Manchester by the sea: statistiche al posto dell’empatia di Marco Bobbio

Non è facile comunicare cattive notizie. Eppure nessuno si pone il problema di insegnarlo ai professionisti della sanità, come se bastasse saper impugnare un bisturi, interpretare una radiografia, prescrivere un farmaco per essere bravi medici. Quando i pazienti devono affrontare una decisione che riguarda il proprio destino si aspettano di essere accompagnati e non di essere abbandonati; vorrebbero essere trattati con empatia senza essere messi di fronte a una scelta imposta né a una intricata mole di dati. Paul Kalanithi è un giovane neurochirurgo. Dopo aver comunicato per anni ai pazienti cattive notizie si ritrova nella spiacevole situazione di riceverne una, quando gli viene diagnosticato un tumore al polmone in fase avanzata con la prospettiva di pochi mesi di vita: «A quel punto ho capito una regola fondamentale. Le statistiche dettagliate vanno bene per le aule di ricerca, non per le stanze d’ospedale […]. La scienza potrà anche essere il modo più efficace per organizzare i dati empirici e riproducibili, ma questo suo potere scaturisce dall’incapacità di cogliere gli aspetti fondamentali della vita umana: speranza, paura, amore, odio, bellezza, invidia, onore, debolezza, impegno, sofferenza, virtù»1. Anche Pierdante Piccino è un medico e anche lui si accorge di quanto i colleghi manchino di umanità solo quando si trova nella condizione di paziente; ha avuto un trauma cranico in un incidente d’auto e, dopo alcune ore di coma, si sveglia scoprendo con angoscia di aver perso la memoria dei 12 anni precedenti. Non riconosce il proprio viso, ritrova la moglie invecchiata e i figli adolescenti. Anche lui riflette sulla sua condizione di paziente e considera che «è più importante l’empatia dell’acqua, del cibo, delle medicine» e sul fatto che si era sempre considerato un bravo medico perché tecnicamente preparato, ma non si era mai accorto che la sua rigidità e l’assenza di empatia lo avessero reso un medico mediocre2.




Nel film Manchester by the Sea (2016), di Kenneth Lonergan, il dottor Bethney, interpretato da Ruibo Qian, rappresenta in modo esemplare il medico-scienziato incapace di mettersi in relazione con il paziente. Il dottor Bethney si reca nella stanza di un ammalato, attorniato da alcuni parenti, per spiegare il motivo del ricovero. Non si preoccupa di cosa sappia il paziente, di come affronta la vita, della sua sensibilità o, come dice Kalanithy, delle sue «speranze, paure, debolezze, sofferenze, virtù…». Affronta l’argomento comunicando la diagnosi: «lei soffre di uno scompenso cardiaco». La definizione scientifica, che ha un significato preciso per i medici, può invece spalancare fantasie diverse e imprevedibili in persone ignare. Il dottor Bethney affronta i dubbi e le angosce espresse dagli astanti, entrando nei dettagli: «Si tratta di un peggioramento graduale del muscolo cardiaco. Di solito avviene nelle persone anziane, ma in rari casi anche in persone più giovani. Dopo un primo attacco alcuni pazienti possono vivere fino a 50 o 60 anni. Molti soffrono di episodi ricorrenti simili a un infarto, come quello che ha avuto lunedì scorso, che indeboliscono il cuore e possono metterla fuori gioco per una o due settimane. Per circa l’80% dei pazienti della sua età l’aspettativa media di sopravvivenza è di 5 anni o meno, ma le statistiche possono variare e non possiamo sapere cosa succederà a lei. Non è comunque una bella malattia». In pochi secondi il dottor Bethney ha emesso una sentenza di morte, lenta ma prossima, non introdotta dal contradditorio di un pubblico dibattimento.

I medici non si rendono conto che l’elencazione di statistiche e probabilità, spesso adottata per “aiutare” i pazienti a scegliere, tende a frastornare più che a spiegare. L’uso dei numeri oggettiva la comunicazione, ma esclude la componente emotiva di entrambi, impedendo al paziente di esporre liberamente i propri dubbi e le proprie angosce e ostacolando una relazione fiduciaria che invece dovrebbe costituire la base di un proficuo incontro terapeutico.

Non è facile comunicare cattive notizie, ma proprio per questo è indispensabile che i professionisti della sanità imparino ad aiutare i pazienti, invece di escluderli, evitando di emettere verdetti inappellabili e di sciorinare dati statistici che si riferiscono a un inesistente paziente medio. Il primo passo però consiste nel comprendere che in ogni colloquio così delicato entrano in gioco le emotività di entrambi; solo quando un medico si rende conto che le proprie fragilità emotive condizionano i momenti cruciali della vita dei pazienti che cura sarà in grado di affrontare un colloquio delicato con l’umiltà di chi vuole aiutare e non imporre.

Bibliografia

1. Kalanithi P. Quando il respiro si fa aria. Milano: Mondadori, 2016.

2. Piccioni P, Sapegno P. Meno dodici. Milano: Mondadori, 2016.