Dalla letteratura

In collaborazione con l’Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
www.associali.it

European Health Report, più politiche lungimiranti per la salute dei giovani

Aumenta l’aspettativa di vita in Europa. Dal 2010 al 2015 i cittadini europei hanno guadagnato un anno di vita passando dai 76,7 ai 77,9 anni. Sono diminuite dell’1,5% le morti premature per le quattro principali malattie non trasmissibili, cioè malattie cardiovascolari e respiratorie, cancro e diabete. Non migliora invece il trend del sovrappeso e dell’obesità che continua a crescere: più della metà degli europei è in sovrappeso e un quarto è obeso. Un’altra nota dolente continua a essere quella del tabagismo, che nella regione europea raggiunge una delle percentuali più alte al mondo: fuma un cittadino europeo su tre di età superiore ai 15 anni. A fronte di un calo generale del consumo di alcol, l’etilismo persiste nella fascia adulta della popolazione. Gli uomini più delle donne tendono a fumare e bere.

È quanto riporta The European ­Health Report 2018: More than numbers - evidence for all1 elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulla base dei dati raccolti nel 2015 per monitorare gli obiettivi di sviluppo sostenibile delineati nel quadro “Salute 2020”. Ricordiamo che il documento era stato sottoscritto nel settembre 2012, in occasione del Comitato Regionale per l’Europa dell’OMS, da 53 paesi della regione europea, ponendosi come traguardo il miglioramento della salute per tutti e la riduzione delle diseguaglianze, attraverso una più efficace leadership e governance per la salute fondate sulla partecipazione. «La maggior parte dei paesi europei ha messo in atto importanti misure per raggiungere gli obiettivi delineati, contribuendo dunque al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo», ha commentato Zsuzsanna Jakab, Direttore generale dell’OMS Europa. «Tuttavia i progressi registrati non sono omogenei, sia tra i paesi sia all’interno di essi, tra uomini e donne, e parimenti tra generazioni. I fattori di rischio innescati da scorretti stili di vita preoccupano e, in assenza di controllo, possono rallentare o addirittura compromettere gli ottimi avanzamenti conseguiti nell’aspettativa di vita».

Uno dei dati allarmanti è quello dell’incremento della prevalenza dei fattori di rischio modificabili nella fascia giovanile. Fra i tredicenni sono in sovrappeso il 23,4% dei ragazzi e il 15% delle ragazze, fumano almeno una sigaretta alla settimana il 4,2% dei ragazzi e il 3,7% delle ragazze. Inoltre, nonostante la copertura vaccinale sia migliorata dall’inizio del secolo, alcuni paesi sono ancora lontani dalla soglia del 95% indicata dall’OMS come necessaria per l’immunità di gregge - ne sono una prova i focolai di morbillo verificatisi in tutta la Regione Europea dell’Oms: 41.000 i casi e 37 i decessi registrati dall’OMS nel primo semestre del 2018, numeri più alti di quelli del 2010. Il numero più alto di infezioni si è registrato in Ucraina con 23.000 casi circa. Da cui la necessità di adottare misure tempestive, diffuse e adeguate al contesto per contrastare la diffusione della malattia.

Anche i dati italiani sugli stili di vita riferiti alla generazione dei giovani sono sconfortanti, per quanto riguarda sia il sovrappeso e il tabagismo sia la copertura vaccinale. Per la prevalenza dell’eccesso ponderale – riporta il Sole 24 ore Sanità2 – l’Italia registra la terza percentuale più bassa dopo Svizzera e Danimarca se si considera la popolazione adulta ma la quarta più alta se si considerano i 15enni maschi. La prevalenza di fumatori è in calo tra gli adulti ma continua a essere stabile tra gli adolescenti con percentuali tra le più alte in Europa: un quindicenne su cinque rientra tra i fumatori regolari. La Ministra della Salute Giulia Grillo ha sottolineato che «gli indici segnalati dall’OMS per l’Italia sono incoraggianti nella popolazione adulta, meno nella fascia giovanile. La nostra attenzione deve spostarsi sulle popolazioni più giovani, in cui si registrano segnali d’allarme non trascurabili».




