In questo numero

In un anno, il Lancet può riuscire a “piazzare” più di ٨٠ super vendite di reprint di articoli con tirature che vanno dalle 24 mila alle 835 mila copie. Un po’ meglio di quanto non riesca a fare il BMJ, che nello studio che fornisce questi dati si è fermato a poco più di 70 con una tiratura massima di 526 mila copie1. L’ordine medio ricevuto dal Lancet è stato di circa 250 mila euro e quello più alto di oltre un milione e mezzo di euro. Nella direzione amministrativa del New England Journal of Medicine la soddisfazione dovrebbe essere ancora maggiore, considerato l’elevato numero di articoli originali sponsorizzati pubblicati dalla rivista della Massachusetts Medical Society: però regna il massimo riserbo, e la trasparenza assicurata dai due settimanali inglesi è una chimera2.

Alla grande ricchezza delle riviste medico-scientifiche non corrisponde altrettanta attenzione da parte dei medici. Il calo di lettori è ormai generalizzato e l’allarme di Milton Packer (vedi la notizia in Dalla letteratura, p. 208) fotografa una realtà ben conosciuta. All’origine della disaffezione del clinico nei riguardi delle riviste anche più conosciute c’è probabilmente la crisi di credibilità di fonti che – all’apparenza – sembrano essersi consegnate all’industria. Almeno, è questo quello che può percepire il clinico al quale capitano sotto gli occhi quasi esclusivamente articoli che promuovono farmaci: se non sei più abbonato a riviste e se non ne consulti l’edizione online, l’impressione è quella di un’editoria scientifica molto o del tutto condizionata dagli investimenti farmaceutici.

Le riviste servono più a chi scrive e deve maturare titoli che a chi legge, così che il medico trova più utili servizi che nascono spontaneamente in rete, come quello che si aggrega intorno all’hashtag #FOAM (che sta per Free Open Access Meducation), alimentato da una comunità di clinici di tantissimi paesi diversi che condividono casi clinici, infografiche, algoritmi e flow-chart spesso costruite con grande intelligenza3. Nel marzo 2018 il cardiologo statunitense John Mandrola ha svolto un sondaggio su Twitter tra i propri 23 mila follower. La credibilità delle riviste indicizzate rispetto a quella dei blog è ancora maggiore, ma colpisce l’esiguità dello scarto che li divide (55% vs 45%). Eppure, il ruolo di molte riviste è prezioso: pensiamo al BMJ nel promuovere una cultura delle cure primarie, al New England nel favorire il dibattito sui temi più attuali delle politiche sanitarie, al JAMA Internal Medicine nel sostenere una medicina capace di fare di più con meno o al Lancet nel sensibilizzare sulla salute globale.

La grande questione, però, non riguarda ciò che troviamo nelle riviste, ma ciò che non è in esse contenuto. Come spiegano Jefferson e Jørgensen (vedi p. 211) quello dell’editoria scientifica – e prima ancora della medicina accademica – è un peccato di omissione. Che compromette l’attendibilità di gran parte dei contenuti di cui comunque disponiamo.

Bibliografia

1. Handel AE, Patel SV, Pakpoor J, et al. High reprint orders in medical journals and pharmaceutical industry funding: case-control study. BMJ 2012; 344: e4212.

2. Smith R. The hypocrisy of medical journals over transparency. BMJ Blogs 2018; 24 gennaio.

3. Lavelle C. What’s your doctor reading? How social media is disrupting medical education. National Post 2018; 29 marzo.

In questi numeri