Cosa ostacola il coinvolgimento del paziente
nella definizione del percorso di cura?

Camilla Alderighi1

1Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Firenze.

Riassunto. Nonostante il corpus di evidenze disponibili a supporto dello shared decision making (SDM), le barriere visibili e nascoste alla sua applicazione nella pratica clinica continuano a ostacolarne la realizzazione. Eppure, lo SDM è uno dei pochi strumenti di cui il medico dovrebbe essere equipaggiato per navigare nell’incertezza, caratteristica intrinseca della medicina stessa. L’articolo fornisce un possibile elenco di ostacoli e soluzioni – dalla formazione universitaria del medico alle linee guida – al reale coinvolgimento del paziente nelle decisioni sulla salute, e prova a indicare quali azioni dovrebbero essere promosse per consentire al medico di curare meglio non tanto il paziente “teorico” e retorico, ma i singoli pazienti reali e quotidiani.

What hinders the patient’s involvement in defining the process of care?

Summary. Despite the available evidence supporting Shared Decision Making (SDM), the hidden-in-plain-sight barriers to its application in clinical practice continue to hinder its achievement. Yet, SDM is one of the most powerful instruments that doctors should be equipped with in order to navigate through uncertainty in medicine. This article provides a potential list of obstacles and solutions – from doctors’ university training to clinical practice guidelines – to patient involvement in health decisions, and indicates which actions could be put in place to allow physicians to better take care of the individual patient they face every day.

Quando si parla di coinvolgimento del paziente, una delle espressioni che viene spesso impiegata è “shared decision making” (SDM). Tra le tante definizioni disponibili, la più chiara recita: «Lo shared decision making […] è una conversazione tra almeno due parti: una parte è il medico, tradizionalmente fonte di expertise e decisioni, l’altra è il paziente, (il s)oggetto delle decisioni ed esperto della sua vita»1. Lo SDM è un concetto che risente dello spostamento, progressivo nel tempo, del focus decisionale dal medico decisore assoluto al paziente. Lo SDM viene in genere ben accolto nella teoria e nelle occasioni pubbliche, purtroppo più che nella pratica quotidiana. Di fatto, lo SDM presenta anche un discreto corpus di evidenze a suo favore.

Secondo uno studio pubblicato sul BMJ2 lo SDM “può”:

migliorare la conoscenza dei pazienti;

ridurre i conflitti decisionali;

aumentare il coinvolgimento dei pazienti;

elicitare aspettative realistiche sulle possibili opzioni;

rendere i pazienti più consapevoli delle proprie preferenze;

ridurre l’overuse di interventi con scarsi benefici attesi e l’underuse di interventi efficaci.

Ma se dovessimo sottolineare un motivo per cui lo SDM dovrebbe essere uno strumento ubiquitario in medicina, questo sarebbe che si tratta di uno dei pochissimi strumenti che abbiamo a disposizione per navigare dentro l’incertezza. Incertezza non solo correlata alla tipologia di pazienti che vediamo quotidianamente – cronici, con multimorbilità e con molti elementi di complessità – ma anche intrinseca alla medicina stessa. Quella riportata nella figura 1 è un’immagine che mette in evidenza come su 3000 interventi terapeutici sottoposti al vaglio degli studi clinici randomizzati, soltanto l’11% risulta di beneficio netto e certo.

Ma allora perché un concetto che ha delle così buone premesse teoriche e un discreto corpus di evidenze viene poco spesso messo in pratica nella quotidianità? E mi riferisco anche a conversazioni mediche apparentemente più “semplici”, come la prescrizione di un antipertensivo o di un ipocolesterolemizzante3 (tabella 1).







