Dalla letteratura

CoViD-19 e la riscoperta
della telemedicina

11 marzo 2020. L’Organizzazione mondiale della sanità dichiara ufficialmente lo stato di pandemia per il nuovo Coronavirus. Una tempesta sanitaria di proporzioni gigantesche si abbatte sulle nostre esistenze modificando l’assetto della vita sociale ed economica e cambiando radicalmente anche il modo in cui si pratica la medicina. Bastano poche settimane e la quarantena e il distanziamento fisico previsti dalle nuove regole fanno precipitare il numero delle visite mediche “in presenza”. La telemedicina, che in molti contesti era ancora considerata poco più che una stravaganza nerd, da citare nei documenti e nelle linee guida per assicurarsi il bollino di modernità, si ritrova improvvisamente al centro della scena… per restarci? «La pandemia ha creato un enorme problema di salute pubblica, ma il problema più grande non era che i pazienti con CoViD-19 non potessero ricevere cure: era che le persone senza la malattia non potevano accedere alle loro cure normali», sintetizza Michael Okun, professore di neurologia dell’Università della Florida, in un editoriale su JAMA Neurology1.




I timori legati al virus hanno fatto ritardare tutti i tipi di assistenza sanitaria negli Stati Uniti (come d’altronde è avvenuto anche in Europa e in Asia). Un dato su tutti, che risale alla prima ondata, è la diminuzione del 42 per cento delle visite al pronto soccorso nell’aprile 2020 rispetto allo stesso periodo di tempo del 2019. Tra i grandi centri americani, la Mayo Clinic (che con i suoi 1,2 milioni di pazienti all’anno è il più grande in America) ha avuto un calo netto del 78 per cento nelle visite “in presenza” tra metà marzo e metà aprile. Come era prevedibile, considerando lo stesso periodo, si è assistito al boom dei servizi sanitari digitali (+10,88 per cento degli appuntamenti per videovisite al domicilio dei pazienti). Prima della pandemia solo 300 medici avevano effettuato almeno una visita di videotelemedicina nell’anno precedente. Entro la metà di luglio quel numero è aumentato del 2000 per cento fino a oltre il 6500.

In una fase in cui l’esposizione di persona doveva necessariamente essere limitata, la telemedicina è sembrata da subito l’unica via per mantenere collegati medici e pazienti. Tra l’altro il suo utilizzo diffuso rendeva anche abile e arruolabile una moltitudine di professionisti costretti alla quarantena precauzionale ma perfettamente in grado di svolgere la loro funzione, almeno a distanza. «La pandemia di CoViD-19 ha sostanzialmente accelerato lo sviluppo della sanità digitale negli Stati Uniti di circa 10 anni», scrive Bart Demaerschalk, direttore medico per i servizi sincroni del Mayo’s Center for Connected Care2.

Quando si parla di “telemedicina” si usa un termine abbastanza generico che si riferisce alla fornitura di assistenza medica a distanza attraverso tecnologie dedicate. In realtà esistono due categorie di telemedicina: quella sincrona e quella asincrona.

La prima è in tempo reale, per esempio nel caso di una videochiamata tra un paziente e un medico, ma anche quando la telecomunicazione si verifica tra gli stessi medici: un medico di pronto soccorso che decide di consultare a distanza un esperto di ictus per attuare il miglior trattamento possibile per un paziente. Per la telemedicina asincrona si possono citare le tecnologie cosiddette store-and-forward che permettono di raccogliere i dati dei pazienti e di trasferirli in modo sicuro su una piattaforma cloud a cui altri utenti autorizzati possono accedere in qualsiasi momento (per esempio i portali online che mettono in comunicazione pazienti con medici e medici con altri medici); oppure i chatbot, cioè i risponditori automatici che simulano una conversazione con un essere umano in carne e ossa, come quelli progettati ultimamente per aiutare un paziente a decidere se sottoporsi al test per il CoViD-19; e ancora, è considerato telemedicina asincrona il monitoraggio a distanza dei pazienti con i dispositivi indossabili o impiantabili.

