Essere infermiera case manager

Chiara Nardini1

1UOC di Pediatria e Neonatologia-TIN, Ospedale di Ravenna, AUSL della Romagna, Ravenna.

Pervenuto su invito il 7 luglio 2019.

Sono Chiara, un’infermiera che per assoluto caso, e non per scelta, ha iniziato a lavorare in Pediatria quasi 20 anni fa. Una parentesi di qualche anno in un reparto intensivo per adulti mi ha fatto capire che la strada imboccata per puro caso in Pediatria era davvero la mia strada. Ora eccomi qui, sempre in Pediatria, ma con un ruolo un po’ diverso perché i casi, a volte, non sono un caso.

Ero in California nel novembre 2017 e ho avuto un incidente stradale. Insomma, un discreto incidente, stava facendo buio, i lampeggianti della polizia, i vetri per terra, il pensiero dei miei cari a casa, l’ambulanza, l’autista messicano che continuava a parlarmi in spagnolo, per me incomprensibile, il pronto soccorso. Un posto che non dimenticherò.

Mi chiamano in ambulatorio distorcendo nome e cognome, mi pesano, misurano, rilevano i parametri, mi fanno accomodare e un’infermiera di spalle rivolta al pc raccoglie l’anamnesi. A me di raccontarle l’anamnesi frega ben poco, mi scuso per la lingua, le dico che sono preoccupata, che sono italiana, che sono là in vacanza e che sono un’infermiera. Non me ne accorgo ma le chiedo aiuto. Lei si gira, mi guarda negli occhi e viene verso di me. Mi abbraccia. Stretta, non mi lascia, sono confusa, scoppio a piangere mentre lei continua a ripetermi che andrà tutto bene. Tutto ciò di cui avevo bisogno.

In quell’abbraccio ho sentito il permesso di chiudere gli occhi, di avere paura. Io non l’avevo mai fatto, ma perché?! Perché non avevo mai riconosciuto a un mio paziente il diritto di avere paura? Perché ci risulta sempre così difficile “toccare l’altro”? Forse per proteggerci?

Oggi sono un’infermiera, con più tempo, più consapevolezza e possibilità, e questo significa per me essere il case manager dei bambini affetti da una patologia cronica. Un’avventura iniziata a ottobre 2018 con davanti a me una tela bianca tutta da scrivere, disegnare, colorare, da dove iniziare?

Ascoltare

Per cambiare punto di vista ho imparato che ascoltare è necessariamente il primo passo.

Non mi ero mai chiesta se stavo dando ai “miei” bambini e alle loro famiglie ciò che davvero si aspettavano da me, del resto soddisfacevo i loro bisogni, ma dietro quelle richieste che quotidianità c’era? Come vivevano quelle famiglie ogni giorno al di là del “fatto acuto” che le costringeva a vivere giornate di cattività all’interno di un ambiente ospedaliero? Dare risposte attente e preparate all’acuzie era da sempre stata la mia presa in carico ma sapevo che c’era molto di più e quello era il momento per “vederlo” e cercare di capirlo.

Ho parlato a lungo con alcuni pazienti per capire che le esigenze erano comuni, l’ospedale deve andare loro incontro per progettare il servizio e la conseguente strategia di servizio. Solo migliorando la sequenza spazio-temporale che è da sempre esistita tra ospedale e territorio attraverso il dialogo e codificando gli interventi diagnostici e terapeutici (assistenziali e riabilitativi) si riesce a gestire meglio (o prevenire) un problema specifico, di qualunque natura esso sia.

Ho poi ragionato sulla mappatura dei processi aziendali per migliorare le prestazioni (utilizzando il Valve stream mapping: grazie università), identificando le parti deboli delle organizzazioni per poter incrementare l’efficienza dei processi. Da qui un percorso dedicato, che risponde ai bisogni odontoiatrici e a tutto ciò che riguarda i controlli radiologici/ecografici a misura non solo di bambino, ma di bambino affetto da disabilità. Avere un’agenda che possa rispondere ai bisogni e fabbisogni di queste famiglie evitando loro di seguire il percorso CUP riducendo non solo i tempi di attesa ma anche di gestione familiare è stata una delle richieste più forti che mi era stata fatta in fase di pianificazione di questo nuova avventura. Un percorso a oggi ancora in evoluzione. Questo il curare, il fare. Obiettivo: facilitare i percorsi.