Se l’Italia da un lato si distingue nelle graduatorie mondiali per quanto riguarda i livelli di salute della popolazione e i guadagni di aspettativa di vita, dall’altro è ancora lontana dal raggiungere gli obiettivi di salute e benessere in riferimento ad alcuni fattori di rischio e ai tassi di copertura/adesione dei programmi di screening e vaccinali. Da parte del governo e delle istituzioni sono necessari ulteriori sforzi per abbassare il tasso di fumo, in modo da ridurre le morti per cancro al polmone e altri decessi correlati al fumo, e per superare le disuguaglianze socioculturali nella prevalenza dell’eccesso ponderale in alcune regioni italiane quali Calabria, Campania e Molise che mostrano tassi superiori al 40% di sovrappeso e obesità tra i bambini. Sforzi che richiedono necessariamente più investimenti.

«Recenti analisi – si legge nel documento approvato dalla Commissione Igiene e sanità del Senato nella seduta dello scorso 10 gennaio a conclusione dell’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) – mostrano come i sistemi sanitari dei paesi OCSE sopportino oneri sempre più rilevanti per il trattamento di malattie causate da comportamenti a rischio, come il fumo, l’abuso di alcol, diete ricche di sale, zuccheri e grassi, scarsa attività fisica, obesità e sovrappeso. Politiche basate su incentivi (o disincentivi) di varia natura rivolti a contenere tali comportamenti e programmi di education, trovano uno spazio sempre maggiore nelle strategie di prevenzione dei paesi sviluppati. La posizione dell’Italia tra gli ultimi posti nella classifica dell’OCSE sulla spesa in prevenzione è stata più volte spiegata dalla modalità di rilevazione del dato ed è stata corretta con il dato che risulta dalle rilevazioni fatte da AGENAS. La spesa in prevenzione dell’Italia risulta pari al 4,2% (comunque al di sotto del livello stabilito del 5%) della spesa sanitaria totale e comunque, se si considera il pro-capite (circa 80 euro), significativamente inferiore alla spesa di alcuni paesi europei come Finlandia, Paesi Bassi, Germania e Svezia che investono dai 157 euro ai 115 euro pro capite».

Gli interventi di prevenzione producono effetti consistenti nel medio-lungo periodo che, oltre a migliorare il livello di salute della popolazione, contribuiscono alla sostenibilità del SSN liberando delle risorse. La messa in atto di interventi mirati ed efficaci sugli stili di vita – fumo, alimentazione e attività fisica – si traduce in una riduzione dell’incidenza delle malattie e delle prestazioni sanitarie e assistenziali e quindi a un miglioramento della qualità di vita e anche dei costi a carico del SSN. Altrettanto l’immunizzazione di massa che, abbinata a efficienti sistemi di sorveglianza, può portare all’eradicazione della malattia infettiva, come si è verificato con il vaiolo.




La prevenzione può essere attuata con interventi mirati agli individui a rischio o alla popolazione generale. La scelta di quale strategia possa garantire i benefici maggiori deve basarsi sulle evidenze disponibili chiamando in causa più ambiti politici, non solo quello sanitario ma anche quelli che riguardano la scolarità, l’alimentazione, l’urbanistica. Per esempio, l’insieme delle politiche avviate nella città di New York, dalla restrizione al fumo all’aumento delle tasse sulle sigarette alla promozione di cibi sani e riduzione di acidi grassi trans, all’incremento delle piste ciclabili stanno portando a una riduzione delle ospedalizzazioni e dei decessi per malattie cardiovascolari. Come sottolinea Marco Geddes da Filicaia, «la prevenzione primaria, strumento fondamentale per migliorare la salute della popolazione e contenere i costi della sanità, non è appannaggio del Ministero della Salute ma deve essere la cifra delle politiche complessive di un paese».

Bibliografia

1. Health in the European region: time to act on the evidence. Lancet 2018; 392: 891.

2. Gobbi B. European Health Report, in Italia allerta giovani, morbillo e spesa privata. Sanità24 - Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2018.

3. Documento conclusivo per l’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale con particolare riferimento alla garanzia dei principi di universalità, solidarietà e di equità. Legislatura 17ª - 12ª Commissione permanente - Resoconto sommario n. 524 del 10/01/2018.