Quando parliamo di barriere allo SDM, andrebbero individuate due categorie: una è quella delle barriere così dette “di prima fila”, quelle più evidenti, quelle di cui la letteratura si è occupata molto. L’altra categoria è quella delle barriere cosiddette di seconda, terza, ma anche di quarta fila, barriere cioè molto latenti, nascoste in piena vista, ma non per questo meno importanti. Tra le barriere di prima fila che vengono solitamente citate dai medici intervistati in merito all’impiego quotidiano dello SDM, la prima è l’assunto “lo facciamo già”. Molti medici, molti di noi, sono convinti di mettere in pratica un processo decisionale condiviso nel quotidiano. In realtà, la letteratura dice altro4; nell’ambito delle conversazioni tra noi medici e i pazienti, sono infatti emersi evidenti margini di miglioramento addirittura nell’ambito della prima fase della conversazione, ovvero quella informativa. È notorio che sovrastimiamo gli effetti benefici dei trattamenti e ne sottostimiamo invece i rischi4. Questo conduce necessariamente a conversazioni sbilanciate a favore dei pro rispetto ai contro degli interventi diagnostici o terapeutici. Nella figura 2 è evidente la differenza tra il tempo della conversazione dedicato a parlare dei pro (barra nera), rispetto a quello dedicato ai contro (barra grigia)3. La seconda barriera è rappresentata dall’obiezione “i pazienti non vogliono lo SDM”. È un’obiezione che è stata sollevata anche sul New England Journal of Medicine in un articolo pubblicato alcuni anni fa, in cui veniva rivendicato il diritto del paziente alla preferenza verso un atteggiamento paternalista del medico (“the paternalism preference”)5; in effetti è capitato a tutti noi che qualche paziente ogni tanto deleghi quasi totalmente a noi le decisioni sulla propria salute, ma questa sta diventando sempre più un’eccezione piuttosto che la regola. Infatti, da una rassegna della letteratura (tabella 2)6 si evince come la maggioranza dei pazienti voglia essere progressivamente più coinvolta nel proprio percorso di cura, e questo indipendentemente dall’età, dal grado di educazione e dalla condizione socio-economica. Terza obiezione: “Non abbiamo tempo”. Questa è una barriera reale, e probabilmente risente di un equivoco tra i dati della letteratura e i contesti in cui ci troviamo a operare quotidianamente. La letteratura sottolinea che il tempo di un percorso decisionale condiviso occuperebbe circa il 10% in più rispetto al tempo totale della visita. In realtà, nella mia esperienza di cardiologa, nel momento in cui mi trovo a valutare sul territorio un paziente per la prima volta e devo capirne la storia personale, la storia medica, fare un esame obiettivo, un elettrocardiogramma, e un ecocardiogramma color Doppler, e poi intraprendere con lui o con lei un percorso decisionale, capita spesso di doversi portare il lavoro burocratico a casa per far entrare a viva forza la conversazione in quel tempo che ci è dato, e stiamo parlando di 30-40 minuti, quindi, per una media territoriale, neanche un tempo così esiguo.

“Non abbiamo gli strumenti giusti” o “Non sappiamo ancora bene misurare lo SDM”. Questo potrebbe essere un commento in calce a uno studio recentemente pubblicato su JAMA Internal Medicine7. Questo studio ha un disegno metodologicamente forte.




È uno studio clinico controllato, randomizzato, secondo la tecnica della stratificazione per blocchi di randomizzazione (per aumentare l’omogeneità dei due gruppi), e ha incluso pazienti con fibrillazione atriale non valvolare che consideravano di iniziare o rivalutare il trattamento anticoagulante. I pazienti sono stati randomizzati a due tipi di intervento: una conversazione libera con un medico oppure una conversazione con un medico supportata da uno strumento decisionale. Per quasi tutti gli outcome considerati (Conoscenza e stima del rischio, Conflitto, Tempo, Concordanza, Raccomandazione ad altri dell’approccio impiegato – pazienti e medici –, Coinvolgimento del paziente) e in particolare per i primi quattro, non c’è stata una differenza significativa tra il gruppo di trattamento e il gruppo di controllo; una differenza è stata riscontrata soltanto per due outcome: il primo è la preferenza dei medici, ovvero questi ultimi preferivano alla conversazione libera una conversazione supportata dallo strumento decisionale. Il secondo è relativo al coinvolgimento del paziente – misurato con la Option Scale – risultato maggiore nel gruppo che ha usufruito del supporto decisionale. Se questo da un lato sembrerebbe un outcome di successo per lo studio, sono gli stessi ricercatori a invitarci ad andare oltre: sono andati infatti a vedere in quante di queste conversazioni, apparentemente ad alto coinvolgimento, veniva affrontato per primo e veniva dedicato tempo all’argomento che stava più a cuore al paziente. La percentuale è uno scoraggiante 12,7%. Cosa significa? Probabilmente che lo SDM è un processo complesso che non è facile incasellare e misurare, soprattutto con metriche di tipo quantitativo, spesso, inadeguate. E inoltre, che, probabilmente, molti degli ostacoli alla sua realizzazione sono intrinsechi al sistema, quindi meno evidenti, ma non per questo meno importanti. Forse, se volessimo andare oltre le barriere di prima fila, dovremmo adottare il punto di vista del giovane Holden (quando si domandava: “Sa le anatre che stanno in quello stagno vicino a Central Park South? Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anatre quando il lago gela?”) e porci delle domande apparentemente sciocche, ma che mirano al cuore, anche scomodo a volte, dell’argomento.

