L’ospedale al tempo del CoViD-19, diario di bordo

Michela Chiarlo1

1MeCAU2, Ospedale San Giovanni Bosco, Torino.

Pervenuto su invito il 7 aprile 2020.

Nel corso delle settimane a partire da metà febbraio la coda in pronto soccorso (PS) si è accorciata sempre di più. Sono spariti prima i codici bianchi, poi si sono ridotti i codici verdi, e dalle classiche quattro ore di attesa siamo scesi a pochi minuti. I corridoi, di solito strabordanti di barelle, si sono svuotati. La notte un clima irreale calava sulle sale d’aspetto vuote (foto 1).

Abbiamo vissuto a lungo un deserto dei Tartari, ma a differenza che nel classico di Buzzati, i tartari sono arrivati.

La prima ondata è stata più che altro di panico. Mentre in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna chiudevano le prime zone rosse, fuori dal nostro PS si montava la tenda di pre-triage della protezione civile, quella dove gli infermieri muoiono di freddo a quattro ore alla volta vestiti come gli spermatozoi di “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere”.

Quel primo giorno siamo stati subissati di telefonate: “Il marito di mia cugina che fa il camionista è passato da Codogno ma senza fermarsi e poi ci ha portato un pacco di arance, potremmo esserci contagiati?”, “Ho la febbre da tre settimane, devo fare il tampone?”, “Il 1500 non mi risponde e il 112 mi ha attaccato quindi chiedo a voi”. Chiunque avesse un numero interno dell’ospedale l’ha subissato di telefonate, rendendo impossibile l’attività ordinaria. Il centralino mi metteva in attesa, tutti i numeri interni per chiamare i consulenti erano staccati e io non sapevo come rintracciare lo psichiatra, il chirurgo, il vascolare o chiunque altro mi servisse per i miei pazienti non CoViD.




Lentamente il PS si è adattato al crescente numero di casi sospetti. All’inizio erano così pochi che bastava la nostra stanza di isolamento per visitarli: l’infermiere mi chiamava dal triage, il paziente veniva accompagnato lungo un percorso esterno fino alla stanza di isolamento, io indossavo i dispositivi di protezione individuale (DPI), visitavo e interrogavo il paziente, chiamavo l’unità di crisi per l’autorizzazione al tampone e, se c’erano dei criteri molto stringenti, chiedevo il tampone, altrimenti rimandavo il paziente a casa con la tachipirina.

Ben presto la stanza di isolamento non è stata più sufficiente e ci hanno dato quattro stanze al quarto piano (sempre accessibili da percorso dedicato) per ospitare fino a 16 pazienti. E poi, a mano a mano che i pazienti “normali” diminuivano, il CoViD si è mangiato quasi tutto il PS.

Una notte sono arrivata al lavoro e ho trovato un muro. Un muro di mattoni a separare l’area CoViD da quella normale, o, come diciamo noi, lo sporco dal pulito, la zona dove devi vivere con mascherina, guanti, cuffia e camice di tessuto non tessuto da quella dove hai il privilegio di lavorare come un mese fa, con la tutina di stoffa e le mani libere. Il muro, nota giustamente un collega, sembra quello della copertina di “The Wall” dei Pink Floyd (foto 2).




Ora la zona pulita ha un ambulatorio e una sala emergenza per 8 posti letto totali, mentre quella sporca ha due ambulatori, una sala emergenza e una sala di degenza per 18+4 posti totali. I percorsi sono completamente separati e anche la radiologia ha due spazi, separati da muri di nylon, uno per i pazienti puliti, l’altra per i sospetti CoViD. I pazienti vengono smistati al pre-triage (la famosa tenda) e accedono da due ingressi diversi. Le due sezioni del PS non hanno nessun contatto se non per telefono o per radio.

Per limitare al massimo lo spreco di materiale, la scorta dei farmaci rimane nel pulito, mentre nella zona CoViD c’è un carrello emergenze con i soli farmaci e presidi essenziali. Per i farmaci mancanti si chiede alla radio.