4. Geddes da Filicaia M. La salute sostenibile. Perché possiamo permetterci un Servizio sanitario equo ed efficace. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.

Statine in prevenzione primaria, efficaci anche in età avanzata?

L’invecchiamento della popolazione porta con sé nuove sfide per il futuro dei sistemi sanitari di tutto il mondo, anche nell’ambito della prevenzione cardiovascolare. Infatti, le malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la prima causa di morte a livello globale nonostante prevalenza, incidenza e mortalità siano diminuite nell’ultimo decennio1. Un problema, questo, che riguarda in particolar modo gli over 75, i cui tassi di incidenza e mortalità sono fino a tre volte più alti rispetto a quelli della popolazione generale2. Le evidenze provenienti dai trial clinici e dalle meta-analisi supportano l’utilizzo delle statine in questa fascia di popolazione come prevenzione secondaria3. Mentre gli studi nell’ambito della prevenzione primaria spesso non riportano i dati riguardanti i più anziani4, specie quelli con più di 85 anni affetti da diabete5. Proprio questa lacuna conoscitiva ha spinto un gruppo di ricercatori catalani a indagare la relazione tra una strategia di prevenzione cardiovascolare primaria con statine e la probabilità di andare incontro a patologie cardiovascolari in una popolazione di soggetti – senza evidenze di pregresse patologie cardiovascolari, con o senza diabete – che avevano raggiunto o superato la soglia dei 75 anni. I risultati, pubblicati su The BMJ6, suggeriscono che le statine in prevenzione primaria potrebbero beneficiare solo i pazienti più anziani diabetici con un effetto che si riduce dopo gli 85 anni fino a scomparire dai 90 in poi.




Lo studio ha preso in considerazione numerosi fattori demografici e relativi allo stile di vita (indice di massa corporea, stato di fumatore, assunzione di alcolici, ecc.) e parametri clinici, quali diagnosi, ospedalizzazioni, analisi di laboratorio e prescrizioni mediche. Dei 46.864 soggetti considerati, i cui dati sono stati estratti dal database SIDIAP (Spanish Information System for the Development of Research in Primary Care), 7502 (16%) sono risultati in trattamento con statine e 7880 (16,8%) affetti da diabete di tipo 2. Non è emersa un’associazione tra la terapia con statine e una riduzione degli eventi cardiovascolari di origine aterosclerotica o della mortalità nei pazienti anziani (età compresa tra 74 e 85 anni) o molto anziani (età superiore a 85 anni) non affetti da diabete – nonostante l’incidenza di questi eventi sia risultata significativamente più alta di quella utilizzata nelle linee guida internazionali come soglia per l’avvio di una terapia con statine7-9. Nei pazienti affetti da diabete di tipo 2, invece, il trattamento è risultato associato a una riduzione del 24% dell’incidenza di eventi aterosclerotici e del 16% della mortalità negli individui con età compresa tra 74 e 85 anni, mentre non ha prodotto benefici nel gruppo di soggetti con più di 85 anni.

Quello dell’impiego delle statine in prevenzione primaria è una tema dibattuto e controverso. Le stesse linee guida riportano raccomandazioni spesso incoerenti tra loro. Per esempio, quelle prodotte dal National Institute for Health and Care Excellence (NICE)7 suggeriscono una terapia con statine per la prevenzione primaria fino agli 84 anni di età, quelle dell’American Heart Association (AHA)8 fino a 75 anni di età e quelle dell’European Society of Cardiology (ESC)9 la raccomandano fino a 65 anni. Sia quelle del NICE sia quelle dell’AHA riconoscono infatti che le evidenze relative a individui con più di 75 anni sono limitate, anche se le prime raccomandano una terapia con statine fino a 84 anni sulla base del rischio calcolato mediante QRISK2 CVD risk calculator. Per quanto riguarda i diabetici, invece, le raccomandazioni NICE suggeriscono di somministrare le statine sulla base del rischio cardiovascolare, mentre quelle AHA non richiedono questo passaggio.

