Dalla letteratura

Essere oncologo
secondo Philip Salem

Philip A. Salem ha una lunga storia professionale tra Libano e Stati Uniti, dove oggi è Director Emeritus del Cancer Research al Baylor/St. Luke’s Episcopal Hospital. Molte e prestigiose le tappe che lo portano oggi a ritenere che il più grande successo degli Stati Uniti sia la medicina americana: «Persone provenienti da tutto il mondo vengono negli Stati Uniti per ricevere il miglior trattamento». Eppure, qualcuno vorrebbe distruggere questo patrimonio fatto di conoscenza, speranza, capacità formativa, perseveranza e coraggio.

Ne ha parlato in una sorta di editoriale pubblicato su ASCO Post pochi giorni prima dell’avvio di un’edizione del grande congresso dell’oncologia statunitense rivoluzionata dall’emergenza pandemica1.

«La conoscenza da sola non basta» sostiene Salem, perché le persone malate di cancro «hanno bisogno di cure capaci di andare oltre la medicina, del tempo necessario per parlare con i loro medici di paure, ansia, preoccupazioni e, soprattutto, del timore di perdere la loro dignità». Il problema è nella mancanza di tempo sofferta dal medico, immerso in un lavoro burocratico e amministrativo che lo distoglie dalle cose più rilevanti della sua professione. Dare speranza dovrebbe essere uno degli obiettivi del suo lavoro: «È impossibile per i pazienti combattere e perseverare nella lotta per riguadagnare la vita», spiega Salem, ma non è in discussione «il diritto del malato di conoscere la verità: tuttavia, credo che dire la verità sia un’arte complessa e che la verità non debba mai essere offerta a spese della speranza». Salem va oltre: «Non solo i pazienti con cancro devono conoscere la verità, ma devono anche conoscere profondamente la loro malattia, poiché questa è una componente integrante del trattamento».

Un’altra delle principali chiavi del successo nel trattamento del cancro è la perseveranza. «Il viaggio per sconfiggere il cancro è brutale e lungo, così che la perseveranza del malato è della massima importanza. Tuttavia, ho imparato dall’esperienza che la perseveranza da parte dei medici è ancora più importante della perseveranza da parte dei pazienti. Un trattamento può rivelarsi inefficace una, due o tre volte, ma sia il medico sia il paziente devono perseverare». Nonostante tutto, però, bisogna imparare dal fallimento. «Ho imparato che il fallimento è la stessa strada che ti porta al successo. Non si può raggiungere il successo senza attraversare il fallimento. Dovrebbe essere un’opportunità per imparare». Si dovrebbe avere il coraggio di andare avanti, concentrandosi su ciò che è meglio per i pazienti senza sentirsi vincolati da ciò che è considerato lo standard delle cure.

La medicina è uno sport di squadra: «Come medico, devi lasciare il tuo ego a casa prima di venire al lavoro, devi ascoltare e rispettare le opinioni degli altri» perché le relazioni sono educative: «Raramente ho partecipato a una discussione di gruppo senza imparare qualcosa di nuovo».

E l’assistenza sanitaria è un problema di diritti umani. «La più grande vergogna di un Paese è avere un cittadino che non può ricevere cure mediche perché non può permetterselo economicamente. Il diritto alla vita è il più sacro e dovrebbe essere il diritto umano più importante. Non riesco a pensare a un altro diritto umano che potrebbe sostituire il diritto alla vita. Ogni altro diritto umano scompare al confronto».

Bibliografia

1. Salem PA. What have I learned in more than half a century in cancer medicine? ASCO Post 2020; 25 maggio.

Fabio Ambrosino




CoViD-19:
non siamo in guerra

Un nemico invisibile. Anche il supplemento del Corriere della sera, La lettura, del 24 maggio torna sul luogo comune della guerra al virus raccontando dell’esercito svizzero che ha realizzato una grande mappa «per riprodurre il fronte, analizzare movimenti e punti critici». A parte la dubbia utilità di un plastico con edifici e pupazzi in epoca digitale, sarebbe bastata la data di pubblicazione dell’articolo per suggerire un sovrappiù di difficoltà a difenderne la tesi: altro che “raggiunger la frontiera e far contro il nemico una barriera”. La guerra ha bisogno di confini ed è chiaro che l’ultima cosa che può contenere una pandemia è proprio una frontiera politica. «Ogni giorno che passa ci accorgiamo che il CoViD-19 non conosce confini e richiede una risposta unitaria a livello globale»1.

