel suo libro, “La salute disuguale” riguardo alla situazione di inaccettabile disuguaglianza presente a Glasgow), ma «… anche se poi non siamo d’accordo sull’obiettivo finale, esserlo almeno sull’ingiustizia, sull’iniquità di una differenziazione così forte nelle attese di vita sembra un ambito di consenso parziale che può essere raggiunto». Allo stesso tempo, per garantire esattamente le stesse aspettative di vita per tutti potremmo paradossalmente giungere a un peggioramento per alcuni, «in particolare per le donne, dal momento che per loro le attese di vita sono superiori a quelle degli uomini. E quindi, se ci mettiamo nella prospettiva equitativa, arrivare ad acconsentire a una declinazione del principio dell’uguaglianza nelle attese di vita che implichi una riduzione di questo fattore per una parte della popolazione sarebbe sicuramente inaccettabile: un’argomentazione di questo tipo non può reggere all’interno di una procedura di dialogo equitativo».

Spostando l’attenzione dallo spazio della salute a quello dei servizi sanitari, Granaglia porta esempi in altri ambiti quali il costo dei farmaci, il welfare occupazionale, le scelte in materia di finanziamento a sostegno della spesa farmaceutica, dimostrando che adottando una prospettiva equitativa si potrebbero trovare solide argomentazioni, ad esempio, per resistere a un’estensione del finanziamento nell’area dei farmaci antitumorali e destinare risorse ad altri settori del welfare, o per mettere in discussione le agevolazioni fiscali al welfare occupazionale, o per ridiscutere alcuni forti vincoli di bilancio.

Il punto tuttavia sul quale Granaglia tiene a soffermarsi, in particolare in materia di costo dei farmaci, è che «pur muovendoci in una prospettiva equitativa, non necessariamente le considerazioni aggregative, utilitaristiche sono da abbandonare. Infatti, quando pensiamo a come allocare le nostre risorse, un criterio potrebbe essere quello di decidere, in modo imparziale, di finanziare i farmaci, i trattamenti, le prestazioni che contribuiscono in qualche maniera a realizzare il maggior benessere e quindi il maggior numero di anni di buona vita, e quindi di vita con poca o nulla disabilità». La sua posizione è che «in questo modo i principi generali, astratti, aggregativi, al limite anche utilitaristi, possono avere uno spazio all’interno della discussione pubblica. Il punto di fondo è che se ci si pone in una prospettiva equitativa possiamo sostenere anche una posizione di razionamento dei farmaci».

La sua conclusione è che adottando un approccio equitativo e giustificando le nostre posizioni sulla base di argomentazioni formulate in termini che siano accettabili per altri, pur non arrivando a un consenso generale su tutto, alcune scelte potrebbero essere meglio suffragate.

Silvana Guida

Bibliografia di riferimento

Calogero G (1939). La scuola dell’uomo. Parma: Diabasis, 2005.

Dworkin R. Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza. Milano: Feltrinelli, 2002.

Marmot M. La salute disuguale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2016.

Nagel T. La possibilità dell’altruismo. Bologna: Il Mulino, 1994.

Rawls J. Una teoria della giustizia. Milano: Feltrinelli, 2008.

Sen AK. La diseguaglianza. Bologna: Il Mulino, 2010.

Veca S. La riforma del Welfare e un’idea di equità. Iride: Filosofia e Discussione Pubblica 1997; 10: 5-18.

Sally Crowe: l’empowerment senza confini

È utile parlare dei due concetti di empowerment ed engagement come di un continuum, esordisce Sally Crowe, che da molti anni lavora nel Regno Unito come facilitatrice del coinvolgimento del paziente e dei cittadini nella ricerca ed è membro del patient panel di The BMJ. Aumentando progressivamente l’influenza dei pazienti e dei cittadini si passa dalla consapevolezza all’engagement, al coinvolgimento, fino ad arrivare all’empowerment. Questo continuum della salute è inquadrabile in tre livelli che corrispondono a differenti setting e contesti: quello individuale, quello dei sistemi e quello di società.

Crowe sottolinea che esistono molti modi per coinvolgere il paziente nel sistema sanitario, ma preliminarmente bisogna fare alcune riflessioni chiave. Innanzitutto è necessario essere aperti ai cambiamenti e alle idee nuove. Se manca questa volontà, è inutile interpellare le persone chiedendo idee e soluzioni. Bisogna poi avere un’idea della direzione da prendere, essere flessibili, identificare le risorse, finanziare il lavoro. Bisogna conoscere la rete in cui ci si muove e sapere dove si trovano i pazienti e i cittadini all’interno di questa rete.

Il coinvolgimento del paziente, tuttavia, non è accettato universalmente e alcuni ostacoli a questo processo ricorrono spesso nei discorsi di chi si occupa di sanità:

il coinvolgimento richiede più lavoro ed è più costoso;

non sempre è possibile raggiungere il paziente giusto, non tutti sono raggiungibili;

nulla assicura che i pazienti raggiunti siano rappresentativi e che le loro opinioni siano quindi valide;

i pazienti spesso si limitano a lamentarsi ma non conoscono a sufficienza i temi di cui si tratta;

il coinvolgimento dei pazienti può essere dirompente per chi opera in sanità; perché cambiare se il sistema già funziona?

