Dalla letteratura

Un articolo uscito il 24 gennaio sul New England Journal of Medicine discute i rischi di esaurimento fisico e psicologico del medico1, portando alla luce argomenti di cui molti professionisti non parlano volentieri, come è stato fatto notare in alcuni commenti su Twitter. Proprio la rete, però, potrebbe offrire delle soluzioni alla solitudine del medico e, più in generale, dell’operatore sanitario che vive la sua professione in ospedale.

Abbiamo chiesto un commento a un medico di area critica, a un’infermiera, a due giovani medici e a un medico esperto di medicina digitale.

La navigazione solitaria del medico

Raccontare è essenzialmente condividere. E chi si incammina lungo la via della medicina presto scopre il potere balsamico della condivisione. Non bisogna fare molta strada tra i corridoi degli ospedali per imbattersi in un coetaneo malato di un tumore inguaribile, o rispecchiarsi in un figlio o una figlia (come te) che piange il proprio genitore; fratelli e sorelle, sposi, amici tutti che si portano addosso la zampata inattesa della malattia. Ti dicono che le risposte sono nascoste nello studio, nella scienza, ma più sfogli quei libri che ti porti sempre appresso, più ti accorgi che non ci sono ricette per la sofferenza, non ci sono formule chimiche per il dolore dell’anima. Parlarne con chi percorre la tua stessa strada forse è l’unico modo per diluire quell’acido che piano piano ti sembra erodere il tuo spirito, la tua volontà, le tue motivazioni. Scoprirsi in biblioteca o in aula a raccontare di quella ragazza che è rimasta paraplegica e poi poco dopo organizzare la serata al cinema o in pizzeria. Perché in fondo la vita, la tua e quella dei tuoi compagni di studio, va avanti, deve essere vissuta. E forse proprio perché siamo stati tutti toccati dall’immensità, allora merita proprio dare significato a ciò che si ha. Carpe diem, è il caso di dire.

Ma non è sempre così. Arriva un giorno, e ti accorgi che è molto tempo che non parli più di quello che vedi e senti e incontri in ospedale. Non sai quando hai smesso di raccontare. Forse quando hai iniziato a lavorare, e non sei più studente in mezzo ad altri studenti, ma un giovane assistente in mezzo a molti medici esperti. Uno che deve far emergere il suo valore e la sua forza, non le sue debolezze, uno che deve ingoiare e non lasciarsi prendere dalla nausea. Poi la famiglia, un marito o una moglie che fanno un altro lavoro, che dormono a casa tutte le notti, sono a casa il sabato e la domenica e si godono le feste comandate, loro no, non capiscono cosa vuol dire. Oppure se fanno il tuo stesso lavoro alla fine è meglio non parlarne, lasciare fuori casa tutte le brutture del mondo. Ritagliarsi un angolo sicuro e pulito dove magari mettere al mondo dei figli e andare avanti. 

E forse questa tecnica funziona. Per un po’, di sicuro. Ma se guardi attentamente, ti accorgi che a forza di ingoiare, e arginare, di rinchiudere e non lasciare uscire, si è creato un vuoto, una voragine di solitudine che non aspetta altro che di raggiungere la superficie e frantumare le fragili pareti del tuo essere. Ed ecco che qualcuno si inventa un sito, o un blog, o una rubrica virtuale, dove è possibile raccontarsi di nuovo, come quando si era studenti, ascoltare e condividere, rispondere, commentare. Finalmente un modo per non sentirsi completamente soli. E ancora meglio quando ti puoi incontrare con i tuoi colleghi senza la divisa dell’ospedale, senza quei colori che talvolta sembrano più ispirare una guerriglia fra bande che non la semplice suddivisione di compiti e competenze.

Questo sono io, senza la paura di sbagliare, o la voglia di primeggiare, o la stanchezza della notte insonne. Sono io, con i miei limiti e i miei difetti, ma anche con le mie qualità e le mie doti.

Sono io, navigatore solitario, in un intreccio di rotte amiche.

