Dalla letteratura

CoViD-19 non è una pandemia

«Mentre il mondo si avvicina a 1 milione di morti per CoViD-19, dobbiamo accettare il fatto che stiamo adottando un approccio troppo limitato per gestire l’outbreak del nuovo coronavirus. Abbiamo inquadrato la causa di questa crisi come una malattia infettiva. Tutti i nostri interventi si sono concentrati sull’interruzione delle linee di trasmissione virale, controllando così la diffusione del patogeno. La “scienza” che ha guidato i governi è stata orientata principalmente da esperti di modellistica delle epidemie e specialisti in malattie infettive, che comprensibilmente inquadrano l’attuale emergenza sanitaria come se si trovassero di fronte ad un’antica pestilenza. Ma quanto abbiamo imparato finora ci dice che la storia di CoViD-19 non è così semplice. Due categorie di malattie interagiscono all’interno di gruppi specifici di popolazioni: la sindrome respiratoria acuta grave e una serie di patologie non trasmissibili. Queste condizioni si manifestano all’interno dei gruppi sociali secondo pattern di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società. Il concentrarsi di queste malattie su uno sfondo di disparità sociale ed economica inasprisce gli effetti negativi di ogni singola malattia. CoViD-19 non è una pandemia. È una sindemia. La natura sindemica della minaccia che affrontiamo significa che è necessario un approccio più sfumato se vogliamo proteggere la salute delle nostre comunità»1. L’apertura della Offline del direttore del Lancet, Richard Horton, è un intervento politico, certamente non neutrale. Ma andiamo per gradi: di cosa parliamo quando parliamo di sindemia?




«Il concetto di modello sindemico è stato introdotto negli anni Novanta del secolo scorso da un antropologo medico, M. Singer», spiega Giampaolo Collecchia su questa rivista, Recenti Progressi in Medicina2. E prosegue: «Il termine sindemico, sottoutilizzato e (relativamente) nuovo per una concettualizzazione in realtà nota, è la crasi delle parole sinergia, epidemia, pandemia ed endemia. […] In particolare, si propone di approfondire l’interazione sinergica tra due o più malattie e le situazioni sociali in cui le condizioni patologiche si realizzano, considerando non solo la classica definizione biomedica delle tipiche condizioni di comorbilità, ma anche, con uno sguardo allargato, l’interazione tra fattori genetici, ambientali e di stile di vita. Con le parole dello stesso Singer: “Syndemics are the concentration and deleterious interaction of two or more diseases or other health conditions in a population, especially as a consequence of social inequity and the unjust exercise of power”».

CoViD-19 ha attraversato paesi diversi lasciando gli stessi lutti. In Australia come nel Regno Unito, in Italia o in America Latina i più colpiti sono le persone più svantaggiate: anche le residenze per anziani che hanno fatto registrare il maggior numero di decessi sono quelle dei quartieri più poveri e i cittadini più colpiti sono quelli con impieghi precari, obbligati a recarsi al lavoro con i mezzi pubblici anche nel momento di maggiore crisi3. Al tema dell’equità in rapporto con la pandemia è dedicata un’ampia sezione del documento redatto dalla CoViD-19 Commission del Lancet, pubblicata online a metà settembre. Disuguaglianze non solo economiche ma anche di genere (le donne molto più colpite socialmente e professionalmente) e di etnia (le popolazioni migranti stanno pagando il prezzo più alto in molte nazioni).

Pensare all’ospedale come il solo setting per la presa in carico dei malati di CoViD-19 non è stata una buona idea anche perché sono i medici di medicina generale ad avere ben presente l’importanza dei determinanti socioeconomici e culturali nella storia della malattia. Il medico di famiglia, sottolinea Collecchia, «sa che lo stile di vita riflette la risposta adattativa al bisogno di integrazione tra la cultura del singolo e quella della comunità di appartenenza, una caratteristica quindi più della società che degli individui».

