Dalla letteratura

Firme femminili: aumentano, ma c’è ancora da fare

Che le donne siano sottorappresentate nella medicina accademica, specialmente nei ruoli apicali, è cosa nota. Uno studio ha valutato la presenza di donne tra gli autori di articoli di riviste mediche, una delle principali condizioni del successo accademico1.

Lo studio ha analizzato la presenza di autrici nei periodici di nove specialità mediche (pediatria, radiologia, anestesiologia, ostetricia e ginecologia, neurologia, medicina generale, dermatologia, psichiatria e oncologia) selezionando gli articoli originali pubblicati tra il 1 gennaio 2008 e il 1 agosto 2018 nelle 15 riviste specializzate con il più alto fattore di impatto. Per maggiore completezza sono state incluse anche quattro riviste di medicina generale: New England Journal of Medicine, Journal of the American Medical Association, British Medical Journal e The Lancet.

Considerati i 274.764 articoli analizzati, la proporzione di donne tra gli autori è aumentata del 4,2%, il numero dei primi autori donne è cresciuto del 3,6% e gli ultimi autori donne sono aumentati del 7,8% dal 2008 al 2018. Ostetricia e ginecologia hanno mostrato il maggior aumento nella proporzione di donne come primi e ultimi autori. Interessante l’associazione significativa tra più alto impact factor e presenza di autrici: più una rivista è citata e più probabile è che ci siano firme di donne. Gli articoli con una donna come ultima autrice avevano il 13% in più di probabilità di avere una donna anche come primo autore.







Nonostante la crescita della visibilità femminile nella letteratura specialistica, molto resta ancora da fare, sottolineano gli autori. Dopotutto, la maggiore o minore presenza di donne tra gli autori di un articolo scientifico deve essere considerata come un indicatore di distorsioni di sistema: per correggerle è necessario un impegno da parte di tutti gli attori, dagli enti finanziatori agli editori; si dovrebbe per esempio vigilare sulla coerenza della posizione delle firme delle autrici in rapporto al contributo dato al lavoro di ricerca e di preparazione degli articoli o sull’improprio riconoscimento di honorary authorship maschili. Come anche sulla composizione equilibrata di genere dei comitati scientifici e sul processo di peer review dei contributi ricevuti che dovrebbe prevenire qualsiasi bias di genere nella valutazione degli articoli. Il contributo delle donne alla letteratura scientifica è importante anche perché solitamente più indipendente, essendo loro meno corteggiate dall’industria o più resistenti ai condizionamenti.

Bibliografia

1. Hart KL, Perlis RH. Trends in proportion of women as authors of medical journal articles, 2008-2018. JAMA Intern Med 2019 May 28. doi:10.1001/jamainternmed.2019.0907.

2. De Fiore L. Toward a gender-oriented scientific communication. Ital J Gender-Specific Med 2017; 3: 124-7.

La cura che non cura

«Una nuova cura per il cancro al seno aumenta del 70% le possibilità di sopravvivenza delle donne giovani», titola uno dei media online più consultati d’Italia. Toni molto simili a quelli dell’articolo di uno dei grandi quotidiani del nostro Paese. Le notizie giungono da Chicago, dove si è appena svolto il congresso dell’associazione statunitense di oncologia: un programma ricchissimo di eventi, dibattiti e conferenze, ma a giudicare dai giornalisti italiani dei media più conosciuti sembra si discuta soltanto di nuovi, straordinari farmaci capaci di “sconfiggere il cancro”. Questa sì che non è una novità.

Il termine cura in medicina andrebbe usato con cautela, consapevolezza e prudenza, soprattutto a proposito di malattie oncologiche. Una survey rivolta a oncologi clinici ha mostrato che l’80% dei medici è esitante a usare questa parola e, comunque, quattro medici su dieci lo fanno solo a distanza di 6 o 10 anni da una diagnosi di cancro. Un medico su cinque non userebbe mai questa parola a conferma di come cura possa senz’altro figurare tra i sette termini tabù che non dovrebbero mai essere usati in medicina1, nonostante molti sostengano, invece, che una parola così carica di speranza possa avere un’influenza positiva sull’esperienza di malattia e sull’auspicata guarigione del malato.