Allora proviamo a chiederci, per esempio, chi e cosa rappresenta un medico quando si trova di fronte a un paziente? Ogni medico è anche la summa di diversi input ambientali e intellettivi, che includono il contesto di ricerca e clinico in cui è cresciuto e la formazione che ha ricevuto. Vediamo allora il contesto che ci circonda. Sul piano della ricerca scientifica, la maggioranza degli investimenti nella ricerca biomedica fallisce la propria missione8. Sappiamo che esistono studi clinici randomizzati con conflitti di interesse e di pubblicazione curriculare, che gli endpoint analizzati negli studi spesso non coincidono con quelli che interessano al paziente; sappiamo che purtroppo molti studi servono a promuovere interventi dai benefici marginali e altri non fanno risaltare abbastanza elementi come la qualità di vita o gli effetti tossici o collaterali degli interventi. Quando i risultati di questa ricerca deviata si intersecano con contesti sanitari, territoriali o ospedalieri, contrassegnati da incentivi economici o di potere, questo porta a quella che Victor Montori, nel suo bellissimo libro “Perché ci ribelliamo”9, chiama “la sanità industrializzata”, cioè una sanità in cui la domanda e l’offerta non sono, come dovrebbe essere, guidate dal paziente, ma dal mercato.

Passiamo alla formazione medica. A livello nazionale non esiste un programma standardizzato di formazione nello SDM10. Esistono casi isolati di formazione nel decision making ma non nello SDM. Se poi andiamo a vedere quali sono gli elementi sulla base dei quali valutiamo i futuri candidati medici ai test di ingresso per la facoltà, troviamo domande di biologia, chimica, persino cultura generale, ma un’assenza sconfortante di domande sull’empatia, sulle abilità comunicative e sull’allineamento ai valori e alle preferenze individuali del paziente. Eppure su questi argomenti esistono dei test validati che cominciano a essere applicati da molte università nel mondo. Oxford è una di quelle: tra i criteri di selezione per il Dipartimento di Scienza medica dell’Università di Oxford troveremo quindi una valutazione dell’empatia, delle abilità comunicative e dell’allineamento ai valori del National Health System.

Quindi, in definitiva, noi medici siamo il prodotto di un contesto sanitario e di ricerca, nonché di una specifica formazione. Infine, siamo anche assuefatti all’abitudine quotidiana di filtrare il mare di informazioni che dobbiamo gestire attraverso le linee guida, strumento chiave e di filtro critico per eccellenza. E quando andiamo a consultare le linee guida cosa troviamo? Spesso, troviamo indicazioni, o meglio, prescrizioni come quella tratta dall’ultima linea guida della European Society of Cardiology sulla dislipidemia, in cui si sollecita ad abbassare ulteriormente a 55 mg/dl il target di colesterolemia LDL nel paziente a rischio cardiovascolare molto elevato13. Tutto questo senza che sia fatta menzione, da un lato, dell’assenza di evidenze in merito a una riduzione della mortalità totale14 correlata a questa ulteriore riduzione. Se guardiamo a un’altra linea guida15 accreditata dal Sistema Nazionale Linee Guida, quella sullo screening esteso del tumore alla mammella (argomento tuttora discusso da ricercatori di tutto il mondo)16, ci troviamo di fronte a un registro linguistico che fa riferimento a termini come “sostenitori” e “oppositori” dello screening, un lessico quindi poco neutro, che è seguito poi dall’assunzione nel documento di una posizione netta a favore dello screening, basata tuttavia su evidenze di basso grado (per es., l’analisi retrospettiva di un registro nazionale). È evidente, purtroppo, che le linee guida, strumenti di sintesi preziosi, finiscono talvolta per costruire certezze a tavolino, che nella pratica diventano per il medico vicoli ciechi – anche sul piano medico-legale – in cui c’è poco spazio per un processo decisionale individualizzato e condiviso. Forse bisognerebbe accettare di essere immersi in un contesto quotidiano di incertezza, laddove noi medici siamo formati invece al decisionismo e a interventi di tipo prescrittivo e non, come sarebbe necessario, all’apertura, alla flessibilità, all’elasticità che servirebbe per conciliare le prove scientifiche a disposizione con la persona che abbiamo di fronte11.