Giuseppe Naretto

Servizio di anestesia e rianimazione dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Torino

Fondatore del blog www.nottidiguardia.it




Una medicina per la solitudine

«Nel suono ovattato del silenzio di una notte, tra un’urgenza e un caffè fumante per tenerci svegli; o nel caos del mattino, tra la rincorsa al tempo che manca, il rispondere alle domande preoccupate dei familiari, o il fermarsi su quel volto che ti sorride, con la piena consapevolezza che forse non arriverà a domani; in un giorno di festa, dove la tua famiglia diventa le mura del reparto e i suoi abitanti; nell’ennesimo turno saltato, in quella lite tra colleghi, nelle gambe stanche per il tempo passato in piedi, in quella mano che chiede aiuto, in quell’altra che ti allontana, nell’armadietto che custodisce le chiavi che separano il microcosmo dell’ospedale dalla vita fuori, ma che non riescono a lasciare ripiegate le emozioni, come facilmente si può fare con una candida divisa… in tutto questo c’è l’essenza grave e meravigliosa dell’essere infermieri, curanti tra i curati, stretti in una solidarietà tacita, che accomuna e talvolta separa. E che chiede di essere ascoltata».

Si condensa in poche righe narrate su un social network il vissuto dell’essere curante; una scelta che è, al contempo, dono e fardello, in una dimensione di alterità che sollecita incessantemente emozioni talvolta contrapposte, ma che sempre necessitano di essere toccate e rielaborate.

Il “mestiere” della cura è molto oneroso, in quanto richiede di decentrarsi per dare spazio alle richieste di aiuto di un’altra persona; cura è infatti, nell’accezione heideggeriana del termine, sollecitudine, presenza autentica. Ma presenza autentica significa portare all’altro un noi altrettanto autentico, fatto di pienezza, mai di vuoto. Non possiamo avere interesse per qualcuno se esauriamo o ci viene richiesto di esaurire l’interesse per noi stessi. In sintesi: non possiamo aver cura autenticamente di qualcuno se non coltiviamo la cura per noi stessi. Solo chi è “sano” può infatti offrire il giusto e adeguato aiuto.




Il professionista sano è quello che ha fatto i conti con i propri limiti, le proprie ferite, le proprie malattie, ricordando la metafora del “guaritore ferito”. Accanto all’aspetto demiurgico del sapere e dell’arte, emerge infatti il dolore contenuto nella comune matrice umana, corporea e mortale, che unisce, al di là dei ruoli, curante e paziente. La repressione di uno dei due poli della coppia porterebbe il curante a una soglia pericolosa caratterizzata dalla convinzione di non avere nulla a che fare con la malattia. Un curante senza ferita non può attivare il fattore di guarigione nel paziente e la situazione che si crea è tristemente nota: da un lato sta il curante, sano e forte, dall’altro il paziente, malato e debole. La comprensione di “ciò che passa dentro” quando ci relazioniamo con gli altri, l’accettazione di ogni sentimento, anche quelli più negativi, raffigurano dunque il principio di ogni relazione, poiché se non riconosciamo le nostre fragilità, se non accettiamo e includiamo ogni sentimento che l’altro ci evoca, il grande rischio è di rimuoverli, di non farne esperienza. E in ogni caso, nella professione così come nella vita, quando non affrontiamo ciò che siamo, prima o poi ci viene chiesto conto. E come si manifesta il non lavoro su noi stessi in ambito di relazione con il paziente? Con il rifiuto celato nell’indifferenza, con il distacco, con l’incapacità a reggere la relazione. Ecco che invece riconoscere le nostre fragilità è modo per affrontarle, talvolta restituirle al paziente, ma con autenticità e congruenza. Essere autentici è il primo e grande impegno per poter aiutare l’altro.

Dice, a tal proposito, Eugenio Borgna: «Senza vivere in noi stessi questo tentativo continuo, oscuro, a volte difficile, a volte impossibile, di un’attenzione rivolta permanentemente a cogliere cosa si muove in noi per cercare di cogliere cosa si muove nell’altro, non si può fare psichiatria, non si può fare sociologia, né alcuna umana disciplina che implichi un contatto con l’altro, come l’accompagnarsi per un tratto di strada con qualcuno che chieda aiuto».