In alcuni casi queste obiezioni nascono da questioni culturali ma anche da una conoscenza limitata e dalla poca esperienza rispetto ai metodi del coinvolgimento o, ancora, da un bisogno di evidenze rispetto ai miglioramenti che deriverebbero da un maggiore coinvolgimento.

Crowe considera imprescindibile il superamento di queste barriere. Il coinvolgimento dei pazienti può migliorare le cose, bisogna approfondire e trovare gli strumenti per coinvolgere in modo efficace i pazienti, oltre il loro ruolo di cittadini e oggetti di ricerca. Bisogna sottolineare le ragioni del coinvolgimento, mettendo a frutto i successi e imparando da errori e fallimenti.




Raramente le visioni e le priorità dei vari attori della sanità vengono confrontate. Spesso si agisce in isolamento. Ma le differenze in realtà sono vitali, devono essere sottese al nostro processo decisionale e in questo senso il punto di vista dei pazienti e dei cittadini è vitale.

In uno studio del 2000 pubblicato su The Lancet1, ricorda Crowe, era stato chiesto ai pazienti di identificare gli interventi farmacologici e le terapie preferite. Confrontando i dati con le priorità della ricerca (la distribuzione dei trial tra le varie opzioni), è emersa una netta discrasia tra le opinioni dei pazienti e l’agenda della ricerca (la stragrande maggioranza dei trial registrati si basa sui farmaci). Se questa discrasia viene ignorata, anche l’evidence-based medicine non può essere considerata rappresentativa dei bisogni di salute delle persone.

La Priority Setting Partnerships, 2003-2012, prosegue Crowe, ha identificato le differenze nelle priorità di ricerca tra pazienti e clinici confrontando cosa era stato finanziato nel Regno Unito in quel periodo (studi commerciali e studi non commerciali) con i progetti di partnership della James Lind Alliance, e le differenze sono evidentissime.

Perché quindi occuparsi di eliminare questo sfasamento coinvolgendo pazienti e cittadini, si chiede Crowe. Fondamentalmente perché il modo in cui si pianifica, si implementa e si costruisce il sistema salute trae beneficio dall’esperienza di chi sperimenta quel sistema. E soltanto una combinazione di ricerca e dialogo può aiutarci a capire. Bisogna superare l’assunto sbagliato che il paziente si adegui sempre in modo razionale e consapevole al percorso che il caregiver gli ha prescritto.

È importante coinvolgere il paziente anche perché il sistema di ricerca sanitaria funziona in base a elementi di potere e gerarchia. «È la gente con prestigio e ricchezza che influenza gli altri» (John Bell, Iona Community, ministro e broadcaster). Nei luoghi dove si prendono le decisioni, ci sono sempre le stesse persone: bianchi di mezza età, maschi, molto istruiti. Ma c’è bisogno di diversità intorno a quel tavolo, di prospettive ed esperienze diverse.

C’è anche una mera ragione di pragmatismo dietro alla necessità del coinvolgimento dei pazienti, suggerisce Crowe. Le risorse a disposizione sono limitate, e non possono essere tutte impiegate per ricerca e sanità, bisogna operare delle scelte su ciò che è importante, aumentare il valore e ridurre lo spreco. E questo obiettivo si raggiunge innanzitutto (come ha evidenziato una serie di paper pubblicata su The Lancet nel 2014) con una ricerca che si occupi di temi di alta rilevanza per gli utenti, identificando gli esiti importanti e facendo una ricognizione di ciò che già si sa in una determinata area attraverso le revisioni sistematiche. I pazienti e i cittadini possono essere coinvolti in tutte le fasi.

Sally Crowe riferisce alcuni esempi di successo nel coinvolgere pazienti e cittadini, alcuni esempi in cui sono state stabilite delle priorità e poi è stato creato il consenso attorno a queste decisioni.

Il primo case study riguarda un programma di esiti standardizzati in nefrologia chiamato SONG condotto in Australia dall’Università di Sidney (per molto anni la Crowe ha lavorato come infermiera coordinatrice in un reparto di nefrologia).

Inizialmente è stata fatta una revisione sistematica per trovare gli outcome. In una seconda fase, con pazienti e caregiver, sono state identificate, classificate e descritte le ragioni degli outcome. Nella terza fase, attraverso una serie di interviste a tutti gli attori (pazienti, caregiver, clinici, policy maker) sono stati evidenziati valori e prospettive. Poi un Delphy survey ha distillato e generato una lista in base alla priorità dei core outcome basati sul consenso. Infine, un consensus workshop ha revisionato e stabilito gli outcome discutendo anche delle strategie di implementazione. È stata ottenuta un’enorme gamma di risultati utili per stabilire qual è il ruolo dei pazienti e come i pazienti considerano gli esiti, con la prospettiva per il futuro di stabilire esiti più utili e rilevanti.

Il secondo caso citato da Crowe è quello delle James Lind Alliance Research Priority Setting Partnerships in cui pazienti, cittadini e ricercatori hanno concordato priorità condivise di ricerca.

Metodologicamente, sono stati raccolti suggerimenti per la ricerca attraverso survey, messi insieme e poi sottoposti a una votazione online per arrivare a una lista breve. Infine, con un consensus workshop si è giunti alle prime 10 priorità condivise.