Secondo gli autori dello studio catalano, i risultati ottenuti – nonostante debbano essere confermati in trial clinici randomizzati – «mettono in evidenza la necessità di individualizzare il processo decisionale nell’ambito del trattamento con statine in soggetti anziani e molto anziani». Come riportato da Aidan Ryan, Simon Heath e Paul Cook in un editoriale di commento pubblicato sullo stesso numero de The BMJ, «i ricercatori e i pazienti hanno visioni differenti per quanto riguarda l’importanza relativa di morbilità e mortalità»10. Per esempio, le persone con più di 65 anni, a differenza di ricercatori e soggetti più giovani, generalmente danno priorità alla riduzione della probabilità di avere un infarto o un ictus rispetto a quella di andare incontro a morte11. Per questo, un processo decisionale condiviso, basato su una comunicazione medico-paziente efficace, può aiutare a guidare le scelte nell’ambito della prevenzione cardiovascolare.

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Nowbar AN, Howard JP, Finegold JA, Asaria P, Francis DP. 2014 global geographic analysis of mortality from ischaemic heart disease by country, age and income: statistics from World Health Organisation and United Nations. Int J Cardiol 2014; 174: 293-8.

2. Marrugat J, Sala J, Manresa JM, et al.; REGICOR Investigators. Acute myocardial infarction population incidence and in-hospital management factors associated to 28-day case-fatality in the 65 year and older. Eur J Epidemiol 2004; 19: 231-7.

3. Lewis SJ, Moye LA, Sacks FM, et al. Effect of pravastatin on cardiovascular events in older patients with myocardial infarction and cholesterol levels in the average range. Results of the Cholesterol and Recurrent Events (CARE) trial. Ann Intern Med 1998; 129: 681-9.

4. Konrat C, Boutron I, Trinquart L, Auleley GR, Ricordeau P, Ravaud P. Underrepresentation of elderly people in randomised controlled trials. The example of trials of 4 widely prescribed drugs. PLoS One 2012; 7: e33559.

5. Savarese G, Gotto AM Jr, Paolillo S, et al. Benefits of statins in elderly subjects without established cardiovascular disease: a meta-analysis. J Am Coll Cardiol 2013; 62: 2090-9.

6. Ramos R, Comas-Cufi M, Martì-Lluch R, et al. Statins for primary prevention of cardiovascular events and mortality in old and very old adults with and without type 2 diabetes: retrospective cohort study. BMJ 2018; 362: k3359.

7. National Institute for Health and Care Excellence. Cardiovascular disease: risk assessment and reduction, including lipid modification. CG181. London: NICE (UK), 2014.

8. Goff DCJr, Lloyd-Jones DM, Bennett G, et al.; American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. 2013 ACC/AHA guideline on the assessment of cardiovascular risk: a report of the American College of Cardiology/American Heart Association Task Force on Practice Guidelines. Circulation 2014; 129 (25 suppl 2): S49-73.

9. Piepoli MF, Hoes AW, Agewall S, et al.; ESC Scientific Document Group. 2016 European Guidelines on cardiovascular disease prevention in clinical practice: The Sixth Joint Task Force of the European Society of Cardiology and Other Societies on Cardiovascular Disease Prevention in Clinical Practice (constituted by representatives of 10 societies and by invited experts). Developed with the special contribution of the European Association for Cardiovascular Prevention & Rehabilitation (EACPR). Eur Heart J 2016; 37: 2315-81.

10. Ryan A, Heath S, Cook P. Primary prevention with statins for older adults. BMJ 2018; 362: k3685.

11. Gurwitz JH, Go AS, Fortmann SP. Statins for primary prevention in older adults: uncertainty and the need for more evidence. JAMA 2016; 316: 1971-2.

I Premi Ig Nobel 2018: dalle autocolonscopie alle montagne russe

Il sogno di qualsiasi ricercatore, si sa, è vincere il Premio Nobel: l’ambita onorificenza che dal 1901 premia i progetti scientifici (e non solo) che hanno apportato – secondo la volontà del suo inventore Alfred Bernhard Nobel – “i maggiori benefici all’umanità”. Chimica, fisica, medicina, letteratura, pace e, dal 1969, economia sono gli ambiti che ogni anno vengono premiati. Tuttavia, dal 1991 esiste un altro premio, forse meno ambito ma comunque molto interessante, che può essere vinto da chi si occupa di scienza. Si chiama Premio Ig Nobel1 e viene consegnato ai dieci autori delle ricerche scientifiche “più strane, divertenti e persino assurde”. La cerimonia di premiazione dell’edizione 2018 si è tenuta il 13 settembre al Sanders Theatre dell’Harvard University e, come da tradizione, non ha risparmiato le sorprese.

