Dalla letteratura

TAT Honorary award for cancer drug development

Il TAT Honorary award for cancer drug development 2019 è stato assegnato a Geoffrey Shapiro della Harvard medical school e del Dana-Farber cancer institute (DFCI). L’ambita onorificenza è stata consegnata a Shapiro durante l’International congress on Targeted anticancer therapies (TAT) 2019, svolto a Parigi dal 25 al 27 febbraio. Il TAT Honorary award è stato istituito nei primi anni novanta per riconoscere il lavoro dei ricercatori più esperti nel campo dello sviluppo di farmaci oncologici. Geoffrey Shapiro ha guidato per anni l’Early drug development center del DFCI, ed è stato direttore clinico del DFCI Center for DNA damage and repair, nonché condirettore del Developmental therapeutics programme al Dana-Farber/Harvard cancer center (DF/HCC). Il suo lavoro nello sviluppo degli inibitori di CDK e dei PARP inibitori è stato decisivo, ma ha condotto importanti ricerche anche sugli anti-angiogenici. Attualmente il team di Shapiro è al lavoro sulla combinazione palbociclib + PD-0325901.

Saputo dell’assegnazione del premio, Shapiro ha dichiarato: “Da tanti anni l’International congress on Targeted anticancer therapies rappresenta un palcoscenico di importanza decisiva per la presentazione di ricerche traslazionali e dei dati sullo sviluppo dei farmaci. Non c’è altro appuntamento congressuale in cui i ricercatori coinvolti in questo campo possono trovare una comunità di colleghi di livello internazionale così compatta e ricca. È quindi un immenso onore per me essere stato scelto dai miei colleghi per il TAT Honorary award di quest’anno. Sono molto fiero di questo riconoscimento e tremendamente grato”. Giuseppe Curigliano, Chair dell’ESMO Nomination Committee, ha sottolineato come Geoffrey Shapiro abbia dedicato la propria carriera allo sviluppo di terapie oncologiche efficaci. “Il suo lavoro ha rappresentato un fattore chiave nello sviluppo di tanti farmaci e quindi è un grande piacere per ESMO proporlo per il TAT 2019 Honorary award”.

David Frati

Calciatori a rischio

“La vita è come il calcio, non sai come andrà a finire”: sono le parole di Krzysztof Damian Nowak, calciatore polacco, morto di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) all’età di trent’anni. Come lui altri giocatori di calcio professionisti sono stati colpiti da questa malattia rara dei neuromotori che, purtroppo, non lascia speranza. Solo per fare alcuni nomi: Narciso Soldan, portiere all’Inter, al Toro e al Milan, vincitore di due scudetti con i rossoneri. Il difensore Gianluca Signorini, simbolo del Genoa: dopo la sua morte il club genoano ha ritirato la sua maglia, la numero 6. E, più recentemente, l’attaccante Stefano Borgonovo, morto sei anni fa. Nel 2008 aveva fondato la Fondazione Stefano Borgonovo Onlus per sostenere la ricerca sulla SLA. In quello stesso anno, su una sedia a rotelle, entrò allo stadio della Fiorentina davanti a 27.000 spettatori.

Una ricerca italiana pubblicata sugli Annali dell’Istituto superiore di sanità1 aveva individuato un certo numero di calciatori italiani affetti di SLA che avevano ricevuto una diagnosi anticipata rispetto agli altri pazienti con SLA europei, da cui una possibile relazione tra il gioco del calcio e la diagnosi di SLA. Un risultato del tutto in linea con altri studi epidemiologici che trovano oggi un’ulteriore conferma in una ricerca dell’Istituto Mario Negri di Milano, non ancora pubblicata, che verrà presentata a maggio al meeting annuale dell’American Academy of Neurology. I risultati comunicati in anteprima precisano che rispetto alla popolazione generale i giocatori di calcio hanno quasi il doppio della probabilità di sviluppare la SLA e si ammalano circa vent’anni prima. Usando come fonte gli album delle figurine Panini i ricercatori del Mario Negri hanno preso in esame la totalità di calciatori che hanno giocato in Italia dal 1959 al 2000. Dalla lettura dei notiziari del calcio hanno individuato nel complesso 33 giocatori di calcio con SLA, a fronte dei 17,6 casi attesi sulla base dell’incidenza della malattia nella popolazione maschile. Inoltre, hanno calcolato un’età media per la diagnosi tra i giocatori di calcio di 43,3 anni, rispetto ai 62,5 anni della popolazione generale.