«Non è una guerra – ha scritto Annamaria Testa già due mesi fa – e dunque è tremendo e inaccettabile che per “combatterla” muoiano medici e infermieri: non sono “soldati” da mandare in “battaglia”, pronti a compiere un “sacrificio”. Usare il frame della guerra per implicare, insieme all’eroismo, l’ineluttabilità del “sacrificio” è disonesto e indegno»2. Giustamente Testa chiede di essere meno pigri e di resistere alla tentazione di ricorrere a una metafora consumata, come Susan Sontag aveva spiegato quarant’anni or sono. Tanto più che un’entità-concetto come il virus non ne avrebbe davvero bisogno, considerata la sua forza evocativa. Usare correttamente le parole è,, la conseguenza dell’avere le idee chiare, ma è anche la condizione per affrontare i problemi in modo razionale.

Come ha ricordato Costanza Musu su The conversation3, la metafora della guerra è stata usata da tanti leader politici, da Trump a Macron, e porta con sé un rischio enorme: quello di trasformare i professionisti sanitari in soldati. La retorica della guerra pretenderebbe che sia accettabile uscire dalle trincee senza protezione, arruolare “ragazzi del ’99” privi di esperienza o riservisti ormai anziani e ancora più vulnerabili di fronte al virus. Tutti aspetti peraltro che hanno caratterizzato la prima fase della pandemia: mancanza di dispositivi di protezione per i professionisti sanitari, coinvolgimento di specializzandi e medici in pensione. Continuare a sostenere di essere in guerra – scrivono Elliott Ackermamn e Allan S. Detsky sul Time4 – renderebbe per certi aspetti normale o comunque inevitabile la morte di tanti professionisti che l’impreparazione dei sistemi sanitari ha esposto a rischi che avrebbero potuto essere prevenuti. Siamo (semplicemente) dei medici e non per questo dobbiamo diventare degli eroi per essere caduti sul campo, scrive la neurologa Adina Wise sullo Scientific American5: al medico non può essere chiesto di assistere un malato in ospedale “a ogni costo” mettendo in pericolo la propria vita solo per le inefficienze del sistema sanitario.

C’è anche un altro aspetto da considerare: in tempo di guerra qualsiasi dissenso non è tollerato: qualsiasi critica può essere giudicata come una manifestazione di disfattismo e chiunque prenda le distanze da decisioni di politica sanitaria potrebbe essere definito un disertore. È essenziale analizzare la crisi sanitaria che stiamo attraversando, non solo per mettere a fuoco eventuali responsabilità che ne hanno aggravato l’impatto sanitario e sociale, ma soprattutto per cambiare l’assetto e le dinamiche del sistema rendendolo meno vulnerabile. «SARS-CoV-2 colpisce preferibilmente coloro che sono più vulnerabili, meno ricompensati e più invisibili alle persone che detengono il potere», nota Richard Horton sul Lancet6.

Sarebbe un’occasione perduta se, dichiarando guerra al virus, pensassimo di poter rinunciare a interrogarci con severità sul modello di sviluppo che ha contribuito al determinarsi di questa tragedia. «Dobbiamo chiederci che tipo di società desideriamo dopo che la pandemia si sarà esaurita. Non è troppo presto, anzi è essenziale, pensare al nostro futuro comune»7.

Bibliografia

1. Cassandro D. Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore. Internazionale 2020; 22 marzo.

2. Testa A. Smettiamo di dire che è una guerra. Internazionale 2020; 30 marzo.

3. Musu C. War metaphors used for Covid-19 are compelling but also dangerous. The Conversation 2020; 8 aprile.

4. Ackermann E, Detsky SA. Why comparing the fight against Covid-19 to a war is ethically dangerous. Time 2020; 7 maggio.