Poi è stato il tempo del prendersi cura

Mettere le mani e la testa nelle loro vite è un viaggio di grande responsabilità e mi succede spessissimo di abbassare lo sguardo e sentirmi piccola di fronte a tanto, tanto dolore, tanto amore, tanta tenacia, tante emozioni, e cercare di trovare la chiave delle loro paure per capire come attenuarle o sconfiggerle è una grande sfida.

Il caring è prerogativa della mia professione, avevo voglia di riscoprire le cose semplici, di capire come essere responsabile del processo di cura creando un ambiente dove accogliere i bisogni ascoltando prima le persone, e poi le risorse che potevo avere a disposizione. Ho imparato a dedicare tempo, a prendermi tempo. Ho compreso quanto profondo sia trasmettere vicinanza e interesse, non solo presenza fisica. Il messaggio “ti sto assistendo” passa attraverso il contatto visivo, il linguaggio corporeo, il tono della voce; la relazione si coltiva attraverso la gestualità fisica oltre che quella linguistica. Saper interpretare il vissuto di quella famiglia, di quel paziente per poterne rispettare i tempi, per agire con delicatezza è la base per costruire ogni storia di cura.

L’educazione terapeutica e sanitaria

Altro aspetto che caratterizza gli ambiti di autonomia infermieristica è l’educazione terapeutica e sanitaria. Attraverso il processo educativo, l’intera équipe si pone come obiettivo di aiutare la persona e la famiglia con bambino affetto da patologia cronica ad acquisire e/o mantenere la capacità di gestire, in modo ottimale, la propria vita, convivendo con la malattia e avendo gli strumenti per raggiungere il massimo obiettivo di qualità di vita possibile in ogni fase, grazie anche all’aiuto delle cure palliative.

Perché non riuscivo nella mia assistenza durante il turno a fare tutto questo? Beh, i pazienti ricoverati sono molti, i campanelli che suonano e l’attività di routine del reparto danno un carico enorme per cui spesso la risposta ai bisogni si limita a una risposta tecnica: avevo sete mi hai dato da bere.

Essere case manager per me significa dare non solo una risposta personalizzata (avevo sete e mi hai dato da bere nella mia tazza preferita) ma una risposta personalizzata e di continuità relazionale a quel particolare setting familiare (avevo sete e mi hai dato da bere, nella mia tazza preferita, e sei stato con me). Si creano relazioni empatiche in cui è importante saper stare in equilibrio sui legami che spesso diventano forti, ricchi di momenti intimi e privati condivisi che fanno parte della vita che scorre sulla condizione di malattia. Saper creare un ambiente di fiducia nel rapporto condividendo gli obiettivi assistenziali è il progetto che stiamo costruendo insieme a tutta l’équipe che ruota attorno alle famiglie che seguiamo.

Questo lavoro forse non finirà mai. Ma se chi cura e chi riceve la cura sanno comunicare, significa aver raggiunto l’altissimo obiettivo dell’attenzione all’invisibile della cura, alla cura del contesto oltre che alla cura stessa. Come ricaduta, questo aiuta tutti gli operatori (tutti con il proprio ambito di competenza) a dialogare sul caso, semplificando le risposte assistenziali con il valore aggiunto della tempestività. Il risultato atteso da questa nuova visione è quello di armonizzare i tempi e di garantire un pacchetto di servizi che possa rispondere ai bisogni quotidiani delle famiglie.

Vi assicuro che oggi sono io a ringraziare le mie famiglie, le ringrazio per i “grazie” che mi riempiono il cuore, per gli abbracci che ricevo (che sono molti di più di quelli che do). Li ringrazio di aver arricchito la mia vita di quella ricchezza che non puoi spiegare e che forse solo un infermiere, per la continuità, il rapporto di confidenza e la quotidianità, ha la fortuna di avere.

Il corso della malattia a volte non si cambia ma cambia il sentirsi presi in carico, ascoltati come bambini e come genitori, ognuno con il proprio ruolo, ognuno con le proprie risorse, ognuno con le proprie capacità. E questo cambia di certo la loro esperienza di malattia.

Questo per me significa essere infermiera case manager.