“La malattia può comparire in un’età più precoce come risultato di una predisposizione genetica combinata a fattori ambientali, ancora non ben definiti, e, tra questi, i ripetuti eventi traumatici”, commenta il ricercatore Ettore Beghi, autore dello studio del Mario Negri. Sul perché i calciatori presentino un rischio maggiore di ammalarsi di SLA ci sono diverse ipotesi. In una dichiarazione rilasciata a Medscape, Beghi spiega che potrebbe esserci per esempio un rapporto con i traumi cranici ripetuti (anche se i meccanismi sono sconosciuti), oppure un’associazione tra SLA ed esercizio fisico intenso e tra SLA e l’uso di agenti antinfiammatori non steroidei e integratori alimentari (compresi gli amminoacidi a catena ramificata) molto diffusi tra gli atleti professionisti. Questi fattori – sottolinea nuovamente Beghi – potrebbero giocare un ruolo nelle persone che sono già geneticamente predisposte. Ma sono solo ipotesi: per ora nessuna certezza.

Se ci fossero a disposizione campioni biologici o DNA dei giocatori di calcio si potrebbe completare lo studio, esplorando la predisposizione genetica associata a uno o più possibili fattori scatenanti, come per esempio l’eccessivo esercizio fisico o l’esposizione a composti chimici quali i fertilizzanti usati nei campi di calcio. A sostegno di questa tesi, Stephen Goutman, direttore della Multidisciplinary ALS Clinic, e professore associato di neurologia presso la University of Michigan, commenta che i militari delle forze armate statunitensi sembrano avere un rischio di SLA, probabilmente a causa dell’attività fisica richiesta o del trauma cranico o delle sostanze chimiche a cui potrebbero essere stati esposti in combattimento.

Altre categorie di sportivi professionisti, come i giocatori di football americano, hanno una maggiore incidenza di malattie neurodegenerative in generale e in particolare di SLA. Tuttavia i numeri vanno ridimensionati per non sollevare panico. La SLA è comunque una malattia rara. “A livello assoluto il rischio resta basso, se normalmente ci sono due casi ogni 100mila abitanti fra quelli che fanno attività intensa saranno 2,2 al massimo”, fa notare Beghi. “La SLA resta quindi un evento molto raro”. E resta ancora molto da studiare per spiegare questa associazione e per capire se ci sono margini di intervento per prevenire lo sviluppo di questa malattia.

Bibliografia

1. Vanacore N, Barbariol P, Caffari B, Lacorte E, Bacigalupo I, Spila Alegiani S. Amyotrophic Lateral Sclerosis and soccer: an internet survey of 29 Italian players. Ann Ist Super Sanita 2018; 54: 364-9.




Prediabete: la via per trasformare i sani in malati?

“Abbiamo una combinazione di due forze. Da una parte si amplia la definizione della malattia in modo da poter classificare più persone come malate e bisognose di un trattamento, dall’altra si supportano interventi per cui [gli autori delle linee guida] presentano dei conflitti di interesse”. Così John Ioannidis, esperto di evidence-based medicine della Stanford University di Palo Alto (California), ha commentato l’atteggiamento dell’American Diabetes Association (ADA) nei confronti del prediabete, condizione in cui i livelli di glucosio nel sangue sono superiori alla norma e che si suppone essere predittiva dello sviluppo di diabete di tipo 2. Da quanto emerge da un’inchiesta pubblicata dalla rivista Science, la decisione dell’associazione dei diabetologi americani di promuovere trattamenti preventivi nelle persone che manifestano questa condizione potrebbe essere guidata principalmente da interessi economici1.