5. Wise A. Military metaphors distor the reality of Covid-19. Scientific American 2020; 17 aprile.

6. Horton R. Offline: a global health crisis? No, something far worse. Lancet 2020; 395: 1410.

7. Horton R. Offline: COVID-19. What countries must do now. Lancet 2020; 395: 1100.

Rebecca De Fiore




Il tempo del cambiamento

Una delle narrative prevalenti in questo periodo di pandemia è che il futuro dell’assistenza sanitaria sarà sempre più affidamento sulle cure a distanza, sulla telemedicina e la medicina digitale. Per qualcuno, però, i messaggi da portare a casa quando la CoViD-19 sarà solo un ricordo drammatico sono diversi.

Le dieci cose che si è annotato Luis Eduardo Pino V vanno in una direzione opposta1.

«Cercherò un diverso equilibrio tra lavoro e vita privata sia per i malati di cui mi prendo cura, sia per me stesso: sarà la cosa alla quale più farò caso. Aumenterò le occasioni di incontro personale con i pazienti: vederli, parlare con loro e ascoltarli. Userò la tecnologia solo quando la situazione lo giustificherà. Continuerò a valutare le prove incrociandole con le aspettative dei malati, avendo cura di considerare anche i risultati della ricerca qualitativa e le evidenze che mi proporranno i pazienti e i loro caregiver. Le analisi di farmacoeconomia mi aiuteranno a utilizzare quei protocolli che saranno capaci di aumentare il tempo libero dalle prestazioni sanitarie per i malati e userò le matrici di priorità per capire cosa voglio davvero e come ridurre lo stress».

Il cardiologo colombiano – che lavora alla Fundación Santa Fe di Bogotá – crede che il dramma che stiamo attraversando possa suggerire un atteggiamento più prudente anche riguardo quella che definisce l’illusione terapeutica: «Sarò più prudente nel credere che nell’efficacia degli interventi». Ancora: «Parlerò di più con i miei colleghi, non solo per condividere e apprendere questioni che riguardano la professione, ma anche perché sono circondato da persone fantastiche che possono aiutarmi a crescere». Alleggerire il peso delle attività amministrative è l’ottavo punto segnato sul suo decalogo, seguito dall’intenzione di misurare i risultati della propria attività clinica.

Infine: «Aumenterò le interazioni sociali e sarò più attento a godere della natura. Tornerò ogni giorno in famiglia con gratitudine. Lascerò fuori dalla porta di casa i brutti ricordi, la fatica quotidiana e l’energia negativa per essere una persona migliore e, quindi, anche un oncologo migliore».

Bibliografia

1. Pino V LE. Ten changes I will make in my oncology practice as a result of Covid-19. Asco Post 2020; 25 maggio.

Rebecca De Fiore




Trump, la Cina e l’Organizzazione mondiale della sanità

«La Cina ha il controllo totale sull’Organizzazione mondiale della sanità (OMS)» e per questo motivo gli Stati Uniti «oggi chiuderanno il rapporto con l’OMS». Apparentemente il presidente Donald Trump non ha dubbi e ha annunciato una decisione destinata a mettere in grandi difficoltà il principale ente sanitario internazionale. Annuncio ancora più grave avvenendo nel mezzo della pandemia di coronavirus. Parlando venerdì 29 maggio, Trump ha ribadito la sua accusa secondo cui l’organizzazione non è riuscita a mettere in guardia il mondo dai pericoli del coronavirus in modo tempestivo a causa delle pressioni di Pechino. L’OMS avrebbe fatto troppi errori, lasciando che le offerte di sostegno alla Cina fossero ignorate1 e prendendo per buone delle false rassicurazioni sull’assenza di evidenze sulla trasmissione tra umani della CoViD-19.