“Isolamento a emergenza, passo”

“Qui emergenza, avanti isolamento”

“Serve un Keppra in 250 di fisiologica, passo”

“Ricevuto isolamento, lo preparo, passo”

“Emergenza a filtro, passo”

“Qui filtro, avanti emergenza”

“Ti passo il Keppra deflussato, passo”

“Ricevuto emergenza, passo”

“Filtro a isolamento, passo”

“Qui isolamento, avanti filtro”

“Ti lascio il Keppra, quando vuoi puoi aprire la porta, passo e chiudo”

Se la situazione non fosse drammatica sembrerebbe di stare a un campeggio scout.

Nel frattempo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono cambiate: per visitare i pazienti con CoViD sospetto o accertato basta la maschera chirurgica, il visor, un solo paio di guanti e il camice di tessuto non tessuto. La maschera filtrante e il camice impermeabile vanno riservati alle procedure più invasive (tampone, aerosol, ventilazione in maschera, intubazione). Di conseguenza nella stanza emergenza-isolamento-CoViD c’è sempre un infermiere per prestare assistenza ai pazienti eventualmente presenti, mentre il medico, che va su e giù tra gli ambulatori e la stanza isolamento, si cambia di volta in volta.

Fuori dalla stanza di isolamento c’è il “filtro”, una zona franca e semi-pulita con un infermiere che gestisce la radio ed è incaricato di fornire alla stanza di isolamento-CoViD tutto ciò di cui ha bisogno. Il filtro fa da tramite tra l’emergenza pulita e l’emergenza-isolamento-CoViD e tra la degenza-CoViD e il resto dell’ospedale. Lava a letto i pazienti il cui tampone è risultato negativo e che necessitano di ricovero in zone pulite dell’ospedale, sanifica tutto il materiale che esce dall’isolamento e lo prepara all’utilizzo successivo, invia le provette per gli esami e legge i referti alla radio.

Quando sono dentro con un paziente, vestita come un’astronauta, la sensazione di isolamento è totale, prendere fiato è faticoso sotto alla maschera filtrante, e il suono del respiro mi rimbomba nelle orecchie: mi sembra davvero di essere in una navicella spaziale ad anni luce di distanza da altri esseri umani.

Noi medici di PS siamo abituati, nelle emergenze, ad avere moltissimi presidi e tantissime mani a disposizione: un paziente grave assorbe spesso tutte le risorse di turno e chiunque passi sa come dare una mano. Moltissime azioni avvengono senza che ce ne rendiamo conto e senza una richiesta esplicita: gli infermieri e gli operatori socio-sanitari sanno benissimo cosa fare, chi cerca un accesso venoso, chi analizza l’emogasanalisi, chi spoglia il paziente e lo monitorizza, chi mette il catetere, chi fa l’ecografia, chi prepara i farmaci: è tutto molto efficiente e rapido. Invece nell’isolamento siamo due: un medico e un infermiere, con un carrello-emergenza, un attacco dell’ossigeno e un ventilatore. Possiamo chiedere cosa vogliamo, ma la latenza è notevole. Un altro paio di mani richiede 5 minuti di vestizione, e 5 minuti, durante un’emergenza, sono eterni. Per chiamare l’anestesista bisogna spiegare alla radio il motivo, far chiamare da fuori e aspettare che l’anestesista a sua volta si vesta. I farmaci richiedono lo scambio radio di cui sopra, bisogna pensare in anticipo, ma anche evitare di sprecare materiale che una volta entrato non può più uscire.

In poco più di una settimana quel muro, che è diventato il simbolo della nostra lotta, si è riempito di firme e graffiti. Ci ricorda che siamo uniti, anche se non possiamo toccarci e per riconoscerci dobbiamo parlarci, perché l’unica cosa che spunta dalle divise sono gli occhi e i maschi barbuti si sono rasati per far aderire meglio le mascherine. Già si parla di quando lo abbatteremo, quel muro: chi dice a martellate, chi a pugni, chi a testate. Di quando sgonfieremo la tenda e potremo abbracciarci.

Se il cambiamento del PS è stato progressivo e posticcio, quello della medicina d’urgenza del mio ospedale è stato rapido e definitivo. Un giorno avevamo metà dei letti pieni di pazienti non CoViD, il giorno successivo abbiamo avuto indicazioni di trasferirli in massa, quello ancora dopo avevamo gli operai a fare le modifiche.

