Recensione

di Stefano Cagliano




Farmaci sicuri.

La sperimentazione come cura

Non so se fosse davvero lo scopo di chi ha avuto l’idea di un titolo del genere.

Queste pagine però richiamano l’attenzione del lettore proprio sull’intervallo temporale prima della vendita dei farmaci, ovvero spiegando – e in modo egregio – quanto si può fare per renderli sicuri. In altre parole, il libro non parla di tutto quanto si muove attorno a questi proiettili magici, ma prevalentemente di quanto è stato fatto sinora per renderli molecole affidabili per la nostra salute.

Forse non è noto a tutti che il mercato dei medicinali nel mondo raggiunge i 2000 miliardi di euro, in Italia quasi 30 miliardi, 2/3 dei quali rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale. E questo suggerisce il cattivo impiego di farmaci utili o le storture nell’offerta.

Ma vediamo com’è organizzato il volume.

Nel 1° capitolo (Introduzione), Silvio Garattini, che dirige ancora oggi l’Istituto Mario Negri da lui fondato nel 1963, presenta in forma irrituale l’argomento. Ovvero propone al profano una sintesi argomentata e articolata. Non trascurando temi di vario genere. Per esempio, a proposito della buona ricerca sui farmaci, cercando di rispondere alla domanda se non dovrebbe essere condotta tenendo presente la centralità del paziente, lo studioso risponde con due ragioni: «La prima è di tipo giuridico. La legislazione europea che stabilisce i criteri generali per l’approvazione di un nuovo farmaco tiene in maggiore considerazione gli interessi del mercato rispetto al benessere degli ammalati e, più in generale, della salute pubblica». «La seconda più importante ragione è di carattere culturale: la scienza, in modo particolare nel nostro Paese, non fa parte della cultura». E aggiunge: «Se un farmaco è efficace non ce lo può dire la letteratura, la filosofia o la giurisprudenza: ce lo può dire solo la scienza attraverso la sua metodologia». (E attraverso i suoi errori, consapevole dei suoi limiti, aggiungo io).

Nel 2° capitolo (Perché sperimentare) Vittorio Bertelé, un farmacologo clinico che lavora presso il Centro per le Politiche Regolatorie del Farmaco del Mario Negri, spiega il significato e l’utilità di considerare la sperimentazione come una cura. Ovvero l’errore di assimilarla a un salto nel buio.

Anche nel 3° capitolo (Quando prestarsi alla sperimentazione) Bertelé ritorna sullo stesso tema. Quali possono essere le sue premesse?, sembra chiedersi. L’incertezza di per sé non basta, risponde l’autore con un titolo. «L’incertezza che ispira e detta la sperimentazione clinica dev’essere reale e autentica…: dev’essere fondata e universalmente riconosciuta» Non dovuta cioè al fatto che un medico non sa cosa fare o come comportarsi nei confronti di un malato.

Con questa premessa logica, per ciò che ne consegue, Bertelé menziona «tre scienziati che hanno insegnato al mondo come si fa la ricerca clinica» (io cito solo Richard Peto, nella speranza di muovere la curiosità di qualche lettore). Dicevano i tre: «Fatti domande importante, rispondi ad esse in modo affidabile».

Nel 4° capitolo (Perché controllare) Bertelé illustra l’argomento causa-effetto. Non si parla solo di farmaci. Partendo da una citazione pregevole di Charles Darwin, l’autore allarga il discorso sulla colpevole distanza della cultura scientifica nella nostra società. E dice che «se la scuola insegnasse il modo corretto per verificare l’esistenza di una relazione di causa ed effetto tra due eventi, nessuno leggerebbe più l’oroscopo». Ma a parte queste considerazioni, credo sia uno dei capitoli meglio riusciti per la quantità d’informazioni che fornisce e per la qualità logica ed espositiva del contenuto.

Nel 5° capitolo (Perché randomizzare) ancora Bertelé esordisce: «Abbiamo detto che non può essere il medico a decidere se somministrare o meno un trattamento sperimentale perché in ogni caso commetterebbe un errore dal punto di vista etico e scientifico. Inoltre il medico va incontro a un potenziale conflitto d’interessi». In conclusione, «la randomizzazione non è il modo più corretto ed equo per distribuire i pazienti nel gruppo di controllo o al trattamento sperimentale, ma è anche il sistema più efficiente per trasformare una popolazione d’individui diversissimi tra loro in due gruppi quanto più possibile uguali».

Il resto del capitolo è altrettanto esplicativo.