Non è chiaro se Trump sia realmente nelle condizioni di poter prendere una decisione del genere senza interpellare il Congresso degli Stati Uniti2. La costituzione dell’OMS3 non sembra prevedere che una Nazione abbandoni l’Organizzazione. Per questa ragione, nel 1948 il parlamento statunitense approvò una risoluzione che recita: «Nell’adottare questa risoluzione comune, il Congresso lo fa con la consapevolezza che, in assenza di disposizioni nella Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità per il ritiro dall’Organizzazione, gli Stati Uniti si riservano il diritto di recedere dall’Organizzazione con un preavviso di un anno: tuttavia, a condizione che gli obblighi finanziari degli Stati Uniti nei confronti dell’Organizzazione siano pienamente rispettati per l’anno fiscale corrente dell’Organizzazione. (62 Stat. 441, 442 (1948)». Questo significa che anche il congelamento dei finanziamenti più volte minacciato da Trump (l’ultima volta il 18 maggio scorso) non sarebbe legale4. A ogni modo, 400 milioni di dollari sono già stati bloccati da Trump, ma la cifra complessiva che potrebbe venire a mancare al bilancio dell’OMS sarebbe doppia5.

Le reazioni all’ennesima provocazione presidenziale non si sono fatte aspettare. «La revoca dell’adesione degli Stati Uniti potrebbe, tra le altre cose, interferire con le sperimentazioni cliniche che sono essenziali per lo sviluppo dei vaccini, di cui hanno bisogno i cittadini degli Stati Uniti e di altri Paesi nel mondo. E abbandonare l’OMS potrebbe rendere più difficile lavorare con altre nazioni per fermare i virus prima che arrivino negli Stati Uniti», ha dichiarato a National Public Radio il senatore repubblicano Lamar Alexander7. «Gli Stati Uniti hanno contribuito a creare l’Organizzazione mondiale della sanità. E le stiamo voltando le spalle: stiamo voltando le spalle al mondo. Ciò ci rende meno sicuri, rende il mondo meno sicuro», ha detto Tom Frieden, che in passato ha diretto i Center for disease control and prevention (CDC)7. Il direttore di The Lancet, Richard Horton, ha lanciato su Twitter l’hashtag #wesupportWHO scrivendo «Il Lancet non è un governo. È una rivista scientifica tra migliaia. Ma diamo il nostro sostegno al 100% all’Organizzazione mondiale della sanità in questo momento di crisi. Ci impegniamo a lavorare con l’OMS per utilizzare la migliore scienza per controllare e porre fine a questa pandemia». «Chi guida la medicina americana ha l’obbligo di denunciare la decisione del presidente Trump di ritirarsi dall’Organizzazione mondiale della sanità», ha commentato Jerome Kassirer, che è stato direttore di The New England Journal of Medicine. «Tutti i miei amici e colleghi, per la salute pubblica e globale, devono far proprio l’impegno di Richard Horton», ha scritto Holger Schunemann, coordinatore del GRADE Working Group.

La partita è ancora da giocare. Ma, se realmente all’OMS venisse a mancare un finanziamento della portata di quello degli Stati Uniti, le politiche dell’Organizzazione si troverebbero a essere sempre più condizionate dai finanziamenti che giungono da fondazioni o enti di beneficienza. Infatti, sebbene generosi, questo tipo di supporto è quasi sempre vincolato a un utilizzo mirato dei fondi: per lo sviluppo di vaccini, per lo svolgimento di programmi di protezione dalla malaria, per la prevenzione materna e così via. In altri termini, il potere decisionale dell’OMS sarebbe in quel caso davvero messo in discussione.

«Si tratta sempre di attività finalizzate a distrarre l’opinione pubblica e a trovare un capro espiatorio», ha dichiarato a The Guardian il senatore democratico Chris Murphy7, «e perdiamo la nostra capacità di fermare le future pandemie promuovendo la Cina a potenza di riferimento mondiale per la salute globale. Che incubo».

Bibliografia

1. McNeill Jr DG, Kanno-Yungs Z. CDS and WHO offers to help China has been ignored for weeks. New York Times 2020; 7 febbraio.

2. Galbraith J. The President’s power to withdraw the United States from international agreements at present and in the future. AJIL Unbound 2017; 111: 445-9.