Qualche anno fa, Vinay Prasad è andato a rileggere gli articoli di oncologia pubblicati nel 2012 che avevano nel campo del titolo la parola cura, valutando il contesto in cui la parola era utilizzata e in particolare se gli autori avessero usato la parola con riferimento ad alcuni sottogruppi di pazienti lungo sopravviventi2. Per ogni situazione (tipo di cancro, stadio/grado) in cui era stata utilizzata la parola, Prasad ha verificato in letteratura l’esistenza di casi documentati di guarigione. Ebbene, quasi la metà degli articoli con cura nel titolo (14 su 29: 48%) ricorreva a questa espressione per situazioni attualmente considerate incurabili. Un terzo degli articoli, invece, utilizzava la parola a significare che a distanza di un tempo definito alcuni sottogruppi di pazienti avevano una sopravvivenza simile ai controlli sani.




A questo studio di Prasad, purtroppo non molto conosciuto e di conseguenza poco citato, si sono aggiunti negli ultimi anni altri lavori che hanno contribuito a completare un quadro caratterizzato da un ottimismo che, purtroppo, è molto spesso ingiustificato. Anche nella letteratura specialistica si usano termini che tradiscono la realtà dei fatti, probabilmente per attrarre l’attenzione dei lettori. Un maggiore rispetto del significato delle parole – nel caso specifico, una definizione più chiara e rigorosa di cura – aiuterebbe a ridurre l’ambiguità di significato del termine tra i professionisti sanitari migliorando la comunicazione tra di essi. Considerando l’attenzione prestata dai media a molti studi di ambito oncologico, una maggiore attenzione aiuterebbe i malati e i loro familiari a farsi un’idea più realistica dell’efficacia delle terapie, della prognosi, della sopravvivenza attesa.

Bibliografia

1. 7 Words (and more) you shouldn’t use in medical news. http://www.healthnewsreview.org/toolkit/tips-for-understandingstudies/7-words-and-more-you-shouldnt-use-in-medical-news/ (ultimo accesso giugno 2019).

2. Prasad V. Use of the word “cure” in the oncology literature. Am J Hosp Palliat Care 2015; 32: 477-83.

Il modesto vantaggio di molti farmaci oncologici

Quarantacinquemila partecipanti. Duecentosessanta presentazioni orali e 480 relazioni di speaker da 23 Paesi diversi. Trecentonovanta presentazioni di studi di fase 3. A distanza di pochissimi giorni dall’apertura del congresso dell’American Society of Clinical Oncology, quattro importanti articoli sono stati pubblicati dal JAMA Internal Medicine e una sessione del congresso è stata dedicata proprio agli aspetti regolatori in oncologia.

Un primo lavoro dimostra che l’uso dei farmaci antitumorali approvati con procedura accelerata sulla base di studi preliminari raramente conferma i benefici attesi una volta completato il follow-up richiesto dalla Food and Drug Administration (FDA)1. Non soltanto, però, 19 dei 93 medicinali approvati dalla FDA e introdotti nella pratica clinica non hanno effettivamente contribuito a prolungare la sopravvivenza dei malati, ma spesso i trial confermativi sponsorizzati dalle industrie non hanno neanche utilizzato l’overall survival o il miglioramento della qualità di vita tra gli endpoint dello studio, ricorrendo alla stessa misura di esito surrogata utilizzata per i trial preliminari: la riduzione della massa tumorale. Ma nonostante la frequente mancanza di conferme di efficacia, solo 5 delle 93 approvazioni accelerate di farmaci sono state ritirate o revocate negli ultimi 25 anni.

Un editoriale che accompagna i due articoli a firma – tra gli altri – del bioeticista Ezekiel Emmanuel non risparmia critiche: «Non vi è alcuna buona ragione per cui la FDA possa fare così tanto affidamento sull’approvazione accelerata utilizzando i tassi di risposta o altri esiti surrogati e inaffidabili3. I farmaci di efficacia non provata inducono false aspettative in pazienti disperati, che probabilmente pagano migliaia di dollari per acquistarli», aggiungendo che «l’approvazione di farmaci inefficaci compromette anche l’innovazione che potrebbe produrre un trattamento efficace». La spinta delle imprese per un’approvazione accelerata è accompagnata da quella delle associazioni di pazienti, che sembrano aver dimenticato che il gold standard della ricerca clinica è nelle sperimentazioni controllate randomizzate, messe sempre più spesso in discussione a vantaggio di una “real world evidence” che troppo spesso non è altro che ricerca osservazionale e non della migliore qualità.

