Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
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Twitter conflittuale

Immaginiamo di restare alzati per assistere alla notte degli Oscar in televisione e, non accontentandoci di quanto raccontano i cronisti, di seguire in diretta il flusso dei tweet di commento alle scelte della Academy. Che reazione avremmo se qualcuno ci dicesse che buona parte di quello che leggiamo ci arriva da persone che percepiscono denaro o cortesie dalle case di produzione cinematografiche o dagli agenti degli attori in concorso? La convinzione dell’indipendenza e della spontaneità della rete sarebbe sicuramente messa in discussione. Nessuno ha studiato se questo sia un rischio reale per chi assiste all’evento cinematografico dell’anno ed è probabile che non lo sia: invece, quattro medici della Oregon Health and Science University sono andati a vedere quali rapporti avessero con le industrie 642 oncologi e oncoematologi attivi su Twitter1. Ebbene, il 79% di loro aveva percepito denaro da industrie e, tra questi, il 44% aveva ricevuto compensi superiori a 1000 dollari l’anno. Anche in considerazione dello spazio limitato a disposizione (al momento dello studio, Twitter non consentiva di andare oltre i 140 caratteri per ogni tweet) i rapporti con le aziende non erano mai dichiarati.

Quello segnalato da Prasad e dai suoi collaboratori non è un rischio remoto: vuoi perché oltre il 60% dei medici che usa Twitter lo fa per condividere commenti riguardanti la propria professione, ma anche perché Twitter è sempre più utilizzato soprattutto per commenti ad articoli usciti sulle più conosciute riviste scientifiche e in occasione dei congressi internazionali. Nel corso di questi eventi i partecipanti contribuiscono al confronto con diverse migliaia di tweet, ed è una buona notizia soprattutto per chi non può partecipare di persona. Ma è anche una novità importante della comunicazione scientifica, al punto che ci si chiede se l’eco garantita ai meeting congressuali dal twitting non alteri le regole del publishing scientifico2. Per inciso, pensando di risolvere i problemi, alcune società scientifiche come l’American Diabetes Association – hanno pensato di vietare ai partecipanti alle sessioni del proprio congresso di fotografare le diapositive dei relatori e di twittarle perché il messaggio rappresenterebbe comunque una forma di pubblicazione anticipata rispetto all’articolo accademico destinato a una rivista scientifica3.




Anche le industrie contribuiscono al microblogging, cercando quasi sempre di aderire alla guidance della Food and Drug Administration (FDA) che ha mostrato di essere un po’ preoccupata per la brevità dei messaggi pubblicati su Twitter in quanto possono mettere a rischio la completezza delle informazioni fornite. La FDA nel 2014 ha raccomandato alle imprese di postare contenuti sui social media che siano sempre coerenti con quanto indicato nei foglietti illustrativi, in primo luogo garantendo un’informazione accurata, mai andando oltre le indicazioni registrate e segnalando sempre i possibili effetti indesiderati dei medicinali citati4. Difficile ottenerlo, però, in una manciata di caratteri.

Anche per questo qualche azienda potrebbe essere tentata di affidare la comunicazione sui social media a terze parti che godano di maggiore libertà. La stessa FDA, però, ha predisposto una sorta di “controlled environment” della comunicazione industriale farmaceutica sui social media, prevedendo che le aziende – pur non essendo “responsabili” dei contenuti pubblicati da terze parti su piattaforme online non di proprietà delle industrie stesse – debbano però intervenire per correggere, precisare o rettificare eventuali informazioni o affermazioni improprie, inaccurate o fuorvianti.

Bibliografia

1. Tao DL, Boothby A, McLouth J, Prasad V. Financial conflicts of interest among hematologist-oncologists on twitter. JAMA Intern Med 2017; 177: 425-7.

2. Groves T. Tweeting and rule breaking at conferences. BMJ 2016; 353: i3556.

3. Mohammadi D. Conference organisers swimming against the tide of Twitter. BMJ 2017; 358: j3966.

4. Food and Drug Administration. Guidance for industry. Internet/social media platforms: correcting independent third party misinformation about prescription drugs and devices. Giugno 2014. https://goo.gl/yoDweM

Direttori di riviste scientifiche e conflitti di interessi

Chi dirige una rivista scientifica ha un grande potere, perché le sue decisioni influenzano l’andamento economico di prodotti, i risultati finanziari delle industrie, le carriere professionali di colleghi. Paradossalmente, la principale missione di un direttore di rivista ha un impatto minore: la possibilità di influenzare il dibattito scientifico. Ugualmente modesta è l’attenzione per l’esposizione degli editor al conflitto di interessi: le decisioni di un direttore di una rivista scientifica devono rispondere a criteri – per così dire – “ippocratici” o piuttosto all’esecuzione di un mandato ricevuto dalla proprietà della rivista, spesso riconducibile a multinazionali profit? A quale codice etico dovrebbe ispirarsi chi lavora nella comunicazione della scienza? L’interesse principale di un medico che fa il medico è il bene del malato, mentre converrebbe ragionare su quale debba essere l’interesse primario del direttore di una rivista di medicina. Sappiamo, infatti, che gli interessi dell’industria editoriale medico-scientifica (che viaggia al ritmo di profitti del 30-32%) e quelli della salute sono divergenti. Less-is-more non è un principio popolare tra chi dirige una rivista di medicina.