La scelta di considerare un innalzamento dei livelli di glucosio nel sangue come indicativo di un esordio diabetico ha infatti delle conseguenze rilevanti. Solo decidendo di abbassare il livello soglia di emoglobina glicata nel sangue da 6,1% a 5,7%, l’ADA ha infatti ampliato la platea dei potenziali pazienti diabetici statunitensi di 72 milioni di unità, i quali, in proiezione, potrebbero diventare centinaia di milioni a livello mondiale. Tutte persone che – nonostante le evidenze contrastanti circa un reale collegamento tra prediabete e diabete – sono costrette ad andare incontro a trattamenti e visite mediche e, non da ultimo, a convivere con la preoccupazione di sviluppare il diabete. Le stesse ragioni per cui, dal lato opposto, il concetto di prediabete rappresenta una gallina dalle uova d’oro per ospedali, medici, aziende farmaceutiche, laboratori e industrie produttrici di test e dispositivi.

Era il 2001 quando il capo delle relazioni esterne dell’ADA contattò Richard Kahn, allora direttore scientifico della società scientifica, chiedendogli di aiutarlo a convincere medici e pazienti della pericolosità – in termini di probabilità di sviluppare un diabete di tipo 2 – di un innalzamento dei livelli di glucosio nel sangue. La difficoltà principale in questa missione era legata alla terminologia “ridotta tolleranza al glucosio” utilizzata per descrivere la condizione, troppo poco inquietante per lanciare un allarme credibile. Così, dopo aver radunato gli esperti dell’ADA e di comune accordo con Ann Albright, responsabile dell’unità di prevenzione del diabete dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), e gli altri vertici decisero di denominare i casi di innalzamento dei livelli di glucosio come “prediabete”, termine che esplicita il collegamento con il diabete e quindi con il rischio di andare incontro ad amputazioni, cecità e attacchi di cuore.

Decisero poi di dichiarare guerra al prediabete, sostenendo che una percentuale compresa tra il 15% e il 30% delle persone incluse in questa categoria diagnostica progredisce, se non trattata adeguatamente, verso un diabete di tipo 2. L’attuale definizione della condizione risale al 2009, quando l’ADA, insieme alla European Association for the Study of Diabetes (EASD) e all’International Diabetes Federation (IDF), decise di convocare una commissione di esperti per valutare le evidenze relative a un test che misura i livelli di emoglobina glicata nel sangue, indicativi dei livelli medi di glucosio relativi agli ultimi tre mesi. La commissione in questione stabilì che valori pari o superiori al 6% dovevano essere presi in considerazione per interventi preventivi ma rifiutò la definizione di prediabete, sostenendo la mancanza di un nesso certo tra prediabete e diabete. Ciononostante l’ADA si mosse in direzione contraria: abbassò il livello soglia da 6,1% a 5,7% e stabilì un collegamento chiaro tra le due condizioni.

Sia l’EASD che l’ISD rifiutarono questo abbassamento. Come loro, altre istituzioni (tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità) e diversi ricercatori sono scettici nei confronti della definizione di ADA e dei CDC. I dubbi sono principalmente due: quanto spesso il prediabete progredisce in diabete? La condizione di prediabete, di per sé, causa danni? Ad esempio, una revisione sistematica del 2018 realizzata dalla Cochrane Library di Londra su 103 studi ha dimostrato che molti dei soggetti classificati come prediabetici non sviluppano mai un diabete e che le ricerche svolte in quest’ambito hanno spesso trascurato fattori di rischio fondamentali quali il peso, l’età e il livello di attività fisica2.

Al contrario, per giustificare le necessità di trattamenti aggressivi, ADA e CDC riportano spesso i dati del trial clinico DPPOS (Diabetes Prevention Program Outcomes Study), da cui era emersa una percentuale minore di progressioni da prediabete a diabete nei due gruppi sottoposti a interventi di prevenzione (dieta sana più esercizio atletico o terapia a base di metformina) rispetto al gruppo di controllo (rispettivamente 5,3%, 6,4% e 7,8%)3. Tuttavia molti ricercatori hanno messo in evidenza alcune limitazioni metodologiche dello studio e criticato le interpretazioni degli autori. In molti, infine, sospettano che il comportamento dell’ADA nei confronti del prediabete sia guidato soprattutto da motivi economici.

