Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Il direttore della rivista? Il Dottor Frode

Non passa giorno che non ci ritroviamo nella posta almeno un invito a scrivere per una rivista che non abbiamo mai sentito nominare. Il 35% dei clinici e dei ricercatori ne riceve più di ٦ a settimana: è quello che viene fuori da un sondaggio informale di Nature. Su Twitter, qualcuno si diverte a raccontare agli amici gli inviti più improbabili, nati dall’associazione che avrà fatto un algoritmo in base a qualche parola chiave contenuta in qualche articolo trovato in letteratura.

Un numero sempre più elevato di professionisti sanitari cade nella trappola della cosiddetta “editoria predatoria” e paga per pubblicare su queste riviste. Del resto, questi autori non hanno tutti i torti, perché alcuni di questi periodici riescono addirittura a essere indicizzati e, come tali, a premiare con un titolo valido anche a fini concorsuali chi firma i lavori. La cosa più inquietante è il coinvolgimento attivo in qualità di editor di alcuni clinici e ricercatori talvolta affiliati a istituzioni non di secondo piano. Gli editori promettono una quota dei ricavi ottenuti, anche se spesso i contratti sono un raggiro, perché la direzione della rivista presuppone la submission di propri contributi. Ovviamente, a pagamento anche quelli.

La storia raccontata da quattro ricercatori dell’università di Wrocław in Polonia è esemplare1. Inventano la figura di una collega, Anna O. Szust, che ha nel nome (Oszust) la “frode”. Ne costruiscono un profilo sui social media e un curriculum accademico e si candidano a nome di Anna a svolgere il ruolo di editor per 360 periodici. Un terzo estrapolato dal Journal Citation Report, un terzo dalla Directory of Open Access Journals (DOAJ) e un terzo dalla ormai mitica lista di Jeffrey Beall, il documentalista che ha archiviato nel corso degli ultimi anni molte centinaia di predatory journals. Nessun periodico del primo elenco è caduto nel tranello, solo il 7% tra le riviste DOAJ e il 33% dei periodici d’assalto. «A fictitious, completely unqualified person can become an editor (or even editor-in-chief) of some “scholarly” journals», afferma una delle autrici dello studio, Katarzyna Pisanski2.

Quella dei quattro psicologi polacchi è una provocazione forte, non solo rivolta agli editori da strapazzo: l’accademia dovrebbe ribellarsi, ma non lo fa. Jeffrey Beall ha dovuto interrompere il proprio lavoro di scouting delle riviste predatorie. «There was pressure from my university to stop», ha dichiarato al New Yorker3. «Universities don’t like negative things; they like happy, smiling people, not a lot of politics. I kind of feared for my job».

Bibliografia

1. Sorokowski P, Kulczycki E, Sorokowska A, Pisanski K. Predatory journals recruit fake editor. Nature 2017; 543: 481-3.

2. http://retractionwatch.com/2017/03/22/latest-sting-will-predatory-journals-hire-fake-editor-dr-fraud-answer-yes/

3. Burdick A. Paging Dr. Fraud. The New Yorker 2017; 22 marzo.




Non chiamiamole più agenzie regolatorie

L’Affordable Care Act sta per essere stravolto. Ma un altro cambiamento annunciato dalla presidenza Trump può incidere sulla sanità. Questa volta non solo su quella statunitense: il ripensamento dell’attività della Food and Drug Administration (FDA).

Nonostante negli ultimi mesi le decisioni dell’autorità USA sui medicinali siano state spesso criticate perché troppo permissive, l’industria farmaceutica non è ancora soddisfatta dei tempi e delle modalità approvative. Ha trovato preziosi alleati nelle associazioni dei pazienti. Altro scoglio è quello della trasparenza dei dati. Su questo aspetto, l’FDA è più prudente della European Medicines Agency (EMA) che con la policy 0070 del 2014 ha deciso che i clinical study reports (CSR) depositati dopo il 1° gennaio 2015 sarebbero dovuti essere accessibili: «The EMA adopted policy No. 0070 to achieve the goals of “better informed use of medicines” and “to make medicine development more efficient” by allowing researchers to “learn from past successes and failures”. The EMA concluded that disclosure of detailed clinical data would enable the development of “new knowledge in the interest of public health”».

Come fa rilevare un articolo del JAMA, si potrebbe verificare un disallineamento tra FDA e EMA: «The challenge the FDA must confront is that the clinical study reports submitted in support of drug marketing applications in the United States are basically the same as in the European Union. The FDA currently considers clinical data to be confidential commercial information, whereas the EMA does not»1. L’esito sarebbe nella perdita di autorevolezza dell’agenzia statunitense, che smarrirebbe una sorta di leadership internazionale nell’attività di governo dei medicinali.

L’articolo del JAMA è prudente e in diversi passaggi sembra propendere per una posizione conservatrice. Per esempio, mettendo sullo stesso piano la revisione sistematica dei dati non pubblicati sugli antinfluenzali e la meta-analisi aziendale successivamente pubblicata su The Lancet. Poi, dubitando che l’accesso ai dati possa essere un elemento utile al drug discovery o ai processi regolatori.