Coltivare gli interrogativi che la relazione con l’altro ci pone, avere la possibilità di restituirli e condividerli con i colleghi, operare in un ambiente che accoglie spazi di confronto e in organizzazioni orientate a prendersi cura di chi cura sono alcuni strumenti potentissimi nell’aiutare a coltivare una dimensione di serenità nello svolgimento della funzione curante.

I luoghi della condivisione sono le cucine dei reparti, le salette dello scambio di consegna tra un turno e l’altro, i momenti strutturati di incontro, le aggregazioni extra lavorative, e altresì le nuove tecnologie social, che possono fungere da rinforzo nel creare quello spirito di coesione e appartenenza utile ad allontanare la solitudine che spesso si vive nel quotidiano agire.

Il virtuale, in particolar modo, oggi rappresenta un “non luogo” dove permettere lo sviluppo di un’identità condivisa, dove sentire di poter narrare il sé con libertà, e nel quale ritrovare matrici di esperienze condivise. Un social network attiva reti che avvicinano nel tempo e nello spazio, ma che richiedono di essere utilizzate in modo consapevole, coordinato, altrimenti rischiano di diventare contenitori di emozioni non mediate dalla rielaborazione e per le quali diventa difficile operare un’attribuzione di senso e di crescita interiore.

La mia esperienza personale di utilizzo attivo dei social media, sia nella gestione di gruppi professionali, sia nella conduzione di un profilo Facebook individuale che spesso diventa luogo di narrazioni legate alla cura, mi ha permesso di sperimentare la forza con cui è possibile essere comunità anche tra persone che non si conoscono, unite da un sentire comune che si esplica in una condivisione virtuale ma autentica.

La “connessione” che connette mondi può diventare così una medicina per la solitudine, e contribuire a co-costruire narrazioni di senso da ricondurre nei luoghi di vita di ciascuno, affinché si possa davvero aver cura di chi cura.

Paola Arcadi

Infermiera, Università di Milano

Alla ricerca delle connessioni perdute

Ci sono momenti nella vita professionale di un medico in cui si è soli di fronte al paziente e nessuno può dirci come reagire. Siamo solo noi, la nostra analisi clinica e una domanda che ronza nella testa: “E ora?”.

Da una certa prospettiva, il nostro percorso formativo è una lenta ma progressiva evoluzione verso la solitudine delle proprie scelte. Durante il corso di laurea le difficoltà sono comuni e condivise: si creano reti per lo scambio di appunti, di “sbobine”, di domande d’esame e si studia assieme fino a tarda notte per preparare Anatomia, Patologia e le diverse Cliniche. Anche i tirocini spesso sono organizzati in piccoli gruppi che negli anni fungono da punto di riferimento.

Con l’ingresso nelle scuole di specializzazione cambia tutto. Si viene catapultati nelle attività di reparto con ritmi diversi a quelli a cui ci si era abituati, ma soprattutto con nuovi doveri e nuove autonomie. La rete di supporto non è più costituita da centinaia di compagni di corso, che non sempre si conoscono a fondo, ma dagli specializzandi più anziani, a cui invece spesso e volentieri ci si affida.




Il cerchio si stringe e i legami si rafforzano perché le nostre insicurezze sono le stesse di altri prima di noi. Nel bene o nel male, si sa che esiste una spalla, almeno un po’ più esperta, su cui appoggiarsi per condividere le paure e le fatiche del quotidiano.

Quando infine entriamo nel mondo del lavoro all’improvviso i giochi sono fatti: siamo completamente responsabili del nostro sviluppo professionale e di ciò che facciamo. Certo, continuiamo ad aggiornarci e lavoriamo in team con altri colleghi ma agli occhi altrui abbiamo superato la sottile linea di confine verso la piena responsabilità. Siamo specialisti, con tutto quello che comporta: è scontato che la nostra esperienza ci renda completamente autonomi e sicuri nelle nostre scelte. È davvero così? Siamo realmente preparati ad affrontare la complessità che la professione medica ci pone ogni giorno?