La definizione di prediabete ha infatti innescato dei cambiamenti importanti nel panorama medico statunitense. Solo per fare un esempio, il budget dei CDC dedicato alla prevenzione del diabete è passato dai 66 ai 173 milioni di dollari dal 2010 al 2017. Inoltre, secondo ClinicalTrials.gov, negli Stati Uniti ci sono attualmente più di 100 tra farmaci e supplementi in fase di sperimentazione per il trattamento preventivo del diabete. Molte aziende hanno poi fatto pressioni sulla Food and Drug Administration (FDA) col fine di ottenere l’approvazione di altri integratori alimentari e rimedi vari destinati ai prediabetici. Infine, nell’inchiesta di Science si sostiene che 7 dei 14 esperti che hanno lavorato alle linee guida ADA avrebbero ricevuto, tra il 2013 e il 2017, compensi che vanno dai 41.000 ai 6,8 milioni di dollari da parte di industrie produttrici di farmaci in fase di sperimentazione per questa condizione.




Qual è, quindi, il vero obiettivo di ampliare una categoria diagnostica al punto da interessare milioni di persone: ridurre in futuro il numero di diagnosi di diabete di tipo 2 o aumentare adesso il numero di potenziali clienti? Non bisogna dimenticare che le persone che ricevono una diagnosi di prediabete vanno incontro a un onere significativo in termini sia psicologici che economici, oltre a essere esposti ai potenziali eventi avversi delle terapie. Ma in questa storia i benefici per i pazienti sembrano venire dopo gli interessi economici delle varie parti in gioco. La pensa così anche Victor Montori, diabetologo della Mayo Clinic di Rochester (Minnesota): “Si può e si deve fare prevenzione per il diabete, ma dovremmo evitare di trasformare ogni persona sana in un paziente”.

Bibliografia

1. Piller C. The war on ‘prediabetes’ could be a boon for pharma, but is it good medicine? Science 2019, 7 marzo 2019.

2. Richter B, Hemmingsen B, Metzendorf M, Takwoingi Y. Development of type 2 diabetes mellitus in people with intermediate hyperglycaemia. Cochrane Database Syst Rev 2018; 10: CD012661.

3. Diabetes Prevention Program Research Group. 10-year follow-up of diabetes incidence and weight loss in the Diabetes Prevention Program Outcomes Study. Lancet 2009; 374: P1677-86.

Fabio Ambrosino

Marketing farmaceutico e consumo di oppioidi

Negli Stati Uniti le morti causate da overdose da oppioidi rappresentano una vera e propria emergenza sociale1. Anche se molti casi sono legati all’abuso di sostanze illecite, l’eroina e il fentanil, non di rado questi decessi sono causati da antidolorifici a base di oppiacei prescritti regolarmente che, inoltre, molto spesso rappresentano il primo contatto con questa classe di sostanze che creano una forte dipendenza; si stima che gli oppioidi prescritti dai medici siano coinvolti nel 40% dei casi di overdose2,3. Per questo motivo, negli ultimi tempi media e ricercatori si stanno interrogando su una possibile responsabilità delle attività di marketing farmaceutico dirette agli operatori sanitari: i pagamenti e i benefit legati alla promozione di questi farmaci inducono i medici a prescriverne di più? E questa tendenza si riflette in un numero maggiore di decessi per overdose? Secondo uno studio statunitense, relativo al periodo compreso tra il 2013 e il 2015, in media un medico su 12 è oggetto di marketing farmaceutico riguardante gli oppioidi, rapporto che sale a un clinico su 5 nell’ambito dei medici di famiglia4. Per indagare se e in quale misura il marketing sia associato al tasso di prescrizione di questi farmaci e questo, a sua volta, alle morti per overdose, un gruppo statunitense di ricercatori spiega sul JAMA Network open di avere preso in esame i dati provenienti da tre database nazionali5.




Il primo database, estrapolato dai Wide-ranging online data for epidemiological research restricted-use mortality files dei Centers for disease control and prevention, riguardava le morti per overdose da oppioidi sul territorio statunitense; il secondo, l’Open payments database dei Centers for medicare & medicaid services, includeva tutti i pagamenti effettuati dalle aziende farmaceutiche ai medici per finalità di marketing riguardante gli oppioidi; il terzo, infine, fornito dal National center for injury prevention and control, includeva i tassi di prescrizioni di farmaci oppioidi dispensati al dettaglio dalle farmacie.