Nel 6° capitolo (Quanti pazienti?) ancora Bertelé ed Eliana Rulli, che dirige l’Unità di Statistica del Laboratorio per la Ricerca Clinica al Mario Negri, cercano di spiegare il significato e l’importanza di segni matematici, altrimenti incomprensibili. «Anche se in statistica, come in medicina, non c’è mai certezza: si ragiona solo in termini di probabilità». Così, utilizzando la logica e il segno matematico che la supporta, si riescono a evitare errori, per esempio quelli «di tipo 1 (vedere un effetto che non c’è)» e quelli «di tipo 2 (non vedere un effetto che c’è)».

Nel 7° capitolo (Superiorità e non inferiorità) sempre Bertelé cerca di richiamare l’attenzione sul fatto che «i pazienti meritano sempre e solo il meglio». L’argomento sembra scontato, ma l’autore parla ai non addetti ai lavori, non a chi produce farmaci. Ovvero illustra le numerose nefandezze compiute negli anni, a cominciare dagli studi di non inferiorità sui quali il suo giudizio è lapidario: sono studi che «andrebbero banditi dalla comunità scientifica, impediti dai comitati etici e consapevolmente evitati dai pazienti invitati a parteciparvi».

Nei capitoli 8 (Come valutare l’efficacia) e 9 (Cecità e mascheramento nelle sperimentazioni cliniche) Rita Banzi, responsabile del Centro per le Politiche Regolatorie del Farmaco del Mario Negri, espone quanto sia difficile valutare l’efficacia dei farmaci. Dove si trovino e quanto siano numerose le trappole. Per fortuna, però, anche le risorse informative non mancano. E la Banzi riporta il caso dell’organizzazione Cochrane, nata ormai più di 20 anni fa. Solo pochi numeri: attiva in più di 130 Paesi, raccoglie migliaia di collaboratori non profit, produce e mantiene aggiornate più di 7.000 revisioni sistematiche. In pratica, valuta la qualità di studi clinici e meta-analisi e propone un giudizio sintetico di quanto è stato fatto.

Nel capitolo 10 (Come leggere i risultati di uno studio clinico controllato) Bertelé torna sul campo. Non posso che raccomandare di leggere questo capitolo: è uno di quelli meglio scritti e ciò significa che se provassi ad anticiparne il contenuto la mia esposizione farebbe una magra figura.

Nell’11° capitolo (Etica della sperimentazione) Chiara Gerardi, ricercatrice presso lo stesso Centro per le Politiche Regolatorie del Farmaco, dopo una breve premessa storica, illustra i punti chiave del problema. Non solo cosa si intenda per “consenso informato”, ma anche il significato per categorie sensibili. E poi, il “fraintendimento terapeutico”, tema attuale ancora nel 2009 quando un’indagine dimostrò che «solo nella metà degli studi fu riscontrata un’adeguata comprensione della ricerca». E infine, “l’approvazione del protocollo dello studio”. Conclude la Gerardi: «Solo un protocollo scientificamente corretto può essere considerato eticamente valido e viceversa».

Nel 12° capitolo (Tutti i risultati, buoni o cattivi, subito accessibili), ancora Rita Banzi torna sui contenuti etici della ricerca. È mai possibile – sembra chiedersi – che i risultati di un terzo degli studi della Food and Drug Administration statunitense non abbiano mai visto la luce? Ma questo è solo un esempio dell’oscurità con cui si tenta di nascondere ciò che non dà frutti sul piano commerciale. In questi ultimi anni sono stati fatti dei progressi in materia, ma l’attenzione deve restare alta, considerato che solo negli USA sono attivi 250.000 studi clinici. E la questione allora è un’altra: occorrerebbe puntare alla pubblicazione dei soli dati, non costruendo intorno a essi degli articoli.

Nel capitolo 13 (Il coinvolgimento di cittadini e pazienti per una ricerca clinica condivisa) Paola Mosconi, responsabile del Laboratorio di ricerca sul coinvolgimento dei cittadini in sanità, e Cinzia Colombo, ricercatrice presso lo stesso Laboratorio, sviluppano una splendida esposizione dell’argomento. Sarebbe utile che anche i malati fossero informati e coinvolti nelle indagini che si portano avanti “a loro carico”. Anche stavolta però le associazioni non sono tutte uguali. Ce ne sono alcune che, più che dei malati che dovrebbero rappresentare, tutelano gli interessi di questa o quella industria da cui hanno preso denaro. Non sono ipotesi, ma brutte storie. Le due autrici, in ogni caso, non si limitano a questo e presentano anche soluzioni per sanare la situazione. A partire da quanto ha fatto l’inglese James Lind.