Quando sono tornata per il primo turno di notte è stato un tuffo al cuore. Anche qui è sorto un muro dove non c’era, ma è intonacato e ha al centro una porta identica a tutte le altre con il cartello “ingresso zona rossa” (foto 3). L’effetto è straniante come quello di certi sogni in cui sai benissimo dove sei e come dovrebbero essere le cose, ma quello che vedi è diverso dalla realtà.

Sono rimasti fuori dalla nuova porta due magazzini, la sala medici, lo spogliatoio medici e il bagno infermieri. Tutto il resto del reparto, compresa la cucina e i due studi, quello di segretaria e caposala e quello del primario, è stato svuotato e trasformato in stanze di degenza o in magazzini. In tutte le stanze è stato installato un circuito a pressione negativa, sono state installate telecamere a infrarossi, per poter sorvegliare i pazienti anche con le porte chiuse. A due giorni dall’inizio dei lavori il reparto è pronto, ma non ci sono maschere e camici a sufficienza per medici e infermieri. Rimaniamo fermi altri due giorni in attesa dei presidi; quando finalmente apriamo, sulla base della conta dei DPI ci danno indicazioni a ricoverare 3 pazienti. Entro sera ne arrivano 7. In due giorni il reparto, ristrutturato per ospitare 10 pazienti, ne accoglie 14, uno in più dell’era pre-CoViD. I monitoraggi che ci hanno promesso per i 4 letti rimanenti non arriveranno mai. Ci aggiustiamo recuperando qualche monitor portatile dal PS e una colonnina parametri che abbiamo sempre avuto in reparto, ma un letto rimane completamente sguarnito.




Le istruzioni iniziali sono tassative: non si può uscire e rientrare nelle stanze con i camici sporchi, non si può passare da una stanza all’altra con i camici sporchi, non si possono aprire le porte che per pochi secondi. Queste direttive durano meno di due turni: non reggono alla prova della penuria costante di mascherine.

Dal secondo giorno compare una riga per terra tracciata con lo scotch: la metà destra del corridoio è zona sporca: si può transitare da una stanza all’altra avanti e indietro con l’illusione di mantenere pulita l’altra metà (foto 4). Le maniglie delle porte vengono disinfettate ogni 3 ore, tutto ciò che esce dalle stanze viene sanificato, un bagno è trasformato in locale svestizione.

Il mio primo turno nella subintensiva-CoViD-19 è una notte. Percorro le strade deserte col mio motorino incrociando solo una pattuglia dei carabinieri e senza mai appoggiare i piedi per terra, un’unica tirata di 7 km.

Arrivo, recupero dal magazzino una tutina usa-e-getta pulita, mi cambio nello spogliatoio, cercando di passare indenne dalle scarpe (da riporre in apposita scarpiera) agli zoccoli (che stazionano su di un panno imbevuto di cloro). Anello, collana e orologio li ho lasciati a casa, altrimenti dovrei metterli e toglierli ogni volta che arrivo al lavoro. Mi lego i capelli e mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica con la tecnica consigliata dall’OMS. Impacchetto il telefono con il cellophane: potrei lasciarlo fuori, ma mi serve per fotografare i documenti, quindi dopo attenta analisi ho scelto la pellicola per alimenti, che preserva il touch screen e la fotocamera e può essere buttata a fine turno, sollevandomi dall’incombenza di sanificare il telefono ogni volta.

Vado a recuperare una mascherina chirurgica, che devo tenermi cara per tutto il turno. Con questa tenuta posso stare nella sala medici-relax ed entrare nella zona rossa, a patto di mantenermi nella metà sinistra del corridoio ed entrare solo in medicheria o in magazzino.

Ho appena preso le consegne, ma una paziente decide di disconnettersi il casco: qualcuno deve entrare per sistemarglielo, ma gli infermieri sono a fine turno e sprecheremmo del materiale per pochi minuti di utilizzo, così entro io.

Mi metto la cuffia di tessuto non tessuto (10 secondi).

Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi).

Indosso il camice impermeabile chiudendolo dietro al collo e al fianco con un fiocco (30 secondi).

Mi metto la maschera filtrante (20 secondi).

Indosso il visor (5 secondi).

Mi lavo le mani con la soluzione idroalcolica (40 secondi).