L’obiettivo di questo riconoscimento è quello di valorizzare gli studi che “prima fanno sorridere e poi danno da pensare”. D’altronde, i vincitori non ricevono alcun premio in denaro (a esclusione di una banconota da dieci bilioni di dollari dello Zimbawe, il cui valore al cambio è di circa 40 centesimi di dollari) e devono anche pagarsi il viaggio per raggiungere Harvard in occasione della cerimonia. Oltre alla soddisfazione per essere riusciti a progettare uno studio tanto assurdo da richiamare l’attenzione della giuria, tuttavia, i ricercatori premiati hanno la possibilità di presentare la propria ricerca in sessioni dedicate che si svolgono qualche giorno prima della cerimonia all’MIT di Boston. Inoltre, a consegnare gli Ig Nobel sono spesso i vincitori dei “veri” Premi Nobel.

Tra i vincitori dell’edizione 2018, solo per citare quelli di interesse clinico, un gastroenterologo giapponese che si è aggiudicato l’Ig Nobel per l’educazione sanitaria dopo essersi sottoposto (autonomamente) a una colonscopia da seduto col fine di sensibilizzare la popolazione sull’importanza di questo esame2, o un gruppo di ricerca portoghese che ha dimostrato come, unita a soluzioni alcoliche, la saliva umana costituisca un ottimo detergente per le sculture del XVIII secolo (Ig Nobel per la chimica)3. O ancora, un gruppo internazionale di urologi che si è aggiudicato il premio per la medicina riproduttiva per aver sviluppato un metodo di misurazione delle erezioni notturne che prevede l’utilizzo di una cintura fatta di francobolli4, o l’antropologo inglese James Cole che ha studiato il valore nutrizionale del cannibalismo, scoprendo tra l’altro che la carne umana non è poi così nutriente5.




L’ambitissimo Ig Nobel per la medicina, invece, è stato assegnato a due ricercatori statunitensi che hanno indagato un metodo a dir poco innovativo per accelerare il transito dei calcoli renali. Il loro studio infatti, pubblicato sul Journal of the American Osteopathic Association, ha valutato gli effetti di una corsa sulle montagne russe sul transito dei calcoli renali6. I ricercatori hanno portato dei modelli renali con dei calcoli sospesi in urina sul Big Thunder Mountain Railroad del parco di divertimenti di Disney World di Orlando (Florida) e hanno valutato gli effetti di 60 corse – in termini di volume, localizzazione e passaggio dei calcoli – in relazione alla posizione sul vagone che trasporta i passeggeri della giostra. I risultati hanno dimostrato che l’essere seduti sui sedili posteriori garantisce un 63% di successo terapeutico, rispetto al 17% dei sedili anteriori.

Ricerche che rasentano la comicità, quindi, ma anche interessanti e spesso di valore scientifico rilevante, come dimostra l’autorevolezza di alcune riviste su cui vengono pubblicate e il contesto – la prestigiosa Harvard University – in cui vengono premiate. Probabilmente quando la rivista scientifico-umoristica Annals of Improbable Research istituì il premio nel 1991 non si aspettava di ottenere il seguito che gli Ig Nobel hanno ormai in tutto il mondo. Un successo dimostrato anche da un episodio accaduto nel 1995, quando sir Robert May, consigliere capo per la scienza del governo britannico, chiese che dalle candidature venissero esclusi i ricercatori inglesi, sostenendo che il premio li coprisse di ridicolo. Il risultato, infatti, fu che May venne aspramente criticato dalla stampa e la sua proposta cadde nel vuoto.

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. https://www.improbable.com/ig/

2. Horiuchi A, Nakayama Y. Colonoscopy in the sitting position: lessons learned from self-colonoscopy by using a small-caliber, variable-stiffness colonoscope. Gastrointest Endosc 2006; 63: 119-20.