Ne è emerso che i tassi di decessi per overdose più elevati riguardavano proprio gli stati dove il marketing sugli oppioidi era maggiore. I tassi di prescrizione sono risultati fortemente associati alle attività promozionali delle aziende farmaceutiche indirizzate ai medici e, inoltre, in grado di spiegare parzialmente le morti per overdose da oppioidi. “Questi risultati – scrivono gli autori – tengono conto di diverse misure del marketing farmaceutico, inclusi l’ammontare di denaro ricevuto dai medici, il numero di pagamenti effettuati per ogni medico e il numero di clinici che ha ricevuto questo tipo di pagamenti”.

Queste nuove evidenze si aggiungono a quelle di altri studi che negli ultimi anni hanno suggerito un legame tra il marketing relativo a prodotti specifici e un maggiore tasso di prescrizione dei prodotti stessi6,7. “Anche se è possibile che si tratti di causalità inversa, con le case farmaceutiche che svolgono attività promozionali principalmente nelle aree caratterizzata da un’elevata mortalità per overdose da oppioidi, è comunque preoccupante che in quelle zone i medici ricevano ulteriori pagamenti”, sottolineano gli autori. Infatti, le industrie investono decine di milioni di dollari all’anno per attività di marketing dirette ai medici per la promozione dei farmaci a base di oppioidi – ed è presumibile pensare che non lo farebbero se questo non garantisse loro un aumento o almeno il mantenimento delle prescrizioni.

In conclusione, nonostante l’emergenza delle morti per overdose da oppioidi sia legata principalmente a un aumento dell’uso di eroina e di fentanil prodotto illegalmente, il tasso di prescrizioni di oppioidi negli Stati Uniti rimane di gran lunga superiore rispetto alle altre economie avanzate e molte persone continuano a entrare in contatto in questo modo con questo genere di sostanze. “I nostri risultati – concludono i ricercatori sul JAMA Network open – suggeriscono che il marketing farmaceutico diretto ai medici potrebbe essere d’ostacolo agli sforzi messi in atto a livello nazionale per ridurre le prescrizioni di oppioidi e che i politici dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di limitare queste attività, nell’ottica di un intervento robusto e basato sulle evidenze contro l’emergenza overdose”.

Bibliografia

1. Seth P, Scholl L, Rudd RA, Bacon S. Overdose deaths involving opioids, cocaine, and psychostimulants – United States, 2015-2016. MMWR Morb Mortal Wkly Rep 2018; 67: 349-58.

2. Seth P, Rudd RA, Noonan RK, Haegerich TM. Quantifying the epidemic of prescription opioid overdose deaths. Am J Public Health 2018; 108: 500-2.

3. Cicero TJ, Ellis MS, Kasper ZA. Increased use of heroin as an initiating opioid abuse. Addict Behav 2017; 74: 63-6.

4. Hadland SE, Krieger MS, Marshall BDL. Industry payments to physicians for opioid products, 2013-2015. Am J Public Health 2017; 107: 1493-5.

5. Hadland SE, Rivera-Aguirre A, Marshall BDL, Cerdà M. Association of pharmaceutical industry marketing of opioid products with mortality from opioid-related overdoses. JAMA Network Open 2019; 2: e186007.

6. DeJong C, Aguilar T, Tseng CW, et al. Pharmaceutical industry-sponsored meals and physician prescribing patterns for Medicare beneficiaries. JAMA Internal Medicine 2016; 176: 1114-22.

7. Yeh JS, Franklin JM, Avorn J, Landon J, Kesselheim AS. Association of industry payments to physicians with the prescribing of brand-name statins in Massachusetts. JAMA Inter Med 2016; 176: 763-8.

Fabio Ambrosino

Le notizie pubblicate in queste pagine sono state realizzate dalla redazione del Pensiero Scientifico Editore in collaborazione con Torino Medica, organo ufficiale dell’Ordine dei medici, chirurghi e odontoiatri della Provincia di Torino