Nelle partnership sui valori di base i principi chiave erano: rispetto, inclusività, accessibilità della partecipazione, proporzioni uguali di pazienti, cittadini e professionisti della salute, approccio basato sulle evidenze, trasparenza.

Quali sono i vantaggi di questo approccio? Sono state completate 67 partnership in tutta la gamma dei contesti, delle condizioni e dei setting. Molte sono state iniziate dai pazienti. Il processo è ormai parte dell’infrastruttura nazionale di ricerca sulla salute e grazie a esso è stata data la possibilità di avere voce in capitolo e influenza a migliaia di persone

Questo case study comporta un cambiamento di prospettiva. Il metodo è valido ma va ulteriormente validato. Si hanno evidenze che finanziare queste priorità di ricerca primaria e secondaria sia utile, ma il progresso è lento.

Il terzo case study è un lavoro facilitato dalla Crowe sulle priorità che riguardano la violenza domestica e in famiglia in Australia. Si è trattato di uno studio molto stimolante che ha coinvolto questioni pratiche ed etiche (compresa la sicurezza delle donne coinvolte).

Sally Crowe conclude il suo intervento con alcune riflessioni e alcuni insegnamenti a suo avviso emersi da queste esperienze.

È necessario avviare partnership, attivare principi e valori sottesi al lavoro in comune. Creare un processo che tenga conto delle diversità delle persone con cui si lavora. Bisogna conoscere e gestire la politica e il potere che sono coinvolti, senza mai perdere di vista lo scopo di ciò che si fa. Bisogna resistere alle certezze e abbracciare le incertezze, rimanere curiosi, ascoltare e lavorare con chi non la pensa come noi. I risultati positivi si raggiungono soltanto così, conclude Crowe.

Alessio Malta

Bibliografia

1. Tallon D, Chard J, Dieppe P. Relation between agendas of the research community and the research consumer. Lancet 2000; 355: 2037-40.

Mario Melazzini: l’AIFA per l’empowerment del paziente

Mario Melazzini, ematologo e direttore dell’Agenzia Italiana del Farmaco (­AIFA), esordisce sottolineando che l’empowerment è insieme una strategia, un processo di informazione e di comunicazione. È fondam entale fornire al paziente e ai suoi rappresentanti gli strumenti critici per poter contribuire in modo efficace all’evoluzione del processo decisionale. L’AIFA in particolare considera l’empowerment uno strumento fondamentale per consentire al paziente di esercitare i propri diritti, di essere parte attiva del sistema, informato su tutti gli aspetti che possono migliorare le scelte sanitarie.

Melazzini si sofferma quindi sulle iniziative promosse in questa direzione dall’AIFA negli ultimi anni.

Lanciata nel 2012, Open-AIFA mira a istituzionalizzare un momento di ascolto dei vari stakeholder (pazienti e associazioni dei pazienti comprese) e prevede una serie di incontri con mondo accademico, società scientifiche, società di servizi, associazioni di categoria e aziende farmaceutiche per consentire un dialogo diretto e trasparente. Melazzini lo definisce un momento di ascolto fondamentale, indipendentemente dal ruolo occupato nel settore sanitario dai protagonisti, essenziale anche ai fini degli obiettivi di conoscenza. Tutte le parti interessate possono fare richiesta di partecipazione agli incontri che avvengono con cadenza mensile.

Più in generale, l’AIFA, prosegue Melazzini, ha attivato comunicazioni mirate al paziente, campagne informative, siti web. Tutte iniziative volte a rendere più efficiente l’informazione, comprensibile anche da parte del destinatario finale dell’azione dell’agenzia. Tra le altre cita le campagne sulla gravidanza, sull’allattamento, sull’uso degli antimicrobici, sull’utilizzo dei farmaci in età pediatrica.

Sempre nell’ottica dell’empowerment, l’AIFA ha messo a disposizione i suoi algoritmi terapeutici (per l’epatite C, il diabete, l’ipertensione e l’osteoporosi). Strumenti informativi per permettere a chiunque di beneficiare della migliore terapia al momento disponibile fornita dal servizio sanitario nazionale. Gli algoritmi, continua Melazzini, rappresentano per il paziente una garanzia di trasparenza e di indipendenza.

Il Concept Paper costituisce la posizione ufficiale dell’Agenzia. È sempre più necessario che l’ascolto e la ricognizione possano trasformarsi in una potenzialità di azione degli organi che garantiscono riposte all’interno dell’agenzia. A questo scopo è stata avviata una fase di pubblica consultazione di 90 giorni, durante la quale anche i pazienti sono invitati a mandare i loro commenti all’AIFA.

Altre iniziative in questa direzione sono rappresentate dai tavoli di discussione e dagli incontri delle commissioni AIFA (ad esempio per aggiornare i criteri dei farmaci contro l’HCV) e dalla Banca dati sui farmaci AIFA che fornisce informazione trasparente sui farmaci disponibili.

In tema di farmacovigilanza, il ruolo attivo del paziente è reso possibile anche dalla nuova legislazione europea sulla farmacovigilanza in cui il paziente è al centro rispetto alla trasparenza, all’informazione, al reporting e al percorso di scelta dei farmaci. Un ruolo chiave in un settore che riguarda direttamente il funzionamento dei farmaci e il bilancio rischio-beneficio.