3. Costituzione della WHO.

4. Galbraith J. The US cannot withdrawal from the WHO without first paying its dues. Just Securty 2020; 26 maggio.

5. Ward A. Trump threatens to permanently cut WHO funding if it doesn’t reform in 30 days. Vox 2020; 19 maggio.

6. Ward A. Trump wants to withdrawal from the WHO. It’s unclear if he can do that. Vox 2020; 29 maggio.

7. Borger J. Trump announces US to sever all ties with WHO. The Guardian 2020; 29 maggio.

Fabio Ambrosino




Vaccini: negli Stati Uniti comanda un venture capitalist

Moncef Slaoui è il ricercatore nominato Chief advisor della Operation Warp Speed dalla amministrazione Trump. Il generale Gustave E. Perna è il suo vice. Si tratta di un programma per lo sviluppo di vaccini e terapie per la CoViD-19 condotto in modo collaborativo tra istituzioni pubbliche e aziende private. Tra gli enti federali che partecipano all’iniziativa ci sono il Department of health and human services, i National institutes of health, la Food and drug administration e i Centers for disease control and prevention.

Slaoui è un venture capitalist che ha da poco superato i sessant’anni e che può vantare una lunga carriera dirigenziale in GlaxoSmithKline. Più di recente, ha fatto parte del board di Moderna, l’azienda che ha annunciato promettenti risultati per il proprio vaccino in fase 1 e che oggi deve rispondere alle critiche di chi sostiene che l’industria abbia fino a oggi prodotto molte parole ma nessun dato1.

Dopo le recenti dichiarazioni, il valore delle azioni di Moderna possedute da Slaoui è passato da 2,4 a 12,4 milioni di dollari. Al suo patrimonio vanno aggiunti i 10 milioni di dollari in azioni di GSK. Resta socio anche della società Medicxi e conserva la propria posizione nel comitato di consulenza della SutroVax, che ha raccolto di recente 110 milioni di dollari da investitori e sta sviluppando un vaccino per la polmonite. Resta anche nel board di Divide & Conquer e Monopteros, che operano nella ricerca di terapie oncologiche2.

«It is a huge conflict of interest for the White House’s new vaccine czar to own $١٠ million of stock in a company receiving government funding to develop a COVID-١٩ vaccine: Dr. Slaoui should divest immediately», ha commentato la senatrice Elizabeth Warren.

Che si tratti di conflitto o di convergenze di interessi, ormai quasi importa poco. Piuttosto fanno riflettere i numeri e il peso che a loro è assegnato a seconda del punto di vista e del ruolo di chi osserva: la Politica, l’Industria o la Sanità pubblica.

Bibliografia

1. Branswell H. Vaccine experts say Moderna didn’t produce data critical to assessing Covid-19 vaccine. Stat 2020; 14 maggio.

2. Kaplan S, Goldstein M, Stevenson A. Trump’s vaccine chief has vast ties to drug industry, posing possible conflicts. The New York Times 2020; 20 maggio.

Rebecca De Fiore

Il pasticciaccio brutto
di London Wall

Il 22 maggio 2020 The Lancet pubblica un’analisi svolta su un registro che raccoglie dati di oltre 96 mila pazienti ricoverati in 671 ospedali di sei continenti con diagnosi di CoViD-191. La raccolta dei dati è opera di Surgisphere, una società con sede a Chicago. Di questi malati quasi 15 mila sono in terapia con clorochina o idrossiclorochina associate o meno a un antibiotico macrolide. Il risultato dell’analisi dice che gli schemi di terapia con i farmaci considerati non garantiscono benefici rispetto agli altri trattamenti, sono associati a una maggiore mortalità nel corso del ricovero e a un aumento degli episodi de-novo di aritmia ventricolare. Rapidamente, una serie di commenti critici sullo studio inizia a essere pubblicata su blog e su siti di post publication peer review come PubPeer.