Fin quando i governi non metteranno in atto delle politiche capaci di ridurre o addirittura di annullare le profonde disuguaglianze che permangono nelle società occidentali, non ci sarà alcuna difesa da emergenze come quella che stiamo attraversando.

«Una logica sindemica dovrebbe condurre alla ricerca/sperimentazione di profili di salute per una presa in carico dei diritti di cittadinanza delle persone, identificare i gruppi di popolazione a rischio e analizzare le diseguaglianze nella salute mediante interventi settoriali e intersettoriali rivolti a specifici determinanti di salute (ambiente, lavoro, stili di vita, ecc.)», scrive Collecchia. «È necessaria per questo una evidence-based policy, peraltro difficile da realizzare, per motivi tecnici, per esempio la necessità di una multidimensionalità degli interventi e dell’integrazione di dati qualitativi e quantitativi, ma soprattutto culturali, legati alla controcultura medicalizzante della società e del mercato delle malattie».

Bibliografia

3. Henrique-Gomes L. “We should not pretend everybody is suffering equally”: Covid hits Australia’s poor the hardest. The Guardian 2020; 26 settembre.

CoViD-19: le immagini servono a responsabilizzare

Al Toronto International Film Festival è stato presentato76 Days, il primo lungometraggio sulla pandemia di coronavirus. Girato da Hao Wu, Weixi Chen e da un film maker che ha preferito firmarsi così: “Anonymous”. Settantasei giorni, come il tempo del primo lockdown imposto alla città di Wuhan, dove il film è ambientato1.




Il documentario si concentra su quattro diversi ospedali della città in cui la malattia è stata identificata per la prima volta. Prima protagonista è la sensazione di chiusura: di edifici ospedalieri presidiati e interdetti alla maggioranza dei cittadini e di una città deserta. Come ha scritto David Sims su The Atlantic2, la sorpresa maggiore è però la distanza tra le emozioni trasmesse dal film e quelle provate ancora in questi giorni dai cittadini statunitensi: in Cina si guarda alla pandemia come a un dramma vissuto e superato, mentre l’altra parte del mondo sta ancora attraversando la tragedia.




Le prime scene sembrano quelle di un film di George Romero: operatori ospedalieri che si barricano dietro le porte dell’ospedale respingendo pazienti che si lamentano di quanto faccia freddo là fuori. È il disperato tentativo di fermare la diffusione del virus. Non ci sono voci fuori campo, c’è poco da spiegare.

«76 Days» – ha commentato Peter Bradshaw su The Guardian – «non è un documentario incisivo sull’epicentro della pandemia covid-19: forse un film del genere arriverà più lentamente del vaccino, ma è una storia potente e umana, ritratto di una città sotto assedio».

Le immagini sono uno strumento potente, ha osservato Sarah Elizabeth Lewis su The New York Times, «possono aiutarci a comprendere più a fondo la gravità della situazione mentre lavoriamo per arginare il virus»3. «Ma le immagini di cui abbiamo più bisogno in questo periodo sono difficili da trovare», faceva notare Neil Genzlinger sullo stesso quotidiano4. «Ho pensato a Maurice quando un amico che vive a Milano, che è stato tra i primi casi di coronavirus diagnosticati in Italia, mi ha inviato questo sms a marzo: “Se le persone potessero vedere com’è negli ospedali, starebbero a casa”». Maurice era un famoso critico fotografico statunitense, morto nel marzo scorso probabilmente a causa del coronavirus nella sua casa nel New Jersey.