Melazzini cita un libro uscito alcuni anni fa, “Dark remedy” di Rock Brynner e Trent Stephens sulla storia del talidomide1. Nel testo gli autori evidenziavano l’importanza strategica di ciò che proviene dal paziente nella farmacovigilanza, un’importanza pari a quella professionale.

Il paziente è il destinatario finale di un percorso costruito per garantire una risposta, ma diventa anche parte attiva di un processo di presa in carico: col suo ruolo è in grado di migliorare il sistema di farmacovigilanza nel suo complesso. L’ascolto delle persone arricchisce l’attività di farmacovigilanza e, in questa prospettiva, è importante che venga garantita al paziente l’opportunità di riferire direttamente alle autorità sanitarie. La sottosegnalazione, per esempio, potrebbe essere decisamente ridotta grazie alla partecipazione dei cittadini.

Sicuramente uno strumento che permetterà sempre di più ai pazienti di essere parte attiva e responsabile è il nuovo Regolamento sui trial clinici 536/14 che prevede il coinvolgimento dei pazienti nella definizione del disegno dei trial, nella fase di assessment, nella fase di support e soprattutto nell’identificazione delle popolazioni vulnerabili o di trial particolari.

È necessario incorporare valori e preferenze dei pazienti nel percorso di revisione scientifica (che potrebbe influenzare il rischio-beneficio), ma soprattutto nel processo di decision making. I pazienti, in quanto beneficiari ultimi dei farmaci, devono essere ascoltati, ribadisce Melazzini. E il Regolamento europeo sulla trasparenza dei dati afferma infatti la necessità che i clinical trial siano messi a disposizione in un database accessibile a tutti e gratuito.




L’impatto delle tecnologie della salute sul soddisfacimento dei bisogni e la spesa totale non sono direttamente misurabili, prosegue Melazzini. L’innovazione è continua e gli impatti delle differenti innovazioni sono interrelati. Ma accessibilità e sostenibilità dell’innovazione rappresentano i due poli su cui si gioca il futuro del sistema sanitario, perennemente in bilico tra alti costi e risultati incerti dell’innovazione e i bisogni (questi certi) di salute e assistenza.

Nel prossimo futuro tutte le nuove terapie (per le demenze e l’Alzheimer ad esempio), i nuovi farmaci antineoplastici, le immunoterapie, le terapie geniche rappresenteranno (e già rappresentano) una grande sfida in questo senso, precisa Melazzini. Il problema è se il sistema sanitario saprà far fronte agli alti costi delle nuove terapie garantendo un rapido accesso e contemporaneamente la loro sostenibilità. E la Costituzione italiana e legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale sono l’emblema di questo difficile equilibrio tra diritti e sostenibilità.

La presenza dei pazienti nei percorsi decisionali può essere estremamente utile, spiega Melazzini. A livello europeo è prevista una serie di percorsi e strumenti utilizzabili che consentono l’accesso a un farmaco: l’approvazione condizionata, le circostanze eccezionali, l’assessment accelerato, l’uso compassionevole, il trattamento, l’uso nominale sul singolo paziente

Il Prime Project è stato concepito per accelerare lo sviluppo e la valutazione dei farmaci innovativi e di maggior interesse per la salute pubblica. A questo scopo è necessaria una migliore interazione e un dialogo precoce con gli sviluppatori del farmaco. Quanto ai criteri di eleggibilità, sono sufficienti evidenze cliniche preliminari in pazienti con bisogni clinici inevasi.

AIFA cerca, alla luce di tutto ciò che viene posto in istruttoria e portato a livello delle commissioni consultive, di utilizzare degli strumenti che permettano poi nella fase di valutazione e soprattutto nella fase negoziale di poter garantire la sostenibilità. Anche qui è possibile il percorso informativo. Per dare garanzia di risposta ai pazienti bisogna avere a disposizione risorse, ma non soltanto in termini economici (il fondo dei farmaci strutturale, il fondo dei farmaci innovativi), ma anche informare e informare correttamente, prosegue Melazzini.

Anche sul fronte della ricerca indipendente sui farmaci, l’AIFA è in prima linea (l’ultimo bando è quello ٢٠١٦). La promozione della ricerca indipendente rappresenta in realtà uno dei compiti strategici assegnati all’AIFA dalla legge. L’obiettivo è sostenere la ricerca clinica in aree di interesse del SSN in cui il sostegno commerciale non è di norma sufficiente.

Investire sull’empowerment e l’educazione del paziente per promuoverne la partecipazione qualificata nei percorsi di sperimentazione, sviluppo e monitoraggio dei farmaci è lo scopo del protocollo d’intesa firmato a Roma dall’AIFA e dall’European Patients’ Academy on Therapeutic Innovation (Accademia Europea dei pazienti sull’Innovazione Terapeutica - EUPATI), il Consorzio di associazioni di pazienti, mondo accademico e organizzazioni no profit, che si occupa di accrescere le competenze e la consapevolezza dei pazienti in materia di sviluppo di nuovi trattamenti.