Che fare? Cambiare radicalmente prospettiva iniziando a modificare l’espressione con cui definiamo le agenzie che governano il farmaco. «The term “regulation” is framed from the viewpoint of corporations and other businesses. From their viewpoint, “regulations” are limitations on their freedom to do whatever they want no matter who it harms. But from the public’s viewpoint, a regulation is a protection against harm done by unscrupulous corporations seeking to maximize profit at the cost of harm to the public». Chiamiamole protezioni, non regole, chiede George Lakoff, professore emerito di Scienze cognitive a Berkeley. C’è qualcuno disposto a rinunciare a essere tutelato, in nome di un indiscriminato accesso delle novità tecnologiche ai mercati? Probabilmente anche il più convinto sostenitore dell’industria si farebbe qualche scrupolo. «Take the Public’s viewpoint instead of the corporate viewpoint», ha scritto Lakoff2.

La crisi economica ha radicalizzato il confronto e impoverito il dialogo: si cercano scorciatoie nell’accelerazione e nella rinuncia a darsi – o a confermare – anche le regole più basilari. Il rischio è che da questa tensione escano perdenti i più deboli, coloro che già hanno sperimentato la sconfitta. “Protecting the tired, the poor, the huddled masses”, raccomanda il titolo di un articolo di Katherine Peeler pubblicato sul New England Journal of Medicine3.

Bibliografia

1. Davis AL, Miller JD. The European Medicines Agency and Publication of Clinical Study Reports. A Challenge for the US FDA. JAMA 2017; 317: 905-6.

2. Lakoff G. The public viewpoint: regulations are protections. George Lakoff blog 2017; 8 gennaio.

3. Peeler K. Protecting the tired, the poor, the huddled masses. N Engl J Med 2017; 376: e17. doi: 10.1056/NEJMp1701684.




Se ti piace, mangialo

Uno studio molto elaborato, modelli complessi di analisi comparata dei rischi, numerose fonte di dati demografici, riferiti alle abitudini alimentari, agli stili di vita, di mortalità1: con l’obiettivo di avvicinarsi (approximate) al numero e alla quota di cittadini statunitensi la cui morte per cause cardiovascolari potrebbe essere dovuta a una dieta subottimale.

Il 45% delle 700 mila morti per cause cardiovascolari avvenute nel 2012 sarebbe dovuto a una di queste dieci cose: frutta, verdura, noci, farine integrali, carni rosse lavorate o meno, bevande zuccherate, grassi polinsaturi, acidi grassi omega 3 e sale. Beninteso, consumo in difetto o in eccesso, ma comunque a tavola è una strage. Come accade sempre più spesso, però, successivamente alla conclusione di uno studio del genere sono più numerose le critiche che i consensi. «This is a perfect example of science being poisoned by enthusiasm and superstition», ha commentato Larry Husten su Cardiobrief2.

La credibilità della ricerca nutrizionale è ai minimi termini ma, invece di prendere atto dell’incertezza, ogni Scuola prosegue per la propria strada senza farsi mettere in crisi dai risultati degli studi degli altri. Un esempio? Delle dieci cose studiate nella ricerca pubblicata sul JAMA, non poche sono oggetto di discussione: troppo poco sale potrebbe far male e il rischio associato al consumo di carni rosse sarebbe sovrastimato.




«When it’s regarding diet, neutral is good. You have to eat something. If you like it eat it. Not every food has to be good or bad», ha detto Salim Yusuf, uno dei più noti cardiologi e metodologi del mondo, a Larry Husten3. Aggiungendo: «Not every food has to be good or bad». In fin dei conti, devono esserne convinti anche al JAMA, dove hanno affiancato allo studio la pubblicazione di un Editoriale che avanza diverse riserve sulla qualità della ricerca, sottolineando come i risultati presentino associazioni e non rapporti di causa-effetto4. «Quando il corvo vola via, cade una pera».

Il proverbio coreano è la sintesi della patternicity: la grande patologia della medicina di oggi, malattia che fa la fortuna dei giornalisti scientifici5.

Bibliografia

1. Micha R, Peñalvo JL, Cudhea F, Imamura F, Rehm CD, Mozaffarian D. Association between dietary factors and mortality from heart disease, stroke, and type 2 diabetes in the United States. JAMA 2017; 317: 912-24.

2. Husten L. Has nutrition science been poised? Cardiobrief 2017; 9 marzo. http://cardiobrief.org/2017/03/09/has-nutrition-science-been-poisoned/

3. Husten L. Top cardiology blasts nutrition guidelines. Cardiobrief 2017; 27 febbraio. http://cardiobrief.org/2017/02/27/top-cardiologist-blasts-nutrition-guidelines/

4. Mueller NT, Appel LJ. Attributing death to diet. Precision counts. JAMA 2017; 317: 908-10.

5. https://www.scientificamerican.com/article/patternicity-finding-meaningful-patterns/