Uno studio pubblicato sul BMJ ha messo in evidenza alcuni punti importanti1. Circa la metà delle persone coinvolte nella direzione scientifica di uno dei periodici coinvolti nella ricerca aveva ricevuto alcuni pagamenti nel 2014 in generale e circa un quinto aveva ricevuto pagamenti per la ricerca. Il contributo generale mediano era di $ 11 mentre il compenso medio era di $ 28 136; il contributo mediano per la ricerca era praticamente nullo mentre quello medio era di $ 37 963. I contributi mediani più elevati erano quelli corrisposti a direttori di riviste di endocrinologia ($ 7207), cardiologia ($ 2664), gastroenterologia ($ 696), reumatologia ($ 515) e urologia ($ 480). L’analisi dei 52 siti web dei periodici ha rivelato che le politiche sui conflitti di interesse erano facilmente accessibili (entro cinque minuti) per circa un terzo delle riviste.







Un punto importante da considerare è che nella direzione delle 52 riviste selezionate erano coinvolte ben 713 persone. In un modo o nell’altro, le decisioni sono quindi riconducibili a più di 10 persone per ciascun periodico: viene da pensare che qualsiasi condizionamento nel decision-making sia più “di sistema” che individuale. Ancora: tra i direttori ci sono degli outliers che rendono poco significativi i dati medi, così che anche in questo caso diventa più significativo riferirsi alle mediane. Ebbene, come si è detto la mediana dei compensi ricevuti dai 713 direttori è di soli $ 11 ma, in apertura della Discussione, gli stessi autori ci dicono che più o meno il 50 per cento dei direttori non ha ricevuto pagamenti dall’industria e questo sì, che è un dato sorprendente, perché di solito chi dirige una rivista scientifica “influente” è una persona molto attraente per l’industria e, tutto sommato, l’editoria scientifica sembra riuscire in qualche modo a difendere sé stessa dalle pressioni industriali.

Meno consolante è la constatazione di una diffusa opacità sulle policy che riguardano i conflitti di interessi: le dichiarazioni degli interessi da parte dei direttori delle riviste sono molto rare. Come spiega Ginny Barbour nell’editoriale che accompagna l’articolo, tra le riviste più conosciute solo il BMJ e PLOS Medicine hanno deciso di pubblicare le dichiarazioni di conflitto di interessi dei direttori. La verità è che i conflitti di interesse interessano a poche persone e, soprattutto, la maggior parte della comunità medico-scientifica ritiene ormai che quella tra sé stessa e l’industria sia una relazione non solo inevitabile, ma anche auspicabile.




Dello studio vanno sottolineati alcuni punti critici. In primo luogo, gli autori hanno deciso di includere nella ricerca riviste definite “influential” e – per sceglierle – si sono affidati a indicatori solo parzialmente in grado di aggirare la componente di soggettività che una scelta del genere comportava. Inoltre, la verifica dei pagamenti ricevuti dai loro direttori è avvenuta attraverso il database dell’Open Payment (OP), la banca dati istituita dal “Sunshine Act” dell’amministrazione Obama. Ebbene, l’OP prevede che siano registrati i pagamenti effettuati dalle aziende «located within the US and/or active within the US». Ma l’editoria scientifica è ormai un business internazionale, planetario, in cui i rapporti non si risolvono solo all’interno di una singola nazione. Infatti, capita quotidianamente che un key opinion leader statunitense sia coinvolto da un’azienda (o, più spesso, da un’agenzia intermediaria di organizzazione congressuale o di pubbliche relazioni) nella partecipazione a un congresso o a un comitato scientifico in un paese europeo. Ebbene, in questo caso non possiamo essere sicuri che il compenso a lui riconosciuto venga puntualmente inserito nel database dell’OP. Ancora: l’OP prevede che siano denunciati solo i pagamenti di industrie farmaceutiche. Ma quelli che provengono da agenzie di continuing medical education? Quelli di industrie alimentari? Quelli riconosciuti da aziende di informatica? Gli autori riconoscono solo alcuni di questi “limiti” nel paragrafo dedicato nella Discussione.

A proposito di immagini, 15 anni fa l’allora direttore del BMJ Richard Smith metteva in guardia sulle liaisons dangereuses tra medici e aziende, facendoli ritrarre dal disegnatore della sua rivista come due amanti a letto poco vestiti. La verità amara è che oggi quel letto è pieno di gente: non soltanto il medico che scrive e il dirigente industriale, ma anche il collega che deve andare in cattedra o il presidente della società scientifica che deve pubblicare. La scrivania – o il computer – dell’editor è il teatro di dinamiche spesso sospette, sempre poco trasparenti, che raramente premiano il merito, che non di rado non promuovono la salute. Ma che non riguardano, purtroppo, solo i rapporti tra medici e industrie farmaceutiche. Volendo restare alla metafora del BMJ, il letto può essere mantenuto non troppo disfatto se alla base della decisione di pubblicare c’è una valutazione di qualità del contenuto. È una regola che vale per tutto e per tutti: industrie, docenti universitari, medici amici. Talvolta si esce più perplessi dalla lettura di un articolo proposto da una “autorevole” Scuola di medicina che da un lavoro del quale è stato preannunciato l’acquisto di reprint da parte di un’industria. Per qualcuno può apparire strano, ma le verifiche attraverso le quali deve passare uno studio sponsorizzato sono spesso più severe di quelle accademiche: una frode editoriale può nuocere gravemente a un’industria mentre un docente universitario può mostrarsi superiore a questo tipo di “incidente”, addossandone la responsabilità al solito specializzando.

In definitiva, la remota possibilità di una soluzione dei problemi dei conflitti di interesse dipende dalla capacità di convincersi che si tratta di una questione di sistema che va ben oltre le relazioni tra medici e industrie.

Bibliografia

1. Liu JJ, Bell CM, Matelski JJ, Detsky AS, Cram P. Payments by US pharmaceutical and medical device manufacturers to US medical journal editors: retrospective observational study. BMJ 2017; 359: j4619.