3. Romão PMS, Alarcão AM, Viana CAN. Human saliva as a cleaning agent for dirty surfaces. Stud Conserv 1990: 35: 153-5.

4. Barry JM, Blank B, Boileau M. Nocturnal penile tumescence monitoring with stamps. Urology 1980: 15: 171-2.

5. Cole J. Assessing the calorific significance of episodes of human cannibalism in the Palaeolithic. Sci Rep 2017; 7: 44707.

6. Mitchell MA, Wartinger DD. Validation of a functional pyelocalyceal renal model for the evaluation of renal calculi passage while riding a roller coaster. J Am Osteopath Assoc 2016; 116: 647-52.

Come faremo i figli nel 2050?

Era il 25 luglio del 1978 quando nel Regno Unito nacque Louise Joy Brown, la prima bambina concepita attraverso una procedura di fecondazione assistita. Da quel momento le tecnologie messe a punto in questo campo sono cresciute moltissimo, così come sono aumentate le probabilità di riuscire ad avere un figlio anche per le coppie con problemi di fertilità. Con questi progressi in mente, la biologa e illustratrice Cara Gormally ha recentemente pubblicato un fumetto in cui cerca di immaginare i modi che saranno utilizzati per avere un figlio nel 20501. Un po’ provocatorio, un po’ ironico e autobiografico, il suo racconto permette di fare un viaggio tra le tecnologie attualmente disponibili e quelle che si trovano ancora in una fase di sviluppo o progettazione.

Perché, come scrive Gormally, avere un figlio non è mai cosa semplice e «anche per restare incinta naturalmente ci vuole fortuna». Per una coppia etero di 29-33 anni e sana da un punto di vista riproduttivo, per esempio, le probabilità di concepimento non superano il 20-25% ogni mese. Circa una coppia su 8, poi, presenta un qualche disturbo della salute riproduttiva: un terzo delle volte a causa della donna, un terzo a causa dell’uomo e nel resto dei casi di entrambi o sconosciuta2. «Il problema dell’infertilità è che non sai che si tratta di un problema finché non ti riguarda», scrive la biologa. In questi casi, quindi, è necessario ricorrere a un qualche tipo di strumento o intervento clinico per raggiungere l’obiettivo della gravidanza.

Ma come saranno queste tecnologie nel 2050? Gormally si concede di rispondere con un po’ di fantasia. Il primo strumento che descrive è quello che viene definito utero artificiale: un sacchetto di plastica, completo di sostanze che riproducono il liquido amniotico e la placenta, utilizzato per aiutare i neonati prematuri a completare lo sviluppo degli organi. Il dispositivo non è ancora impiegabile sugli esseri umani, ma lo scorso anno è stato pubblicato su Nature Communications uno studio di successo su 8 agnellini3. Nel futuro ipotetico di Gormally, quindi, la biologa immagina uteri artificiali agilmente trasportabili – gli “iBaby” –, completi di accessori e disponibili in diversi colori.




Un’altra tecnologia che nel futuro potrebbe favorire il concepimento è la cosiddetta “sperm pump”: un dispositivo innovativo per l’inseminazione intrauterina (IUI) utilizzato soprattutto in caso di problemi di ovulazione o di produzione di spermatozoi. A differenza delle tecnologie IUI standard, con la sperm pump il liquido seminale viene somministrato in un arco di tempo di 4 ore per mimare il naturale processo biologico. «Non sarà molto romantica – scrive Gormally – ma ha la scienza dalla sua parte». Sembra che con questa tecnica, infatti, le probabilità di concepimento raggiungano il 16,9%, rispetto al 7,2% delle tecniche IUI standard4.

Infine, una nuova tecnologia potrebbe permettere alle donne di produrre ovuli anche dopo la fine dell’età fertile. Già dal 2004, presso i laboratori della Northeastern University si studiano modi per ottenere nuove cellule uovo a partire dalle staminali ovariche5, un processo che permette di superare le difficoltà di concepimento legate alla scarsa disponibilità o qualità delle cellule ovariche. Nel 2015, proprio grazie a questa innovativa tecnica di fertilizzazione in vitro, è nato Zain Rajani: il primo bambino concepito da un ovulo ottenuto da una cellula staminale ovarica.