I corsi di laurea sono ancora troppo ancorati a un paradigma nozionistico, in cui la formazione sulle reali competenze, ma soprattutto sulle attitudini relazionali, è episodica ed eterogenea, se non addirittura assente. Nelle scuole di specializzazione la frammentazione aumenta sempre di più anche a causa della mancanza di standard e di programmi condivisi, e il bagaglio formativo dipende da fattori in buona parte aleatori. La possibilità di diventare professionisti autonomi rimane un privilegio di coloro che hanno la fortuna di crescere in Scuole con la esse maiuscola: abissi qualitativi possono separare i percorsi di due specializzandi della medesima disciplina. La conseguenza è un senso di insicurezza e impreparazione davanti alle esigenze dei nostri assistiti.

Un recente commento pubblicato sul New England Journal of Medicine1 racconta proprio della difficoltà di navigare nella solitudine del proprio lavoro e del bisogno di una costante interazione tra colleghi, per evitare l’esaurimento, il burnout e un senso più generale di smarrimento. Come sostiene l’autore, il cardiologo americano Ameya Kulkarni, affrontare queste sfide richiede oggi un approccio innovativo costruito su spazi e nuovi strumenti, che nel loro disegno incentivino la condivisione fra le persone. Un esempio è dato dai social media, che possono essere utilizzati per creare comunità virtuali in cui condividere le proprie esperienze su casi clinici o sulla vita di reparto. Nel pieno della notte, in attesa che il telefono della stanza di guardia squilli, anche un messaggio in un gruppo Facebook permette di alleviare in parte la solitudine: “È successo anche voi? Cosa mi consigliate?”, e magari qualcuno in un altro ospedale e nella stessa situazione risponde. A volte basta anche meno, giusto un meme per superare la noia.

C’è però il rovescio della medaglia di cui dobbiamo essere ben consapevoli, perché le connessioni offerte dai social media sono spesso dei palliativi che rischiano, paradossalmente, di isolarci dal circostante. «Cadiamo facilmente nella fallacia del ritenere che essere sempre connessi ci renderà meno soli – sottolinea la psicologa Sherry Turkle –, in realtà siamo a rischio del contrario». Quando infatti cerchiamo, tra una visita e l’altra, di connetterci con amici e conoscenti tramite Whatsapp, ci aggrappiamo al mondo esterno per sentirci meno soli, negando un’attenzione che invece la realtà attorno ci richiederebbe per poter rafforzare le nostre connessioni con chi abbiamo di fianco.

Per superare le distanze coperte solo in parte dagli smartphone, la strada suggerita dall’esperienza di Kulkarni è quella di recuperare il senso della condivisione tra persone, tra professionisti, sia per imparare a conoscersi al di là del quotidiano, sia per lasciare che temi cruciali, naturali ma troppo spesso ignorati, come la compassione, la paura e la perdita, ci attraversino in quegli spazi: esperienze quotidiane che per percorso di formazione siamo portati a scotomizzare.

Quello che l’articolo descrive, in ultima analisi, è il bisogno profondo di confrontarsi senza timori con l’insicurezza e la solitudine che inevitabilmente tutti noi viviamo, esseri umani e professionisti della salute, specializzandi e primari, chirurghi che affrontano scelte dolorose in sala operatoria e direttori generali che si caricano sulle spalle gravose responsabilità.

Nei medici il calo di empatia sembra essere il prezzo da pagare per prendere decisioni difficili ogni giorno. Nonostante questo fenomeno di progressivo distacco nei confronti dei pazienti sia documentato a livello mondiale già dal terzo anno del corso di laurea e nonostante il progressivo aumentare dei carichi di lavoro e le fredde logiche di efficientamento che viviamo, non possiamo e non dobbiamo permettere che «fare il dottore sia soltanto un mestiere»2,3. Per invertire la rotta, oltre ad agire a monte sul funzionamento dell’intera organizzazione sanitaria, riconoscendone le interdipendenze con gli altri settori, bisogna iniziare a preparare sin da subito le prossime generazioni di medici alla cooperazione, alla condivisione e al confronto, così che il rapporto non sia più solo medico-paziente, ma tra professionisti al servizio del paziente. Perché, è vero, ci sono momenti nella vita professionale di un medico in cui si è soli, e nessuno può dirci come reagire, ma le università, i corsi e le scuole di specializzazione hanno il dovere di fornire gli strumenti adeguati per riconoscerli ad affrontarli, sia come singoli sia come collettività professionale.