Il 23 maggio 2020 si riunisce il comitato esecutivo dello studio Solidarity promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità e sospende temporaneamente il braccio di studio con idrossiclorochina per motivi precauzionali2. Il 26 maggio 2020 l’Agenzia italiana del farmaco decide di confermare le sperimentazioni controllate randomizzate che prevedono l’uso di idrossiclorochina (e di clorochina, come precisato il 29 maggio) ma di sospendere l’autorizzazione all’uso del farmaco al di fuori di sperimentazioni. Il 28 maggio 2020 una lettera aperta di 17 ricercatori mette in dubbio la credibilità di qualsiasi società sia capace di raccogliere in poco tempo così tanti dati di pazienti ricoverati in ospedali nel continente africano3. Lo stesso giorno, il quotidiano The Guardian pubblica un articolo in cui evidenzia delle incongruenze nello studio tra cui un numero di morti per CoViD-19 in Australia maggiore di quanto non sia stato denunciato fino allora dalle autorità sanitarie di quella nazione4.

Il 3 giugno 2020 The Lancet pubblica una Expression of concern per avvertire i lettori delle importanti questioni che sono state segnalate alla rivista in merito all’articolo5. Il 4 giugno 2020 il New England Journal of Medicine ritira l’articolo Cardiovascular Disease, Drug Therapy, and Mortality in Covid-19 ugualmente basato su dati raccolti da Surgisphere6. Il 5 giugno 2020 The Lancet ritira l’articolo Hydroxychloroquine or chloroquine with or without a macrolide for treatment of COVID-19 spiegando che «i nostri revisori indipendenti ci hanno informato che Surgisphere non avrebbe consentito l’analisi del set di dati completo, dei contratti con i clienti e del rapporto di audit ISO per non violare gli accordi con i clienti e i requisiti di riservatezza. Pertanto, i nostri revisori non sono stati in grado di condurre una revisione tra pari indipendente e pertanto ci hanno notificato la loro rinuncia alla conduzione del processo di peer review».

Siamo solo all’inizio di un affaire che potrebbe gettare luce sulle dinamiche della produzione di informazioni scientifiche e sulla loro disseminazione. Vediamo alcuni dei punti critici sui quali riflettere.

La comunicazione scientifica è un gioco delle parti? Ricostruire la vicenda espone a strane sorprese come quella di vedere che la lettera di richiesta di ritiro dell’articolo uscito sul New England6 è firmata anche da Sapan S. Desai, il proprietario di Surgisphere.

A che serve la peer review? Non a controllare l’affidabilità delle fonti da cui provengono i dati: «La peer review non è uno strumento per scoprire la frode. I revisori (e i direttori delle riviste) possono solo esaminare ciò che hanno davanti, una descrizione di uno studio che devono prendere per buona. Se la fiducia è tradita, tutto viene a mancare», ha commentato Richard Horton, direttore di The Lancet, su Twitter. Non tutti sono d’accordo con Horton: «Prima di pubblicare gli studi, i ricercatori e le riviste avrebbero dovuto porsi ulteriori domande su come un set di dati così completo fosse stato raccolto dagli ospedali di tutto il mondo nel mezzo di una pandemia», ha dichiarato a Nature Wendy Rogers, bioeticista della Macquarie University di Sydney. «È sempre più facile col senno di poi», dice, «ma in generale con la ricerca sulla covid-19, c’è stata una tale corsa che vengono pubblicati tutti i tipi di documenti davvero terrificanti»7. Un portavoce del NEJM ha ammesso qualche responsabilità a proposito dell’articolo uscito sulla rivista: «L’articolo aveva passato una peer review esterna e una revisione statistica, nonché l’editing scientifico sul manoscritto. Tuttavia, come faremmo con qualsiasi incidente di questo tipo, stiamo rivedendo le nostre procedure, compreso il modo col quale valutiamo la ricerca che parte da grandi set di dati basati su cartelle cliniche elettroniche»7.

Se i revisori non c’entrano, è colpa di chi dirige le riviste? A questo riguardo, ci sono centinaia di commenti e di ogni tipo. «Criticare le riviste e i loro direttori per il fallimento del sistema – per la mancanza di integrità dei ricercatori, per l’assenza di un impegno di chi finanzia gli studi a rendere accessibili i dati, e così via) dimostra una mancanza di conoscenza della dura realtà dell’editoria scientifica», ha scritto sempre su Twitter l’oncologo indiano C. S. Pramesh.