La collaborazione tra AIFA e EUPATI consentirà di potenziare l’efficacia del processo formativo per i cittadini. L’obiettivo a lungo termine è realizzare un sistema educativo in progress in grado di garantire un contributo solido e qualificato dei pazienti e dei loro familiari al processo regolatorio del farmaco, dalla fase della sperimentazione clinica a quella della vigilanza dopo l’immissione in commercio, integrando e rendendo omogenee le migliori prassi a livello europeo.

Incoraggiare l’empowerment del paziente, conclude Melazzini, è un valore aggiunto per il paziente e per la comunità scientifica. Si tratta di un’attività che prevede l’interazione continua con i pazienti, che devono ricoprire un ruolo proattivo, da protagonisti, alla stessa stregua degli altri attori del processo che porta alle risposte terapeutiche ai bisogni della popolazione.

Alessio Malta

Bibliografia

1. Brynner R, Stephens T. Dark remedy. The impact of thalidomide and its revival as a vital medicine. New York, NY: Basic Books, 2001.

Ciro Cattuto: (Big) data

Aprendo il suo intervento, il direttore scientifico della Fondazione ISI, Ciro Cattuto, esordisce: «Il mio background è probabilmente simile al vostro, anche se parlo una lingua leggermente diversa dato che sono un fisico di formazione. Quello di cui voglio parlarvi sono alcune esperienze preliminari, alcuni segnali nuovi che indicano una strada diversa, che richiede un dialogo diverso. Questo dialogo coinvolge soggetti e culture molto differenti tra loro, in particolare per quanto riguarda computer science e machine learning. Nel titolo ho messo “big” tra parentesi: il termine big data è legato principalmente al marketing, e in questo senso può risultare estremamente fumoso, ma dietro c’è molto di più e per questo è proprio dai “dati” che io vorrei partire».

Cosa si intende quando si parla di big data viene ben esemplificato nella prima diapositiva presentata da Cattuto: una mappa che visualizza un miliardo di viaggi in taxi nella città di New York. Con soli 350 Gb di dati (che sembrano tanti, ma in fondo ogni laptop oggi può contenere una simile quantità di dati nel proprio hard disk) si riesce ad avere la visibilità di un intero sistema città e di una particolare funzione all’interno di questo sistema: un punto per ogni pickup, per ogni singolo viaggio in taxi avvenuto a New York negli ultimi 6 anni. Il fatto di avere una visibilità così granulare di grandi sistemi, alla scala di un’intera popolazione, per molti anni, per un’intera generazione, con un contesto finemente risolto, consente di estrarre dei pattern che possono diventare ipotesi che dovranno poi essere pesate e testate con i metodi tradizionali.

I big data rappresentano quindi una macchina molto potente per generare ipotesi e stabilire potenziali inferenze causali. «Le nostre simulazioni e i nostri modelli matematici – avverte Cattuto – hanno l’ambizione di crea­re modelli estremamente realistici perché riescono a modellare la mobilità dell’individuo e tutta una serie di comportamenti che possono avere outcome di salute».

Molti di questi dati non sono stati raccolti per ragionare, per esempio, su problemi medico-epidemiologici. Ma la disponibilità di proxy digitali della mobilità umana e dei nostri comportamenti risulta di fatto molto utile per modellare un’epidemia. Essendo ormai molto progredite le competenze tecnologiche, si è in grado di sfruttare questa enorme mole di dati con il complesso armamentario di machine learning, data mining, deep learning ecc. che consente di estrarre dei “segnali”. La sfida è imparare a creare una nuova capacità decisionale sulla base di questi nuovi segnali. Ciò non significa che i vecchi segnali non siano più validi, ma che piuttosto è necessario elaborare nuovi modi di misurare il mondo e di prendere decisioni.

Fatta questa premessa, il direttore della Fondazione ISI passa a esaminare rapidamente alcuni tipi di “segnali” e il loro utilizzo per studiare fenomeni clinici o epidemiologici, anche se i dati non sono stati raccolti specificamente con questo scopo. Una sorgente di dati è costituita dai social network quali Facebook e Twitter, e anche Google ­Trends. Negli Stati Uniti circa 1 persona su 5 è su Twitter, un numero enorme che consente di monitorare i contenuti generati dagli utenti. Legati a questi ultimi ci sono i cosiddetti “metadati” (dati sui dati): ogni volta che qualcuno twitta, nei server di Twitter, oltre al contenuto generato, finisce una struttura dati da cui si ottiene tutta un’altra serie di informazioni sull’autore del tweet, sulla sua localizzazione, su quale dispositivo ha utilizzato, ecc. I metadati sono piuttosto informativi anche perché sono disegnati per essere “digeriti” da un computer. Sono quindi forme di dati molto potenti.

Nel contesto di big data si parla molto di machine learning, un insieme di metodi sviluppati negli ultimi decenni che forniscono ai computer l’abilità di apprendere senza essere stati esplicitamente programmati a farlo, e anche di deep learning e reti neurali artificiali che emulano il funzionamento del cervello umano. Un gruppo di Stanford ha sviluppato un sistema di deep learning “addestrato” utilizzando 150.000 annotazioni manuali solide relative a lesioni cutanee raccolte nell’ospedale di Stanford che ha dimostrato la capacità di classificare una serie di tumori cutanei con un’accuratezza pari a quella dei massimi esperti del settore1. Tecnologie di questo tipo sono dormienti finché non diventano “reali”. Facendo attenzione, ammonisce Cattuto, a non cedere alla tentazione di parlare di intelligenza artificiale, perché in questo caso non si tratta di intelligenza artificiale in senso stretto ma semplicemente di percezione molto avanzata, così avanzata da essere sovrumana.