Metto i guanti della mia misura (15 secondi).

In ogni passo sono assistita da un infermiere che spunta la checklist e al termine delle procedure la firma.




A questo punto faccio il mio ingresso trionfale nell’open space in cui alloggiano tutti e 6 i pazienti. Salvo dal soffocamento la paziente del letto 4 riconnettendo il casco al ventilatore, e le spiego che anche se le manca il fiato è altamente sconsigliabile tentare di autorimuoversi il casco perché rischia di precipitare da una brutta sensazione di dispnea al soffocamento vero e proprio, causato dal restare con la testa in un sacco di plastica dove non arriva aria.

Sudo sotto il camice impermeabile e il visor. Farsi capire dai pazienti è una fatica: già normalmente per parlare con chi ha un casco bisogna urlare, se poi indossi anche una maschera e un visor è un’impresa. Compiutala, aspetto. Aspetto il cambio degli infermieri e il ricovero di un nuovo paziente che deve arrivare dal PS. Corro su e giù a tacitare allarmi dei ventilatori, a sistemare caschi, a chiudere flebo, a riavviare motori di materassi antidecubito, a riposizionare saturimetri. A un certo punto non ho più niente da fare. Ma non posso uscire, dovrei rientrare per il ricovero e sprecherei del prezioso materiale. Non posso fare nulla, però, così bardata, a parte sedermi e aspettare. Dopo 40 minuti a fissare il vuoto giunge un infermiere a salvarmi. Iniziamo il giro letti, per sistemare per la notte un paziente alla volta. Mi colpisce quanto ci sia da fare e a quante cose noi medici non diamo peso, semplicemente perché ci pensa qualcun altro. Per dormire (o almeno provarci) il paziente deve essere ben sistemato nel letto, con le lenzuola che non facciano pieghe, con la coperta se la vuole, deve aver bevuto, essere stato rassicurato, le flebo non devono finire nel cuore della notte o suoneranno gli allarmi, i cateteri devono essere vuoti. Mille piccole premure che gli infermieri dispensano quotidianamente, mentre noi ci preoccupiamo di chiedere esami, cambiare terapie e visitare i pazienti.

Quando arriva il ricovero mi rendo conto di un altro problema al quale non sono abituata: nulla può uscire dalla stanza. Se il paziente entra con la cartella del PS bisogna buttarla e ristamparla da capo, se entra senza devo visitarlo facendo a meno dei dati precedenti. Devo ricordare a memoria parametri, ecografia e anamnesi, per poterli scrivere un’ora o anche tre ore dopo, quando uscirò dalla stanza. Sembra banale, e in effetti siamo abituati a ricordarci dettagli dei pazienti anche dopo molto tempo, ma quando hai una sola malattia da curare, tutte le storie si assomigliano. Mi aveva detto che aveva solo febbre o anche tosse? I sintomi saranno iniziati 7 o 10 giorni fa? E l’ecografia com’era? Era lui che aveva quell’addensamento basale o il suo vicino? E come avrò impostato il ventilatore? Per la prima notte me la cavo con la memoria, anche perché il paziente è uno solo, ma a breve si renderanno necessarie altre strategie.

Dopo alcune ore passate dentro ho le vertigini, scoprirò poi che capita a molti, qualcuno lamenta invece cefalea. Sospettiamo che sia colpa delle mascherine che costringono a inalare più anidride carbonica del dovuto, ma potrebbero anche essere la fatica continua, il rumore, gli allarmi.

Finalmente, dopo quasi 4 ore, esco dalla stanza. 

Rimuovo i guanti.

Lavo le mani.

Rimuovo il camice slegandolo di lato e accartocciandolo su se stesso toccandolo solo dall’interno.

Lavo le mani.

Rimuovo il visor toccandolo solo da dietro.

Lavo le mani.

Rimuovo la maschera (prima l’elastico inferiore).

Lavo le mani.

Rimuovo la cuffia toccandola solo dall’interno.

Lavo le mani.

Rimetto la mascherina chirurgica.

Bevo mezzo litro d’acqua in un sorso solo.

Vado a fare pipì.

Riscrivo al pc tutto quello che ho fatto al nuovo malato ricoverato, chiedo gli esami, imposto la terapia, compilo la scheda di ingresso per la raccolta dati.