Infine, il progresso scientifico potrebbe rendere realizzabile il sogno di molte coppie omosessuali: concepire un figlio biologico a partire dalle cellule di entrambi i genitori. Questo potrebbe diventare possibile grazie a una procedura che permette di ottenere spermatozoi e ovuli dalle cellule della pelle. Anche se attualmente un risultato del genere è stato ottenuto solo nei topi, è possibile che nel 2050 anche questa ipotesi si trasformi in realtà, con tutte le discussioni etiche del caso6. In conclusione, l’essere umano sembra sempre più in grado di manipolare i meccanismi biologici coinvolti nei processi riproduttivi. Considerati i passi in avanti fatti dal 1978 a oggi, poi, è probabile che nel prossimo futuro si riescano a raggiungere obiettivi per ora ancora impensabili.

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Gormally C. How to get pregnant in 2050. Medium.com, 13 agosto 2018.

2. RESOLVE. National Infertility Association. Get the facts. https://resolve.org/infertility-101/what-is-infertility/fast-facts/

3. Patridge EA, Davey MG, Hornick MA, et al. An extra-uterine system to physiologically support the extreme premature lamb. Nat Commun 2017; 8: 15112.

4. Schorsch M, Gomez R, Hahn T, Hoelscher-Obermaier J, Seufert R, Skala C. Success rate of inseminations dependent on maternal age? An analysis of 4246 insemination cycles. Geburtshilfe Frauenheilkd 2013; 73: 808-11.

5. Normile D. Study suggests a renewable source of eggs and stirs more controversy. Science 2009: 324: 320.

6. Pontin J. Science is getting closer to the end of infertility. Wired, 27 marzo 2018.

Ricerca biomedica e conflitto di interessi. Il caso delle mesh vaginali

Nel 1996 l’ostetrico e ginecologo svedese Ulf Ulmsten realizzò uno studio in cui dimostrò l’efficacia di una procedura che prevedeva la correzione del prolasso genitale attraverso l’impianto di una rete (mesh) per via transvaginale1. I risultati furono eccellenti e permisero di andare oltre la strategia terapeutica utilizzata fino ad allora, la quale prevedeva un intervento di chirurgia addominale estremamente invasivo. Da quel momento in poi, tuttavia, il successo delle mesh vaginali è stato accompagnato da dubbi e questioni irrisolte, riguardanti nello specifico i rapporti (di natura economica) tra Ulmstein e l’azienda che avrebbe poi prodotto il dispositivo. Per questo motivo, The BMJ – da sempre molto sensibile al tema del conflitto di interesse – ha recentemente pubblicato una serie di articoli di approfondimento sul tema2.

«I ricercatori e i medici dovrebbero ricevere denaro dall’industria?», si chiede Fiona Godlee, editor-in-chief della rivista. «La mia risposta è no». Invece, come emerge da un’inchiesta del giornalista Jonathan Gornall, pubblicata sempre su The BMJ, a seguito della pubblicazione del primo studio di Ulmsten sul mesh vaginale (in cui l’84% delle pazienti risultò completamente guarita), l’ostetrico svedese firmò un accordo con l’azienda Ethicon, filiale della multinazionale Johnson & Johnson3. Sembra inoltre che l’accordo economico (“che avrebbe reso Ulmsten un uomo molto ricco”) tra le due parti fosse vincolato all’esito di un secondo studio, più ampio, il quale aveva l’obiettivo di confermare i risultati ottenuti da Ulmsten nel 19964. Di conseguenza, è quanto meno ragionevole dubitare dell’attendibilità dei risultati emersi.

L’aspetto più sorprendente è che, a quanto pare, anche i collaboratori di Ulmsten erano all’oscuro di tale accordo. I dettagli del conflitto di interesse sono infatti emersi solo nel 2014 durante una causa che vedeva contrapposti la Ethicon e la Jonhson & Johnson e Linda Batiste, una paziente che a seguito dell’impianto di mesh vaginale aveva accusato forti dolori dovuti, secondo la tesi dell’accusa, a un difetto di fabbricazione del dispositivo. «Batiste è stata ricompensata con 1,2 milioni di dollari di danni», scrive Gornall. Durante questo processo, tuttavia, sono emersi i termini dell’accordo tra la società Medscand – creata appositamente da Ulmsten e il collega Jan Clarèn – e la Johnson & Johnson. Dopo che il brevetto fu depositato, il 25 febbraio del 1997, il colosso accordò alla Medscand una serie di pagamenti, per un totale di un milione di dollari, destinati a finanziare il secondo trial sul dispositivo.

