Cinema e medicina

a cura di Luciano De Fiore

Lettere dallo ieri.
Su Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Non esiste davvero Ebbing, nel Missouri, stato del Midwest americano. Ma di cittadine sperdute e anonime come quella ce ne sono migliaia, e non solo negli States. A Ebbing vive con suo figlio Robbie una madre divorziata, Mildred Hayes (Frances McDormand, Oscar 2018 come Miglior attrice protagonista). Da un anno, l’altra sua figlia, Angela, è stata violentata e bruciata viva. Decide allora di affittare tre enormi cartelloni pubblicitari in disuso, affiggendovi sopra tre frasi: “Stuprata mentre stava morendo”, “E ancora nessun arresto”, “Come mai, sceriffo Willoughby?”.
Bill Willoughby (un grandissimo Woody Harrelson) è un poliziotto stimato da tutti e soffre di un cancro al pancreas in fase terminale. Mildred è convinta però che la polizia abbia fatto poco e niente per trovare l’assassino della figlia. Certo non ha fatto molto Jason (Sam Rockwell, anche lui Oscar 2018 come Miglior attore non protagonista), un poliziotto più giovane con problemi di violenza e di alcolismo che prende a detestare Mildred. Ma la vita è amara quanto imprevedibile, e le cose cambieranno nel corso del film.







No spoiler, niente finale. Solo un’annotazione su Bill, lo sceriffo malato. Rapidamente, la salute di Bill si aggrava: nel corso di un colloquio con Mildred finisce con lo sputar sangue, e viene ricoverato in ospedale. Dimesso, si prende un giorno di vacanza con la famiglia. Gioca e pesca con le figlie, fa l’amore con la bella moglie. Si congeda così dalla vita. Infatti, quella stessa sera accudisce i suoi cavalli – metafora della vita che pulsa e continua – e si spara una fucilata in testa. Non prima però di aver scritto tre lettere: una alla moglie, nella quale le spiega di essersi voluto − e di averle voluto − risparmiare i lunghi mesi di chemioterapie e di sofferenze che lo attendevano; una per Mildred, nella quale la rassicura di non essersi ucciso a causa sua, e infine l’ultima al giovane collega intemperante, Jason.

Tutte le lettere iniziano con: Quando leggerai questa lettera, sarò morto. Sono lettere da un passato che diviene futuro. Promesse e raccomandazioni per il domani, di qualcuno che ormai non è più. Tutte scritte con affetto e attenzione. Bill, prima di morire, si fa “evangelista”, nel senso etimologico di chi porta una buona notizia, nel mentre dà quella – bruttissima – della propria morte. Le sue sono infatti parole – affidate ad uno scritto − di speranza, di amore. Per una vita della quale ormai farà parte solo nel ricordo grato di chi resta.

Le lettere del Bill malato di cancro sono di tutt’altro tenore di quelle già narrate dal cinema. Tornano in mente almeno due cancer movies non altrimenti memorabili: P.S. I love you (Richard LaGravenese, 2007) e Letters to God (Robert Nixon, 2010). Nel primo, un certo Gerry – malato di tumore – scriveva una serie infinita di lettere alla fidanzata, in modo da continuare a starle accanto (leggi: a influenzare e indirizzare la sua vita) anche da morto. Di fatto, una persecuzione narcisistica. Il film di Nixon, invece, era un classico strappalacrime: un bimbo di 8 anni, malato di tumore, riteneva di avere in Dio un amico speciale. Ogni giorno gli scriveva una letterina. La conseguenza involontariamente comica consisteva nella difficoltà del postino che si ritrovava con una quantità di lettere obiettivamente difficili da recapitare.

Il film pluripremiato di Martin McDonagh dice invece senza infingimenti della questione della fine, e della freudiana pulsione di morte. Prima attraverso l’aggressione e l’assassinio della sedicenne e poi attraverso la vicenda dello sceriffo. Toccando una delle questioni più angoscianti dell’umano, anche se sceglie di non soffermarvi troppo lo sguardo. Nella pratica clinica, infatti, il suicidio è uno dei comportamenti più difficilmente prevedibili, non necessariamente espressione di un disturbo psichiatrico. Metterlo in correlazione con il cancro aiuta in un certo senso ad accettarlo. Oggi come oggi, per ragioni culturali e politiche complesse, «il suicidio è sempre più considerato come espressione di un disturbo psichiatrico e, in quanto tale, fenomeno prevenibile, diagnosticabile e curabile. Ciò è in linea con una tendenza del mondo contemporaneo a rimuovere la morte, come già osservato da Freud: “Inequivocabile tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte […]. In verità è impossibile per noi raffigurarci la nostra stessa morte”»1, si è notato a ragione recentemente2. Pur volendo stabilire un legame tra suicidio e pulsione di morte, questa resta inesorabilmente e fondamentalmente muta.





Da tempo è nota la relazione tra malattia oncologica e suicidio: com’è prevedibile, i tassi di suicidio sono più alti tra chi soffre per un tumore, rispetto alla popolazione generale3. Si sa anche che il rischio di suicidarsi è maggiore nel primo anno dopo la diagnosi di cancro; che i tassi di suicidio sono più alti nei pazienti con tumori esofagei, pancreatici, epatici, polmonari e orofaringei. Potrebbe stupire, invece, che i tassi di suicidio nel primo anno dopo la diagnosi non siano cambiati significativamente negli ultimi tempi, nonostante i progressi nelle terapie. A meno di non rammentare che lo stesso Freud ammoniva che risolvere l’enigma del suicidio significherebbe “risolvere l’enigma della vita”.

Bibliografia

1. Freud S (1915). Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. OSF, vol. VIII. Torino: Bollati Boringhieri, 1976.

2. Biondi M, Iannitelli A, Ferracuti S. Sull’imprevedibilità del suicidio. Riv Psichiatr 2016; 51: 167-71.

3. Kumar V, Chaudhary N, Soni P, Jha P. Suicide rates in cancer patients in the current era in United States. Psychiatryonline 2017; 12: 11-4.