A questo punto il direttore della Fondazione ISI si sofferma ad analizzare alcuni dei pattern che stanno emergendo nella letteratura di epidemiologia digitale, a dimostrazione di cosa si può fare con segnali, come quelli dei big data, che sono piuttosto remoti rispetto al contesto da analizzare. Il primo esempio riguarda il fare data mining con i contenuti generati dagli utenti e si riferisce a uno studio condotto dal gruppo di Chunara alla New York University2 per verificare se fosse possibile desumere il pattern spaziale dell’obesità utilizzando i like degli utenti su post di Facebook legati all’attività fisica oppure a serie televisive e quindi a situazioni di sedentarietà. «L’analisi statistica – afferma Cattuto – ha dimostrato che l’operazione è molto forte, a tal punto da consentire di inferire la prevalenza dell’obesità negli Stati Uniti senza dover aspettare i dati del Behavioral Risk Factor Surveillance System del governo americano».

«Un altro esempio di data mining – prosegue – è il bellissimo lavoro di Francesco Gesualdo, Paola Velardi, Alberto Tozzi e colleghi3, che hanno fatto un ulteriore passo avanti chiedendosi se, sempre negli Stati Uniti, i contenuti generati su Twitter dagli utenti potessero essere un buon proxy per la prevalenza di rinocongiuntivite allergica. Anche in questo caso la risposta è stata affermativa. E questo è un altro punto chiave: estrarre valore dai big data tipicamente significa incrociare dati che normalmente non dialogano tra loro, come quello che la gente scrive su Twitter e quanto polline c’è nell’aria. Questo richiede che i dati vadano raccolti, che siano condivisi e che ci siano le necessarie policy che consentono questo scambio di dati».

Cattuto cita inoltre il lavoro di Marcel Salathé4 che nel 2015 ha pubblicato una sorta di manifesto dell’epidemiologia digitale ponendosi una domanda ancora più difficile: se fosse possibile inferire da Twitter il pattern degli effetti collaterali dei farmaci antiretrovirali utilizzati per l’HIV. Il gruppo di Salathé è partito da un filtro che prendeva tutte le menzioni di farmaci antiretrovirali su Twitter negli Stati Uniti e ha iniziato a filtrare sempre di più fino a mantenere solo 37.000 tweet, che consentono di riprodurre una griglia di effetti collaterali dei principali farmaci utilizzati per trattare la progressione della sindrome da HIV. Questo dimostra che non c’è solo l’ambizione ma anche la possibilità di fare farmacovigilanza sulla base di dati di questo genere (cosa che del resto già si fa in ambito EMA ed FDA).

L’attenzione di Cattuto si appunta poi su un’altra classe di dati che ha a che fare con le “search engine queries”. Il lavoro più interessante, a suo avviso, è quello pubblicato nel 2016 a firma di Ryen White di Microsoft Research e del suo gruppo5, che hanno affrontato un esercizio estremamente complesso. Analizzando le ricerche lanciate su Bing, il motore di ricerca di Microsoft, hanno cercato tutte le frasi in cui un utente dichiarava di aver ricevuto una diagnosi di adenocarcinoma pancreatico. Poi, andando indietro nella storia di ricerche di quell’utente (che naturalmente per problemi etici era anonimo) nei mesi precedenti la diagnosi, hanno trovato che una percentuale tra il 5 e il 15% dei casi di tumore poteva essere predetta fino a 6 mesi prima utilizzando solo i pattern di sintomi ricercati, che anche se deboli davano una percentuale di falsi positivi molto bassa.

Questo dimostra, secondo Cattuto, che la capacità tecnica oggi esiste, la sfida è utilizzare al meglio questi segnali. E per supportare quest’affermazione riporta due esempi significativi. Il primo è quello del lavoro del gruppo di John Brownstein alla Harvard Medical School6 che, sfruttando un vero e proprio esercito di macchine, ha utilizzato tecniche di data mining da social media, giudizi di esperti, machine learning e trattamento automatico del linguaggio per creare HealthMap, un sistema che fornisce situational awareness su una serie di focolai epidemici e che attualmente viene utilizzato da alcune agenzie. Il secondo esempio riguarda il lavoro di Daniela Paolotti alla Fondazione ISI che, nell’arco degli ultimi anni, ha partecipato alla costruzione progressiva di Influenzanet, la più grande coorte partecipativa sul web per la sorveglianza sindromica dell’influenza7.

Infine, Cattuto chiude riassumendo le opportunità esaminate: dall’uso di proxy data per studiare fenomeni clinici e dal ruolo delle nuove sorgenti di dati (dispositivi indossabili, sensori impiantabili o ingeribili, internet of things) alla possibilità di assemblare grandi coorti di persone monitorandole in tempo reale. A queste si aggiungono le potenzialità di modelli matematici avanzati (ma anche la possibilità che modelli matematici vecchi si avvalgano di dati di alta qualità e su larghissima scala per fare simulazioni e produrre predizioni), la capacità di monitorare l’opinione della comunità con le stesse tecnologie utilizzate dal marketing computazionale e, dal punto di vista della ricerca e produzione di conoscenza, quella di estrarre enormi quantità di evidenza correlazionale e di disegnare nuovi pattern per inferire connessioni causali. Molte delle tecniche esaminate sono utilizzate in matematica avanzata, statistica inferenziale, computer science. Per questo Cattuto conclude con l’esortazione a incentivare il dialogo tra la comunità medica e quella della scienza computazionale per avere l’opportunità di generare conoscenze diverse. Senz’altro si tratta di una feconda collaborazione che merita di essere incentivata.