Muoio su una poltrona per circa un’ora.

Arriva il cambio, sospiratissimo.

Una telefonata, nel pomeriggio, mi aveva avvisato: “Da oggi ci facciamo la doccia a fine turno, quindi portati un asciugamano e le ciabatte”. Io, che di solito non faccio la doccia neanche in palestra preferendo di gran lunga quella di casa mia, sono stranamente sollevata. Non mi è piaciuto tornare a casa dall’ultimo turno e dovermi fiondare in bagno abbandonando i vestiti in ingresso. Non mi sono sentita protetta a mettere la giacca, il casco, i guanti, dopo aver visitato malati CoViD con l’esile protezione di un camicino usa-e-getta e una mascherina chirurgica.

Recupero il mio fedele accappatoio in microfibra e le ciabatte di plastica che mi hanno accompagnato nei peggiori ostelli del mondo e li infilo nello zaino, solo che non mi sto preparando a un viaggio in India, ma a un  improbabile tour post-apocalittico, come quelli che ora organizzano al reattore nucleare di Cˇernobyl’.

Il nostro spogliatoio si è trasformato in un bagno attrezzato: sono spuntati dei phon nettamente migliori di quello che ho a casa e sembra un po’ di essere in piscina o alle terme… coda per la doccia a parte. Però questo clima un po’ campeggio, un po’ apocalisse ci sta rendendo tutti più uniti. Come dice una collega: “Quando tutto questo sarà finito o saremo una grande famiglia o non ci potremo più vedere”. Speriamo la prima.

Per noi tutti internisti e urgentisti avere a che fare con una sola malattia, come durante un’epidemia, è un’esperienza unica e a tratti frustrante. Il brivido della diagnosi è totalmente assente, il rischio di fare errori diagnostici praticamente azzerato. Ciò non significa, però, che il lavoro sia più semplice: ci troviamo di fronte a mille copie della stessa malattia, con l’arduo compito di prevedere chi migliorerà e chi peggiorerà, chi può andare tranquillo a casa e chi ha bisogno di osservazione stretta, chi tra poche ore avrà bisogno di un ventilatore e chi resisterà giorni solo con l’ossigeno.

Per di più è una malattia relativamente nuova: abbiamo visto altre polmoniti virali, abbiamo idea della terapia da applicare nella sindrome da distress respiratorio acuto, ma con questa malattia qui, con il CoViD-19, non abbiamo esperienza. Studiamo, leggiamo gli articoli che vengono via via pubblicati, cerchiamo consigli da chi è qualche settimana avanti rispetto alla situazione che vediamo nel nostro ospedale, ma è difficile sapere con certezza come agire.

È difficile, perché da Galileo in poi la scienza procede a piccoli passi, a teorie e smentite, a scoperte che si credono miracolose e poi funzionano in casi limitati, a dati che richiedono conferme negli anni, ma noi abbiamo fretta.

È difficile perché già ci sbagliamo nelle previsioni con le malattie di cui sappiamo tutto, perché una cosa è la malattia e tutt’altra è quel singolo malato che ti trovi di fronte in questo momento, figuriamoci con una patologia che conosciamo da poche settimane.

Alcune “anomalie” o caratteristiche ci sembrano evidenti. Gli uomini ricoverati sono il doppio delle donne, quindi probabilmente sono più suscettibili o tendono ad aggravarsi di più. Quasi tutti i ricoverati gravi sono sovrappeso o patologicamente obesi. Moltissimi hanno malattie ematologiche, seppure non gravi. Perché? Non lo sappiamo. Possiamo sfruttare queste conoscenze per trovare una cura efficace? Forse in futuro, ma non adesso. E perché, poi, se sono tutti obesi e tra i 50 e i 60 anni abbiamo quel giovanotto atletico al letto 1 che sta andando così male? Chi lo sa.

Per la prima volta a nostra memoria abbiamo interi reparti di pazienti-fotocopia. Le cartelle e le consegne sono state standardizzate: stessi parametri da monitorare, stessi esami da richiedere, terapie praticamente identiche, è facile fare confusione, ma anche semplice adottare un approccio sistematico. Le indicazioni terapeutiche cambiano ogni poche ore: cambiare o no gli antipertensivi, usare o no il cortisone, mettere l’idrossiclorochina, usare gli antivirali, sospendere gli antivirali, riprendere gli antivirali, entrare nel protocollo sperimentale del tocilizumab, usare il tocilizumab.