Quale sta diventando il modello di business delle case editrici scientifiche? Surgisphere nasce come editore di libri di testo di medicina per poi diventare un’agenzia di servizi basata sulla raccolta ed elaborazione di dati proveniente da cartelle cliniche digitali, messi a disposizione di industrie farmaceutiche e di ricercatori. Non più di cinque persone riescono a produrre articoli potenzialmente capaci di orientare un giro di affari milionario. La responsabile delle vendite è Arianne Anderson, modella per siti per adulti che qualcuno sostiene sia in realtà una famosa pornostar, Skye Daniels.

La medicina accademica funziona come il calcetto del martedì? La University of Utah ha congedato uno dei firmatari degli studi sotto esame, Amit Patel7. «Avevo terminato verbalmente la mia affiliazione con l’università dello Utah più di una settimana fa e formalmente venerdì scorso», ha scritto su Twitter. «L’università lo comunicherà attraverso vari media. Ma c’è dietro una storia molto più grande per la quale non ho ancora le informazioni». Ha proseguito in modo ancora più inquietante: «E la storia non è che io sia imparentato con il dottor Desai per un matrimonio. Questa è una vecchia notizia. Molte persone del Brigham erano a quel matrimonio e i media lo sapevano. Nonostante tutto questo, non so cosa sia accaduto con Surgisphere. Ma dev’esserci qualcuno che lo sa». Insomma: tre clinici di altrettante università (due statunitensi e una europea, Zurigo) decidono di mettersi insieme per firmare (evidentemente non per scrivere) uno studio basato su una banca dati di cui ignorano le fonti e l’attendibilità. Come si sono scelti tra loro? Per essersi incontrati a un matrimonio?

Possiamo fidarci dei real world data? Può essere una scommessa rischiosa. «La gente si interroga sui dati di Surgisphere ma forse dovrebbe chiedersi più in generale come le società di questo tipo acquisiscono i dati sanitari. I pazienti o i sistemi sanitari sanno chi ha i loro dati?». Difficile trovare risposta alla domanda del giornalista del Financial Times9.




Il colpo inferto alla credibilità del Lancet e del New England Journal of Medicine è fortissimo. Ancora più pesanti potrebbero essere le conseguenze se i retroscena annunciati da Amit Patel venissero fuori. È impensabile che Surgisphere abbia deciso di avviare questa operazione (due lavori contro l’idrossiclorochina e uno a favore dell’ivermectina sempre nella covid-19 uscito su un archivio di preprint, ora cancellato ma ancora disponibile su un archivio privato10, senza contare su indicazioni precise sugli obiettivi e su adeguati finanziamenti.

La speranza è che siano proprio le persone più colpite a cercare di invertire la rotta. Come mi scrive Richard Horton: «I ricercatori devono essere indipendenti: le strutture attuali li rendono complici».

Bibliografia

1. Mehra MR, Desai SS, Ruschitzka F, Patel AN. Hydroxychloroquine or chloroquine with or without a macrolide for treatment of COVID-19: a multinational registry analysis. Lancet 2020; 22 maggio.

2. World Health Organization. “Solidarity” clinical trial for COVID-19 treatments. Who. https://bit.ly/2Amkf7h

3. Watson J. An open letter to Mehra et al and The Lancet. 2020; 28 maggio. https://bit.ly/3cL8VP7

4. Davey M. Questions raised over hydroxychloroquine study which caused WHO to halt trials for Covid-19. The Guardian 2020; 28 maggio.

5. The Lancet Editors. Expression of concern: Hydroxychloroquine or chloroquine with or without a macrolide for treatment of COVID-19: a multinational registry analysis. Lancet 2020; 3 giugno.

6. Retraction: cardiovascular disease, drug therapy, and mortality in Covid-19. N Engl J Med 2020; 4 giugno.

7. Ledford H, Van Noorden R. High-profile coronavirus retractions raise concerns about data oversight. Nature 2020; 5 giugno.

8. Herper M, Sheridan K. Researcher involved in retracted Lancet study has faculty appointment terminated, as details in scandal emerge. Stat 2020; 7 giugno.

9. Mure D, Mancini DP, Kuchler A. Edinburgh disavows Surgisphere claims of co-operation with NHS Scotland. Financial Times 2020; 6 giugno.