Oltre a sperare di trovare un po’ di conforto sui social, dobbiamo dunque ripensare radicalmente il percorso formativo del medico per renderlo all’altezza di questo compito. Per ogni lezione sull’ECG, un laboratorio per la gestione dei gruppi; per ogni malattia spiegata, il racconto personale di un paziente che ci convive; per ogni manovra chirurgica, il punto di vista di altri colleghi; per ogni ora di esame obiettivo, uno spazio su come riconoscere e gestire le proprie emozioni; per ogni seminario di medicina legale, un corso su come identificare e affrontare il burnout: queste potrebbero essere le chiavi di volta per recuperare le connessioni perdute.

Si tratta di una sfida non più rimandabile per rimettere al centro della medicina la nostra umanità, con tutte le nostre forze e soprattutto tutte le nostre debolezze.

Stefano Guicciardi1, Mirko Claus2

1Scuola di Specializzazione in Igiene
e Medicina Preventiva, Università di Bologna

2Scuola di Specializzazione in Igiene
e Medicina Preventiva, Università di Padova

1,2FederSpecializzandi - Associazione Nazionale dei Medici in Formazione Specialistica

Una tecnologia per l’uomo

Burnout. Quando vorresti urlare ma gli altri non capirebbero perché. Pochi minuti per parlare con il paziente e almeno il triplo da spendere faccia a faccia con il computer per completare le procedure amministrative e compilare la cartella clinica elettronica. Un sacco di tempo dedicato alle e-mail che attendono risposta. Il silenzio “perché è meglio che faccio da solo”. Tra poco, anche per noi, perfino la telemedicina e la realtà virtuale, ulteriori possibili barriere invisibili per le relazioni umane. Davvero ci dobbiamo rassegnare a questo? Neanche per sogno! Alcuni rimedi alla crescente solitudine del medico proposti da Kulkarni nel suo articolo1, però, sembrano pannicelli caldi. Organizzare eventi per il gruppo di lavoro, sport, cucina, appuntamenti periodici, addirittura sedute per condividere le emozioni provate nel corso dell’attività clinica… quasi come se fosse una riunione per alcolisti anonimi. E invece no.

Noi vogliamo una tecnologia per l’uomo, non contro l’uomo. Sosteniamo l’idea che l’intelligenza artificiale serva come alleata, non per sostituire il professionista. Vogliamo una tecnologia a sostegno della collaborazione, del lavoro di gruppo, sociale. È l’innovazione che deve trovare la soluzione alla pressione insopportabile e alla sensazione di affogare quando non c’è tempo o non c’è qualcuno con cui condividere. L’anima e i sentimenti non possono certo seguire un algoritmo, ma alcuni strumenti possono tornare utili. Parliamo del tempo, quello che non basta mai. Possiamo immaginare sistemi che rendano più fluidi i processi del nostro lavoro. C’è già un furibondo dibattito sulle conseguenze negative dell’adozione della cartella clinica elettronica. Se quest’ultima consente, almeno in principio, di convertire i dati che ci passano tra le mani in maggiore conoscenza, in qualcosa di utile, siamo ormai al punto in cui la tecnologia si deve concentrare sulla sua semplificazione d’uso. L’attenzione verso l’interazione uomo-macchina è la prossima frontiera dell’innovazione perché, invece di diventare separatrice, la tecnologia diventi semplificatrice. Non è strano pensare che il tempo impegnato a fare cose stupide, ripetitive, possa essere affidato a strumenti tecnologici. Lo spazio liberato sarà utile per fare cose importantissime: coltivare la relazione umana con il paziente e con i nostri simili, compreso il nostro gruppo di lavoro. Su questo punto potremmo andare ben oltre l’applicazione delle tecnologie e verso la considerazione di modelli organizzativi più moderni.