Bianca Maria Sagone

Bibliografia

1. Esteva A, Kuprel B, Novoa R, et al. Dermatologist-level classification of skin cancer with deep neural networks. Nature 2017; 542: 115-8.

2. Chunara R, Bouton L, Ayers JW, Brownstein JS. Assessing the online social environment for surveillance of obesity prevalence. PLoS One 2013; 8: e61373.

3. Gesualdo F, Stilo G, D’Ambrosio A, et al. Can Twitter be a source of information on allergy? Correlation of pollen counts with Tweets reporting symptoms of allergic rhinoconjunctivitis and names of antihistamine drugs. PLoS One 2015; 10: e0133706.

4. Adrover C, Bodnar T, Huang Z, Telenti A, Salathé M. Identifying adverse effects of HIV drug treatment and associated sentiments using Twitter. JMIR Public Health Surveill 2015; 1: e7. doi: 10.2196/publichealth.4488.

5. Paparrizos J, White RW, Horvitz E. Screening for pancreatic adenocarcinoma using signals from web search logs: feasibility study and results. J Oncol Pract 2016; 12: 737-44.

6. Brownstein JS, Freifeld CC, Reis BY, Mandl KD. Surveillance sans frontieres: internet-based emerging infectious disease intelligence and the HealthMap project. PLoS Med 2008; 5: e151.

7. Paolotti D, Carnahan A, Colizza V, et al. Web-based participatory surveillance of infectious diseases: the Influenzanet participatory surveillance experience. Clin Microbiol Infect 2014; 20: 17-21.

Rodolfo Saracci: Big data, big illusion

L’intervento del noto epidemiologo Rodolfo Saracci, da lui stesso definito old-fashioned, non avrebbe potuto costituire uno stacco più netto da quello di Ciro Cattuto, con cui si confronta nel mettere a fuoco il tema dei big data. È il punto di vista della medicina “umanista”, nel suo senso più stretto, contrapposto a quello della medicina tecnologica e “transumanista”, nel suo senso più ampio. Non a caso, il ragionamento ha preso le mosse da una citazione tratta da The Rock, del poeta T.S. Eliot: «Where is the wisdom we have lost in knowledge? | Where is the knowledge we have lost in information?». Eppure, al di là delle preoccupazioni esposte per i rapidi quanto inarrestabili cambiamenti in atto nello scenario della relazione di cura, Saracci non chiude la porta ai big data, invita piuttosto a prendere coscienza del problema per non farsene trascinare, per cercare di contribuire a guidare il processo nella giusta direzione.

«I big data arrivano con dei grandi spunti e delle grandi promesse», sottolinea Saracci, prendendo come esempio gli esperimenti del CERN che hanno provato l’esistenza del bosone di Higgs. «Lì i dati sono veramente “big”, nell’ordine di 1015-1018 collisioni. Ma in quel contesto si danno condizioni di controllo assai strette, in grado di testare ipotesi specifiche derivate da teorie forti. Nessuna di queste condizioni si applica all’insieme dei dati raccolti di routine. A quale fine? Certamente una promessa è che i big data permettano predizioni più accurate, consentendo un salto di qualità nel settore salute». Saracci non si riferisce alla banale stratificazione di rischio che senz’altro sarà migliorata dall’uso dei big data, ma alla capacità di fare previsioni a livello del singolo individuo sempre più accurate in campo clinico. E a questo proposito esorta a tener presente una considerazione che gli sembra fondamentale: occorrono rischi relativi elevati perché ci sia una buona capacità predittiva a livello individuale; anche se, paradossalmente, se si danno rischi relativi elevati, non c’è neanche bisogno di big data per rivelarli. Piuttosto, ci vogliono “dati buoni”.

Secondo Saracci, la massa informe percepita dei big data nell’ambiente biomedico, prima ancora che interagisca con collaboratori provenienti da altri “orizzonti”, deriva principalmente da tre sorgenti: la grande massa di individui, le misure ripetute nel tempo e la varietà di variabili. «Chiaramente la cosa più importante – sottolinea – è che le variabili abbiano un senso e si possano esplorare. Un altro elemento importante è la ripetizione nel tempo, longitudinalmente. Ciò che ha meno importanza è la numerosità della massa delle persone che è invece rilevante per quelle che sono le forze economiche e sociali che spingono il meccanismo: è un dato di fatto che dei rischi anche piccoli (ad esempio 1,25), che non servono a nulla dal punto di vista né eziologico né predittivo, permettono in qualsiasi contabilità di ottenere un ottimo profitto».