Chissà se è un’illusione di controllo o l’unico modo per tentare almeno di controllare l’incontrollabile.

Da un giorno all’altro, mentre l’Italia chiudeva, a noi operatori sanitari sono state annullate le ferie e raddoppiati i turni, ma quasi non ce ne siamo accorti. Abituati da sempre al sottile senso di colpa nei confronti delle nostre famiglie per weekend, feste e notti passate in ospedale anziché con i nostri cari abbiamo avvertito un vago sollievo. “Stasera non ci sono a cena”, “Questo weekend lavoro”, “Possiamo festeggiare il compleanno di papà venerdì anziché giovedì? Perché faccio la notte” (foto 5).

All’improvviso tutto il resto del mondo è a casa, non organizza feste, non progetta weekend fuori porta, non compra biglietti di concerti ed eventi. Niente desiderata, nessun “Speriamo che martedì mi capiti di fare mattino così riesco ad andare a yoga”. Da un giorno all’altro lavorare in questo mondo ribaltato è diventato quasi un privilegio: siamo gli unici a uscire di casa, gli unici a percorrere la città deserta, il traffico ormai un ricordo lontano, e gli unici a sapere se fuori fa freddo o c’è il sole. I nostri familiari sono sempre a casa, al mattino, se facciamo pomeriggio, tutto il giorno, se facciamo notte. La gente ci applaude, ci regala del cibo, ci chiama eroi, i supermercati ci fanno saltare la coda.

In questa bolla dove la domenica è uguale al giovedì anche i turni lo sono. Non esiste più un weekend libero e d’altro canto non sapremmo cosa farcene. L’organizzazione normale dell’ospedale si basa su risorse più abbondanti nei giorni feriali rispetto ai festivi quando gli ambulatori chiudono, gli interventi programmati non ci sono, molti specialisti sono reperibili da casa solo per le urgenze, gli esami diagnostici di secondo livello non vengono eseguiti. Il lavoro, anche per chi rimane, è in genere minore. Il numero di esami da chiedere e da controllare, di consulenti da chiamare, di procedure da seguire è limitato. Da un mese a questa parte, invece, viviamo in un lungo, affollato, weekend di lavoro. I servizi non essenziali sono tutti sospesi, gli esami di secondo livello sono banditi: una sola malattia, poche cure, tanta necessità di assistenza, tutta urgente.

Per noi dei servizi di emergenza i turni sono aumentati e variati lo stesso, nel tentativo di tenere dietro alla riorganizzazione dell’ospedale, ma tantissimi colleghi, pur di non stare a casa a sentirsi “inutili”, si sono proposti per turni in più, per sostituire un collega malato, per alleggerirne uno stanco.




Tutto l’ospedale ci sta dando una mano. Cento letti di medicina interna sono stati convertiti in posti CoViD a bassa intensità, la chirurgia generale è diventato un reparto CoViD, 10 letti nel reparto di urologia si sono trasformati in una sub-intensiva (da sommare ai nostri 14), due piani di sale operatorie ospitano 14 letti di rianimazione (il 110% in più dell’era pre-CoViD) e 30 posti letto sono stati ricavati persino nella chiesa.

Mano a mano che i reparti di degenza si sono trasformati in reparti CoViD tutti si sono rimboccati le maniche e anche gli specialisti delle branche più lontane dalla medicina d’urgenza si sono attrezzati. L’altra notte nel mio ospedale il medico di interdivisionale, incaricato di supervisionare un centinaio di malati sparsi in più reparti, era un neurochirurgo. Il cardiologo come il chirurgo maxillo-facciale aiutano gli internisti nella gestione dei malati CoViD a bassa intensità, specializzandi neo-assunti sono stati buttati nella mischia: apprendiamo tutti l’arte di arrangiarci.