L’altro tema è il miglioramento della comunicazione. Abbiamo già sviluppato comportamenti ossessivi nei confronti delle interazioni attraverso i social network e WhatsApp. Sembra che una proporzione intorno al 90% dei medici ammetta di comunicare regolarmente con i pazienti attraverso questa machiavellica applicazione che ha generato una nuova patologia che attende solo di essere classificata: l’ansia da attesa della risposta. In sostanza, di mezzi tecnologici per facilitare la comunicazione ne abbiamo in abbondanza. Somiglia un po’ al passaggio culturale che abbiamo subito all’introduzione della telefonia mobile. Ma il testo scritto e le emoticon non hanno le stesse sfumature che può avere la voce (probabile motivo alla base dell’impennata di messaggi vocali) e tanto meno la relazione umana in persona. Quindi tocca a noi rivalutare questi strumenti e usarli non “al posto” della comunicazione in persona ma “insieme” a essa, sfruttarne le caratteristiche di rapidità e di sintesi, ma privilegiare l’incontro fisico. E infine la condivisione. Se c’è una cosa facile da fare attraverso la tecnologia è proprio questa. E i social network hanno alimentato questo istinto al punto che è possibile perfino usarli per tracciare un profilo digitale degli individui. Concordo con Kulkarni1 che da questo punto di vista gli strumenti a disposizione sono potentissimi perché la comunicazione può essere estesa a piacimento, da piccoli gruppi fino a comunità internazionali, tutto in tempo reale. Non solo, molte esperienze già consolidate ci dicono che si può anche osare di più: costruire comunità online dove ci sono sia i professionisti della salute sia i pazienti. E si può parlare di tutto. È una storia che si ripete, come quando da ragazzi si usava un ricetrasmettitore radio per chiacchierare tra sconosciuti, a notte fonda, e si accendevano discussioni sugli argomenti più disparati e si facevano confidenze segretissime.

Ma la vita del medico sarebbe misera se ci fermassimo alla tecnologia. Quindi sarà bene che ravviviamo, se ce ne fosse bisogno, le nostre caratteristiche di animali sociali. Un collante formidabile per le persone che lavorano insieme è la condivisione di obiettivi grandiosi. E non c’è dubbio che il processo di cura del paziente sia uno di essi, qualunque sia l’esito. Nonostante esistano in qualunque gruppo di lavoro rapporti difficili e motivi di divergenza, noi siamo creature positive. Noi, con una cultura diversa da quella dei colleghi di Kulkarni, resistiamo di più alla solitudine, facciamo amicizia più facilmente con gli altri. E anche se il problema esiste, dobbiamo esaltare l’attitudine sociale. Ma non credo alle strategie per aumentare la socializzazione, come le feste organizzate solo a questo scopo. Credo alle relazioni vere, quelle che nascono ovunque, anche in modo inaspettato. Anche se la pressione, la responsabilità e la tecnologia congiurano contro di noi, la vita di relazione è nel nostro DNA. E le cose che si fanno con i nostri cari, gli amici, e anche con i colleghi, quelle importanti e quelle stupide, fanno parte della vita di tutti, senza regole di quantità o copioni predeterminati.

Alberto Tozzi

Responsabile della struttura Innovazione
e percorsi clinici,

IRCCS Ospedale pediatrico Bambino Gesù

Bibliografia

1. Kulkarni A. Navigating loneliness in the era of virtual care. N Enlg J Med 2019; 380: 307-9.

2. Wilkes M, Milgrom E, Hoffman JR. Towards more empathic medical students: a medical student hospitalization experience. Med Educ 2002; 36: 528-33.

3. Chen DC, Kirshenbaum DS, Yan J, Kirshenbaum E, Aseltine RH. Characterizing changes in student empathy throughout medical school. Med Teach 2012; 34: 305-11.