Delle molte narrazioni che riguardano CoViD-19, una tra le più pervasive vuole che il virus non sia così pericoloso per la maggior parte delle persone: «76 Days è un’istantanea della realtà, ambientata in spazi in cui tutti sono ammalati per la malattia o lottano per curarla», leggiamo nel commento della Lewis4. «Il documentario costituisce solo un pezzo di un quadro molto più ampio, ma è comunque un frammento vitale. […] Tuttavia, mentre vedremo le città chiuse e le strade vuote, rimarrò concentrata sull’assenza di qualcos’altro: un archivio visivo rappresentativo dello sbalorditivo bilancio umano della crisi da cui potrebbero emergere, nel tempo, le nostre immagini emblematiche. Affinché la società possa rispondere in modi commisurati all’importanza di questa pandemia, dobbiamo vederla. Affinché possiamo essere trasformati da esso, deve penetrare i nostri cuori così come le nostre menti».

Questo archivio inizia a prendere forma anche grazie a contributi italiani, come ha dimostrato l’ultima edizione del festival Cortona on the move5. Assente immotivato nella città toscana, il reportage del giornalista e fotografo Claudio Colotti, che ha passato giornate intere all’interno dei reparti CoViD-19 dell’ospedale universitario di Torrette di Ancona: il suo reportage è uscito su INK (supplemento di Recenti Progressi in Medicina) ed è integralmente online6. «Ho preferito contestualizzare il mio lavoro fotografico all’interno dei reparti covid-19 perché sentivo che quelli erano i luoghi apicali di solitudine, paura e dolore”, spiega a Senti chi parla. «Sentimenti che, in misura ampiamente ridotta, tutti i cittadini stavano sperimentando al chiuso delle proprie abitazioni, ma che a mio avviso non giustificavano i sempre più crescenti segni d’insofferenza di alcuni segmenti della popolazione nei confronti delle restrizioni imposte dal lockdown. Volevo, da un lato, che questo mio lavoro servisse a responsabilizzare le persone, far capire loro quanto insidioso e crudele fosse il coronavirus per i pazienti ospedalizzati, costretti ad affrontare una malattia ignota e mortale lontani dai propri affetti. Dall’altro, che emergesse lo strenuo impegno degli operatori sanitari di colmare questa lacuna affettiva attraverso gesti empatici, parole e carezze capaci di passare attraverso il freddo anonimato imposto dai necessari sistemi di protezione. Perché comunque la cura è necessariamente ascolto e dialogo».

Messi di fronte alle immagini di ciò che è accaduto, di quello che sta ancora accadendo, anche i numeri e le statistiche fanno un effetto diverso. Si dice spesso di quanto siano grezzi i numeri, fredde le cifre, ma il graffio di una fotografia può essere certamente più profondo: «Desideravo che il mio stile fotografico tanto asciutto e ruvido facesse da contraltare alla dolcezza delle carezze e degli abbracci che gli operatori sanitari dispensavano ai pazienti CoViD-19», prosegue Colotti. «Gli affetti ritratti da me sono definitivamente impressi nello spazio fotografico, tuttavia se avessi adottato un linguaggio meno rigoroso e più emozionale l’intero lavoro avrebbe assunto una dimensione troppo estetica. Sicuramente sarebbe risultato più “bello” e digeribile ma al contempo anche rassicurante e consolatorio. In una parola: deresponsabilizzante. Quando l’estetica prende il sopravvento il rischio è che vengano meno i contenuti e con essi la capacità di un reportage di rivolgersi alla sfera razionale del lettore. Per un fotogiornalista, fotografare il dolore ha senso solo nell’ottica di far sentire il fruitore di quegli scatti un cittadino responsabile. Prima ancora di commuovere, sento il dovere di muovere il fruitore verso l’assunzione di idee e comportamenti socialmente utili alla collettività».