Dal primo giorno, a ogni turno, ci arrivano pacchi di maschere filtranti diverse: alcune con le scritte in cinese, altre in pacchi da 10 simili in modo sospetto a quelle delle ferramenta, a volte con la valvola, altre senza, moltissime difettose. Quando una si rompe cerchiamo di aggiustarla, per non sprecarla. In rianimazione una carrozzeria ha donato delle tute impermeabili per verniciare, utilissime anche per proteggersi dal CoViD. La moglie di un paziente, ginecologo, ci ha donato delle preziosissime maschere da ventilazione.

Lo shock culturale è enorme, ma come tutti gli shock di questo strano tempo, ci si abitua. Passiamo improvvisamente dalla medicina usa-e-getta, quella in cui per mettere un accesso venoso centrale butti via due camici, due vaschette, un paio di pinze, delle forbici, un bisturi, due pacchi di garze e una boccetta di clorexidina, all’arte del riciclo nota solo ai più anziani tra noi, quelli che hanno avuto la dubbia fortuna di lavorare con le suore.

Teniamo da parte tutto ciò che non usiamo, prima o poi tornerà utile, sterilizziamo tutto ciò che può essere sterilizzato, assembliamo parti che mai avremmo pensato fossero compatibili. In breve tempo diventiamo esperti di assemblaggio, di flussi d’aria garantiti dalle tubature, di sblocco di ventilatori domiciliari, di adeguamento di maschere. Ogni giorno nasce un problema diverso e bisogna arrangiarsi a risolverlo: un giorno finiscono i caschi, quello dopo siamo senza flussimetri. Un giorno recuperiamo un po’ di ventilatori domiciliari ma ci mancano i circuiti dedicati e finiamo a rovistare negli armadi del reparto per recuperare campioni donatici anni fa e a cercare un modo per connettere i pezzi. Qualsiasi rifornimento porta all’esaurimento di altro materiale di cui avevamo abbondanza relativa. Così le chat di reparto pullulano di video-tutorial per ventilare senza casco/senza valvola di peep/senza ossigeno/senza raccordo. C’è chi si è inventato il sistema per ventilare due pazienti con un solo ventilatore e non mancano le richieste improbabili.

Per esempio un giorno si rompe l’oxicheck, che serve per misurare l’ossigeno nella miscela di aria somministrata al paziente, ma grazie all’intraprendenza di una collega scopriamo che un attrezzo quasi uguale è utilizzato dai sub per controllare le bombole. Con una catena di solidarietà che coinvolge medici, ingegneri, sub, medici-sub, corrieri e amici di amici in una settimana eccolo pronto all’uso. Mentre l’Italia impara a fare il pane e la pizza noi impariamo a ventilare i pazienti con qualsiasi cosa, comprese le maschere da snorkeling.

La gestione del giro visita resta problematica. Nell’open space (lo stanzone da 7 letti diviso dalla zona pulita da un lungo vetro) è stato installato un interfono: da fuori si può parlare a un microfono e la voce viene diffusa all’interno; da dentro, in teoria, i suoni vengono amplificati e riprodotti all’esterno. Se può essere sufficiente per gli allarmi dei ventilatori non lo è, però, per le nostre parole: sotto maschere e visor e con il rumore continuo dell’aria nei caschi e degli allarmi non basta sgolarsi per farsi comprendere da fuori. Il problema c’è sempre stato, ma è storicamente stato risolto con l’acquisizione di una grande abilità a sillabare attraverso il vetro e a leggere il labiale dal lato opposto. Con le mascherine neanche questa è un’opzione praticabile. La prima soluzione attuabile, la più rapida, è prendere appunti su un foglio e appoggiarlo al vetro affinché chi si trova all’esterno possa copiare/fotografare o leggere quanto scritto. Quando, però, a partire dal secondo giorno iniziamo a riempire le altre stanze, che non hanno un vetro, la situazione si complica. Bussiamo sulla porta per richiamare l’attenzione di chi si trova all’esterno, poi lasciamo scivolare un foglio sotto la porta e chi sta fuori (senza toccarlo) lo fotografa o ci porta il materiale necessario.

Sempre grazie all’intraprendenza del personale (e del primario) a facilitarci il compito compaiono dapprima un baby monitor, una di quelle radioline che si usano per controllare il sonno dei neonati, e dopo qualche giorno quattro coppie di walkie talkie.