«Non è chiaro se lo stesso Jan Clarèn fosse a conoscenza dell’accordo», sottolinea Gornall. A prescindere da questo, tuttavia, il secondo studio, pubblicato nel 1998 sull’International Urogynecology Journal, ottenne risultati ancora più sorprendenti del primo: delle 131 pazienti prese in considerazione, il 91% risultò completamente guarito, mentre un ulteriore 7% riportò «miglioramenti significativi»4. In seguito alla pubblicazione di questi risultati, la Johnson & Johnson acquistò da Medscand tutti gli assett relativi al business di mesh vaginali. L’accordo prevedeva un pagamento di 24,5 milioni di dollari. Infine, la società di Ulmsten venne venduta, nel 2001, alla compagnia statunitense Cooper Surgical per 12 milioni di dollari5.

Dal punto di vista della Johnson & Johnson, tuttavia, nel finanziare il secondo studio del gruppo di Ulmsten l’azienda voleva solamente ottenere maggiori evidenze in merito all’efficacia e la sicurezza della procedura e verificare se i risultati ottenuti dal medico svedese fossero replicabili anche in altri centri. Inoltre, secondo le dichiarazioni di una portavoce della multinazionale riportate da Gornall, nessuno dei suddetti centri avrebbe ricevuto alcun tipo di finanziamento. Semplicemente, alla fine del secondo trial, la Johnson & Johnson era soddisfatta dei risultati ottenuti, i quali ponevano questa procedura come «un valore immenso per tutta la comunità medica». Inoltre, si sottolineava la pubblicazione sull’International Urogynecology Journal, «una delle più autorevoli riviste nel campo».

Tuttavia, a corredo dell’articolo la rivista pubblicò un editoriale in cui si sottolineava come in merito allo studio rimanessero molte domande aperte in particolare relative ai criteri diagnostici utilizzati per selezionare i pazienti e al valore dei testi utilizzati per la valutazione post-operatoria6. Ciò nonostante, i due articoli di Ulmsten (in cui non si riportava l’esistenza di un potenziale conflitto di interessi, «in quanto questo tipo di dichiarazione non era richiesta ai tempi») sono stati sufficienti per avviare il successo di una procedura che si è rapidamente diffusa tra i chirurghi di tutto il mondo. Secondo le stime di Gornall, infatti, dal 2000 in poi si sarebbero impiantate più di 3 milioni di mesh vaginali a livello globale.

«A prescindere dai possibili effetti dell’accordo tra Ulmsten e la Johnson & Johnson – spiega il giornalista – è ormai ampiamente accertato che il sostegno di un’industria, per quanto possa definirsi “non condizionante”, influenzi comunque l’outcome di una ricerca». Secondo una review della Cochrane Association, per esempio, gli studi riguardanti farmaci e dispositivi che sono sponsorizzati dall’azienda produttrice hanno probabilità maggiori, rispetto a quelli non sponsorizzati, di ottenere risultati a supporto dell’utilizzo del prodotto oggetto di indagine7. Infine, conclude Gornall, «la nube di sospetto che circonda i fatti del 1997 non si è dissipata in quanto, come emerso dalle varie udienze, alcuni dei documenti relativi al primo periodo della Medscand (inclusi alcuni che un avvocato descrisse come “il nucleo centrale dei dati di Ulmsten”) sono andati distrutti in un incendio verificatosi nel 2009 presso un deposito di Losanna in Svizzera».

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Ulmsten U, Henriksson L, Johnson P, Varhos G. An ambulatory surgical procedure under local anesthesia for treatment of female urinary incontinence. Int Urogynecol J Pelvic Floor Dysfunct 1996; 7: 81-5.

2. Godlee F. What we must learn from mesh. BMJ 2018; 363: k4254.

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