Colotti ha trascorso intere giornate nei reparti, scattando talvolta alla cieca dietro la visiera appannata e spesso non riuscendo a riconoscere gli operatori che si muovevano intorno a lui. Sempre, però, cercando di conoscere e memorizzare sia le storie di medici e infermieri, sia quelle dei malati. Le fotografie sono sempre accompagnate da un commento, un appunto che è molto più di una didascalia. «Il suo misurato intervento tecnico non si vede ma si sente – ha commentato il neurologo e fotografo Francesco Nonino nel testo introduttivo al portfolio di INK –, sottolineando il clima e le atmosfere, aiutandoci a comprendere che cosa ci sta raccontando ciascuna immagine». L’empatia con cui Colotti si accosta al setting della cura richiama il lavoro di grandi autori come Eugene Richards7, con le sue scene da un reparto di medicina d’emergenza. «Penso che la cosa peggiore per molti [fotografi], o certamente per me stesso – confessò Richards al British Journal of Phtography – sia il fatto che, non importa quello che vedi, sai sempre che puoi andartene. Se sei vicino a persone affamate, avranno ancora fame quando tornerai a casa. Questa è la parte più difficile. Non è una bella sensazione da provare, è una sensazione abbastanza egoista»8.

Cambiamo città: Patrick Schnell è un pediatra, con la passione della fotografia. Il suo reportage è stato realizzato nel Mount Sinai Hospital di Brooklyn, New York. «Il vantaggio di essere medico mi ha permesso di sapere in anticipo i movimenti degli operatori durante alcune procedure, così da poterle meglio riprendere», ha spiegato al New York Magazine9. Una serie di immagini che ci conduce – ci spinge? – all’interno del caos, del dolore, della morte. Forse per effetto del colore, scelta che non è stata la stessa di Colotti. «Nella natura della fotografia c’è una componente descrittiva insopprimibile. Se il fotogiornalista è intellettualmente onesto uno scatto è sempre la testimonianza di uno spazio e di un tempo passati a prescindere dallo stile più o meno contrastato, dal fuori fuoco o dal mosso. A patto che questi ultimi non siano deliberatamente cercati al fine di spettacolarizzare e drammatizzare la rappresentazione. Il bianco e nero, a differenza del colore, ha il vantaggio di rendere tutto più essenziale e privo di quegli orpelli cromatici che potrebbero distrarre il fruitore rispetto al contenuto della fotografia. Questo non significa che il colore è meno adatto a raccontare la realtà, ciò che conta è che in fase di realizzazione l’autore non si lasci suggestionare da come dialogano i colori all’interno del frame ma rimanga concentrato sul fatto che vuole raccontare senza cedere a derive estetizzanti. Cercare la bellezza estetica nella malattia, nel dolore e nella povertà solleverà sempre dubbi etici e morali sull’operato di ciascun fotogiornalista».




I settantasei giorni sono diventati molti, troppi di più. È strano per noi che il documentario cinese presentato a Toronto – così crudo e terribile che un critico cinematografico di The New York Times si è rifiutato di vederlo – abbia una conclusione, un lieto fine: come lo aspettiamo. In queste settimane di preoccupazione, però, facciamo nostre di nuovo le parole della Lewis: «È un sollievo vedere che quegli sforzi funzionano davvero».

Bibliografia

1. Clip 76 Days. 2020. Disponibile su: https://imdb.to/2G70l3e [ultimo accesso 30 settembre 2020].

2. Sims D. 6 Days is unwatchable yet utterly compelling. The Atlantic 2020; 24 settembre.

3. Lewis SE. Where are the photos of people dying of Covid? The New York Times 2020; 1 maggio.

4. Genzlinger N. Maurice Berger, curator outspoken about race, is dead at 63. The New York Times 2020; 26 marzo.

5. Cortona on the move. https://www.cortonaonthemove.com/

6. Colotti C, Nonino F. Covid-19, fotografare la cura. INK 2020; 2. Disponibile su: https://bit.ly/30nWZja [ultimo accesso 30 settembre 2020].

7. Richards E. The knife and gun club. Scenes from an emercency room. Atlantic Monthly Press, 1989.

8. Warner M. Eugene Richards: the run-on of time. British Journal of Photography 2020; 28 settembre.

9. Silman A. The Doctor Holding the Camera. “Today, I was there for maybe five hours. In that time, five patients died”. New York Magazin 2020; 30 marzo.