Il percorso accelerato di approvazione della FDA è un meccanismo regolatorio inteso a consentire ai pazienti di accedere precocemente a farmaci potenzialmente importanti, ma è essenziale essere consapevoli che un approccio del genere comporta l’accettazione di compromessi clinici e scientifici: fino a quando non saranno soddisfatti i requisiti per passare dall’approvazione accelerata alla definitiva, i clinici avranno meno informazioni sui rischi e i benefici dei farmaci approvati, condizione che potrà essere risolta solo una volta che gli studi di conferma verranno condotti in modo tempestivo, utilizzando endpoint clinicamente significativi. «È un momento di speranza senza precedenti nello sviluppo di trattamenti per il cancro», ha scritto Richard Lehman nell’altra nota di commento ai lavori4. «Per molti pazienti, può anche essere un momento di disperazione e difficoltà economiche. Nuovi farmaci e regimi di terapia proliferano più velocemente dell’aggiornamento dei medici. Comunicare le scelte tra le opzioni per il trattamento del cancro – irto di difficoltà nel migliore dei casi – può diventare quasi impossibile in un contesto in cui ogni mese cambiano le strategie di trattamento e vengono proposte nuove classificazioni dei sottogruppi. E di fronte all’urgenza, la metodologia tradizionale della ricerca clinica basata sugli studi clinici randomizzati può sembrare troppo lenta e macchinosa». La responsabilità degli enti regolatori diventa sempre più importante e, a livello internazionale, quella della FDA è massima. Il ruolo dovrebbe essere quello di garante della salute ma anche della sicurezza dei cittadini e per questa ragione i criteri alla base della valutazione non dovrebbe esaurirsi nel principio “the sooner, the better”. Quel che colpisce nelle decisioni recenti delle agenzie regolatorie è la mancata attenzione al malato che traspare dal ricorso a esiti surrogati che di fatto non influenzano la sopravvivenza: Lehman sottolinea la distanza tra queste scelte metodologiche e il mantra della patient-centred medicine continuamente riproposto.




«Gli endpoint surrogati utilizzati per l’approvazione accelerata sono dei modesti predittori di risultati clinicamente significativi. In secondo luogo, gli studi post-marketing possono non fornire informazioni adeguate sull’efficacia comparativa, in quanto potrebbero non utilizzare gruppi di controllo appropriati o non tenere in considerazione delle distorsioni nell’assegnazione del trattamento. Terzo, preoccupa che gli studi post-marketing siano ancora in fase di completamento: quasi la metà di questi studi è in ritardo e la percentuale di studi completati rimane bassa. Infine, quasi un quarto di questi studi non viene pubblicato, anche se terminato».

La buona ricerca clinica deve contribuire a chiarire dei dubbi. Intenzionalmente o meno, sembra che oggi gli studi siano disegnati e condotti per aumentare perplessità e confusione, osserva Lehman, e questo è il peggior affronto che si potrebbe fare ai malati.

Bibliografia

1. Gyawali B, Hey SP, Kesselheim AS. Assessment of the clinical benefit of cancer drugs receiving accelerated approval. JAMA Intern Med 2019; May 28. doi:10.1001/jamainternmed.2019.0462.

2. Chen EY, Raghunathan V, Prasad V. An overview of cancer drugs approved by the US Food and Drug Administration based on the surrogate end point of response rate. JAMA Intern Med 2019; May 28. doi: 10.1001/jamainternmed.2019.0583.

3. DiMagno SSP, Glickman A, Emanuel EJ. Accelerated approval of cancer drugs: righting the ship of the US Food and Drug Administration. JAMA Intern Med; Published 2019 May 28. doi:10.1001/jamainternmed.2019.0584.

4. Lehman R, Gross C. An international perspective on drugs for cancer: the best of times, the worst of times. JAMA Intern Med 2019 May 28. doi:10.1001/jamainternmed.2019.0458.