Un altro aspetto da analizzare è se i big data consentono delle valutazioni conclusive degli esiti e in quali situazioni: «Da studi osservazionali che riescano a estrarre le informazioni pertinenti a delle strategie combinate, ognuna delle quali è affetta da forti fattori di confondimento, che oltretutto variano nel tempo, si possono ricavare dei suggerimenti. Ma le valutazioni non potranno mai essere conclusive: sono tanto assolutamente necessarie, quanto necessariamente solo indicative».

Saracci porta l’esempio di un recente studio condotto su una base dati definibile “big” che «esaminava solo due condizioni (fibrillazione atriale valvolare e scompenso cardiaco) in una coorte di 200.000 persone presa dal “paradiso” dei registri: la Danimarca. Il quesito riguardava l’uso dei beta-bloccanti. L’analisi è stata fatta con gli strumenti più avanzati a disposizione degli epidemiologi: regressione Cox, propensity score, sensitivity analysis, ecc. Tuttavia, nel discutere i risultati con i cardiologi, è emerso che mancavano i dati relativi alle frazioni di eiezione. Lo studio è stato fatto benissimo, ma è il tipo di dati disponibili che solleva dei punti interrogativi»1.

Nel tirare le fila, Saracci si chiede se il salto di qualità non si possa fare finché si continua a guardare le cose in una certa ottica, che forse è obsoleta. «Prendete l’ultimo rapporto McKinsey del dicembre 2016: il titolo è “The age of analytics: competing in a data-driven world”. Proviamo a fare un salto di qualità e immaginiamo che siano i dati invece che il giudizio a trascinarci. Un bel giorno ognuno potrebbe trovarsi alla confluenza di una serie gigantesca di dati – biologici, di comportamento, economici e finanziari, e magari i dati del proprio diario – la cui somma sarà il proprio Io. Quel giorno si riterrà forse che il nostro Io possa essere costituito da qualcosa di esterno in grado di dar conto della nostra storia integrale. Non si tratta di fantascienza ma di un cambiamento di natura filosofica relativo al nostro modo di vivere». Cambiamento, però, che Saracci non si sente di sposare fino in fondo: «Il mio Io non sarà mai costituito dalla sommatoria dei dati acquisiti su di me».




Nel suo più recente libro – prosegue Saracci – lo storico israeliano Yuval Noah Harari2 parla di “dataismo”, fenomeno per il quale l’anima di tutte le cose risiede nel flusso e nello stock di dati e ogni cosa può essere risolta algoritmicamente. «Anche in medicina ci sono delle tendenze che vanno fortemente in questo senso. Per esempio, dal lato del paziente, che è diventato il cliente, il consumatore o l’utilizzatore, il rischio è che alla fine diventi un “datoma”.
E dal lato del medico – continua Saracci – c’è la taylorizzazione dell’attività clinica. Sul New England Journal of Medicine Jerome Groopman dell’Università di Harvard3 ha scritto: “The aim of finding the one best way cannot be generalized to all of medicine, least of all to many cognitive tasks. Good thinking takes time, and the time pressure of Taylorism creates a fertile field for cognitive errors that can result in medical mistakes”. Quello che succede nella restrizione del tempo è che le prescrizioni e le linee-guida, che dovrebbero essere lo strumento per aumentare la capacità di ragionamento di quel computer che è il cervello umano, diventano un sostituto invece di essere uno strumento di aumento delle potenzialità. E il sostituto, in generale, apre la porta al fatto che il processo possa essere robotizzato: perché il robot funziona meglio, non è emotivo e costa meno, e, magari, la performance è migliore. Il problema è che dobbiamo decidere cosa vogliamo lasciare alle persone e cosa alle macchine. Non credo di fare delle previsioni fantascientifiche perché il movimento è molto forte e va veloce, è collegato a innovazioni tecnologiche, sviluppo economico e anche a una certa dose di ideologia».

Avviandosi alla fine del suo intervento, Saracci afferma: «Chiaramente siamo nel dominio della prospettiva realistica, non sappiamo quando questo “salto” avverrà. Ma se non cerchiamo di prenderne coscienza e di interagire con gli altri attori che possono far avanzare insieme a noi nelle giuste direzioni questi sviluppi, si va verso una prospettiva rischiosa: il dataismo, preso nella sua forma integrale, è una forma di transumanismo che mette in discussione la radici migliori della medicina, quelle umaniste».

Saracci propone dunque due ultime riflessioni. «La prima è sulla variabile della relazione medico-paziente: la variabile proxy più vicina è il tempo del contatto, ma ci sono altri aspetti della relazione che non sono stati ancora sufficientemente misurati. La seconda riguarda la “population health”, termine sempre più popolare perché è un richiamo alla globalità della popolazione e alla sua salute. Ma, mentre la popolazione è abbastanza definita, i confini del concetto di “health” rimangono vaghi: ci vuole per lo meno un concetto chiaro».

E conclude: «Quando si parla di significato della sofferenza umana ci si riferisce a ciò che, in medicina, è importante ai fini della salute. Spero che le discussioni di oggi stimolino a prendere coscienza del problema, nelle due visioni che ne sono state date, perché si tratta di una questione rilevante. È possibile che la medicina fatta dai robot sia molto più performante, ma riallacciandomi alla frase citata da Iona Heath, “care giving is a moral experience”, vorrei che rimanesse appunto un’esperienza morale. Per quanto, magari, anche i robot avranno le loro morali».

Bianca Maria Sagone

Bibliografia

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