Concludo con una luce: in deroga alla spesso evocata contrapposizione tra gli studi randomizzati e la cura individuale, il DECIDE L-VAD trial è uno dei capisaldi dello SDM ed è uno studio randomizzato12. Si tratta di uno studio multicentrico che ha incluso 250 pazienti nell’ambito un setting emotivamente denso come quello dello scompenso cardiaco avanzato. I pazienti sono stati posti di fronte all’ipotesi dell’impianto o meno di un device per l’assistenza del loro ventricolo sinistro come terapia di destinazione. La scelta doveva avvenire attraverso una conversazione libera con il medico oppure attraverso una conversazione supportata da uno strumento decisionale, in questo caso disegnato insieme ai pazienti e rivalutato più volte perché risultasse, nei suoi obiettivi, paziente-centrico e libero da bias. Ai pazienti veniva chiesto semplicemente di collocarsi in un punto, in una scala di valori da 1 a 10, dove 1 rappresentava la posizione di chi avrebbe accettato qualsiasi intervento invasivo pur di vivere un giorno in più, mentre 10 rappresentava la posizione diametralmente opposta di chi non avrebbe voluto vivere un giorno in più se questo avesse significato subire interventi chirurgici maggiori o interventi invasivi. Questo è un indicatore perfettamente in linea con gli obiettivi di qualsiasi conversazione tra medico e paziente perché esprime la concordanza tra la scala di valori (che rappresenta i valori e le preferenze del paziente) e la decisione finale. Forse non è un caso se l’impiego di questa metrica ha dato luogo a un risultato significativo: la concordanza tra la scala di valori e la decisione di impiantare o meno il dispositivo è stata nettamente maggiore nel gruppo che era stato informato con gli strumenti di supporto decisionale; non solo, come in tanti altri studi sullo SDM, anche in questo è stato dimostrato che pazienti meglio informati riescono a declinare, in misura maggiore e probabilmente anche più consapevolmente, interventi dal beneficio incerto o marginale. Se prestassimo attenzione semplicemente a due elementi tra quelli citati, cioè la formazione dei futuri medici nell’ottica della conversazione medico-paziente e l’inserimento all’interno delle linee guida di elementi come incertezza e complessità (attraverso la valutazione critica della letteratura scientifica non gravata da bias), probabilmente riusciremmo a curare meglio non tanto il paziente “teorico” e retorico, ma i singoli pazienti reali e quotidiani.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Shared decision making: an interview with Mayo Clinic Professor of Medicine Victor Montori. IHI Open school. Disponibile su: https://bit.ly/3m7gYuL [ultimo accesso 20 ottobre 2020].

2. Politi MC, Dizon DS, Frosch DL, et al. Importance of clarifying patients’ desired role in shared decision making to match their level of engagement with their preferences BMJ 2013; 347: f7066.

3. Fowler FJ Jr, Gerstein BS, Barry MJ. How patient centered are medical decisions? Results of a national survey. JAMA Intern Med 2013; 173: 1215-21.

4. Hoffmann TC, Del Mar C. Clinicians’ expectations of the benefits and harms of treatments, screening, and tests: a systematic review. JAMA Intern Med 2017; 177: 407-19.

5. Rosenbaum L. The paternalism preference: choosing unshared decision making. N Engl J Med 2015; 373: 589-92.

6. Chewning B, Bylund CL, Shah B, et al. Patient preferences for shared decisions: a systematic review. Patient Educ Couns 2012; 86: 9-18.

7. Kunneman M, Branda ME, Hargraves IG, et al. Assessment of shared decision-making for stroke prevention in patients with atrial fibrillation: a randomized clinical trial. JAMA Intern Med 2020; 180: 1-10.

8. Saini V, Garcia-Armesto S, Klemperer D, et al. Drivers of poor medical care. Lancet 2017; 390: 178-90.

9. Montori V. Perché ci ribelliamo? Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.

10. Bottacini A, Peter Scalia, Claudia Goss. Shared decision making in Italy: an updated revision of the current situation. Z Evid Fortbild Qual Gesundhwes 2017; 123-124: 61-5.

11. Alderighi C, Del Pace S, Rasoini R. The duty of being a medical conservative. When in doubt, for the patient. Recenti Prog Med 2019; 110: 212-4.

12. Allen LA, McIlvennan CK, Thompson JS, et al. Effectiveness of an intervention supporting shared decision making for destination therapy left ventricular assist device: The DECIDE-LVAD Randomized Clinical Trial. JAMA Intern Med 2018; 178: 520-9.

13. ESC Scientific Document Group. 2019 ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias: lipid modification to reduce cardiovascular risk. Eur Heart J 2020; 41: 111-88.

14. Casula M, Olmastroni E, Boccalari MT, Tragni E, Pirillo A, Catapano AL. Cardiovascular events with PCSK9 inhibitors: an updated meta-analysis of randomised controlled trials. Pharmacol Res 2019; 143: 143-50.

15. Associazione Italiana di Oncologia Medica. Linee Guida neoplasie della mammella. Edizione 2019. Disponibile su: https://bit.ly/37VwMgm [ultimo accesso 30 ottobre 2020].

16. Prasad V. How the USPSTF’s mammographic screening guidelines should be interpreted. Am J Med 2017; 3: 769-70.