La comunicazione tra noi migliora, ma rimane indispensabile la presenza di due medici in ogni momento: chi è dentro le stanze vestito da astronauta perde il senso del tempo ed è impossibilitato a gestire le relazioni con l’esterno. Programmare i ricoveri, rispondere alle telefonate, effettuare consulenze nei reparti CoViD a bassa intensità, tutto viene gestito da chi è fuori, mentre chi è dentro rappresenta le mani, occhi ed ecografo del medico all’esterno.

Diverso tipo di isolamento subiscono i pazienti. Costretti ad abbandonare i familiari al triage, entrati in ospedale da soli, chiusi in un casco che li fa assomigliare a dei minions o a dei robot di futurama, visitati da personale di cui intravedono solo gli occhi, vivono ciascuno nel proprio rumoroso isolamento, sempre con gli stessi vestiti, alcuni senza telefono, senza possibilità di comunicare con l’esterno (foto 6). Neanche la morte li libera: vietate le visite alle camere mortuarie, vietato il trasporto della salma a cassa aperta, vietati i funerali. Un lenzuolo imbevuto di candeggina, una benedizione all’aperto davanti al cimitero e via.

L’ospedale ha chiuso le visite ai parenti e i colloqui si svolgono per telefono.

La comunicazione medico-paziente e medico-parente è molto difficile e delicata sempre, ma in queste circostanze è un’impresa.

Noi medici odiamo le comunicazioni telefoniche e mai come ora il motivo mi si è reso evidente. Inizialmente pensavo che il divieto di fornire informazioni telefoniche fosse principalmente una questione legale di verifica dell’identità del parente, ma non è così. Per quanto possiamo parlare lentamente, cercare di utilizzare un lessico semplice e rispiegare più volte i concetti, le persone con cui ci interfacciamo comprendono un decimo di ciò che diciamo loro. Perché sono agitati, perché sono troppo concentrati a cercare di capirci e, ovviamente, perché noi pensiamo di essere chiari e non lo siamo. Per di più l’unica cosa che tutti vogliono sapere, cioè se il loro caro si salverà, è l’unica cosa che evitiamo a tutti i costi di dire, perché non lo sappiamo.




Però la comunicazione ordinaria, faccia a faccia, funziona. Potrebbe andare meglio, molti di noi non sono bravi, ci sono problemi di tempo e di luogo, ma grossolanamente funziona e in gran parte lo fa grazie alla comunicazione non verbale.

Il medico che si trova di fronte un parente può comprendere il suo stato d’animo dal volto, può intuire dall’espressione perplessa che non ha capito e rispiegare qualcosa anche se non gli viene esplicitamente richiesto, può confortare con una mano sulla spalla o può incoraggiare una domanda che vede affiorare alle labbra. Il parente che non capisce buona parte di ciò che il medico gli dice, invece, ha, nel colloquio di persona, due grandi vantaggi: leggere sulla faccia del medico se le notizie sono buone o cattive e, vedendolo, interpretare lo stato generale del malato. Nei colloqui telefonici noi medici restiamo unici occhi e dispensatori di conoscenza di chi sta all’altro capo del telefono e in pochi minuti dobbiamo riassumere concetti complessi senza alcun aiuto visivo e non verbale. Come sintetizzare una serie di parametri in poche parole comprensibili a casa? Molto spesso non capiamo neanche noi come vadano i pazienti, figuriamoci se siamo in grado di spiegarci in modo facile. Ha una frequenza respiratoria leggermente più elevata di ieri, ha avuto di nuovo la febbre, l’ecografia sembra un po’ meglio. È sostanzialmente uguale a ieri… ma loro il malato non l’hanno visto né ieri, né ieri l’altro e forse neanche una settimana fa: che significato dare a queste parole? Chi è a casa non ha mai visto un casco, una maschera da ventilazione, un paziente intubato, una terapia intensiva, ciò che gli raccontiamo è più che mai oscuro e quello che vorrebbero sapere non glielo diciamo. Ho perso il conto delle volte, in questi giorni, che mi sono sentita dire: “Guarirà?”. E non conta quanto siamo espliciti nella comunicazione: chi ha qualcuno a cui tiene in ospedale cerca di appigliarsi a ogni condizionale per credere che andrà tutto bene, per cercare nella nostra voce un filo di speranza.