La telemedicina offre molti vantaggi rispetto alla visita tradizionale faccia a faccia. È più veloce, più conveniente, in certi casi permette di offrire cure migliori e poi, in era CoViD-19, garantisce decisamente di più la sicurezza per i pazienti e gli operatori sanitari. Se esistono due condizioni che limitano di più e in modo più drastico l’accesso alle cure, queste sono la distanza e la disabilità. Non doversi recare in ospedale o presso lo studio del medico rappresenta un vantaggio enorme soprattutto nelle popolazioni ad alto rischio, anziani e persone con condizioni mediche croniche prima di tutto. Senza contare l’altra innegabile prerogativa della telemedicina, cioè la comodità. È stato calcolato che negli Stati Uniti i pazienti impiegano in media 2 ore del loro tempo per un appuntamento dal medico, ma solo 20 minuti sono occupati dalla visita. Il resto è viaggio e sala d’attesa.

C’è una parte “pratica” della visita medica tradizionale che ha sicuramente una funzione importante, ma è soltanto un tassello dell’intera esperienza. Molti medici hanno verificato che i pazienti sono molto più coinvolti e (soprattutto) molto meno stressati quando ricorrono alle televisite.

Russell Libby, fondatore e presidente del Virginia Pediatric Group, non sembra avere dubbi: «All’inizio è stato piuttosto difficile convincere le persone che si tratta di un buon modo di vedere il proprio medico, ma, nel giro di una settimana o due, l’aspettativa e l’atteggiamento sono cambiati del tutto […]. La telemedicina è stata ampliata in modo significativo all’interno dello studio. Alcuni dei nostri medici più anziani a rischio CoViD utilizzano soltanto la telemedicina per continuare a prendersi cura dei pazienti […]. Penso davvero che la telemedicina abbia un posto importante nel futuro della nostra pratica. Dobbiamo incorporarla in una serie di paradigmi di cura, penso che aiuterà a migliorare i risultati, a creare una maggiore propensione a incontrare i nostri medici piuttosto che ricorrere ai pronto soccorso»3.

Nella valutazione dell’impatto sui pazienti non bisogna sottovalutare comunque l’ostacolo rappresentato dal cosiddetto “divario digitale”, cioè i tassi più bassi di dotazione tecnologica, di adozione della banda larga e di alfabetizzazione digitale che riguardano soprattutto gli anziani e le persone con uno status socioeconomico più basso. Il rischio concreto è che la telemedicina, invece di abbattere le barriere che ancora separano le persone dall’assistenza sanitaria, finisca con l’esacerbare le disuguaglianze che già esistono tra i pazienti più marginalizzati. Dalle visite virtuali possono arrivare informazioni ai curanti che altrimenti non sarebbero in grado di ottenere. Sempre Libby: «Ho un’idea dell’ambiente domestico del paziente, che può fornire importanti indizi sulla sua salute. Poi, durante una videochiamata, i pazienti che non riescono a ricordare quale farmaco stanno assumendo possono semplicemente prendere il flacone e mostrarmelo».

Tuttavia le videovisite presentano anche dei rischi, come il fatto che «il paziente diventi in qualche modo indipendente dalla valutazione del medico, e questo potrebbe dar vita a comportamenti di autogestione con i rischi del caso, soprattutto dal punto di vista clinico», teme Enrico Gianluca Caiani (professore associato del Dipartimento di Elettronica, informazione e bioingegneria, Politecnico di Milano) che abbiamo intervistato sull’argomento. Un altro rischio evidenziato da Caiani è poi «che la relazione medico-paziente resti più legata all’analisi del dato che all’analisi dei riscontri obiettivi della visita in presenza con tanto di tocco, auscultazione e così via».

In effetti i medici più competenti usano tutti i loro sensi, non solo l’udito e la vista. Valutano l’intero paziente: un improvviso zoppicare, un cambiamento di postura, un nuovo pallore… Spesso è essenziale ciò che i pazienti non notano o di cui non si lamentano. E non esiste un test diagnostico più economico dell’imposizione delle mani.

Anche Eric Topol, direttore dello Scripps research translational institute è convinto che l’improvvisa corsa alla “virtualizzazione” rischia di diminuire la qualità dell’assistenza clinica. «È poco costosa e conveniente, ma non sarà mai equivalente a un esame fisico che include tutte le qualità umane di giudizio e comunicazione». Anche se alla fine chiosa che «con la CoViD-19 questo è un compromesso che dobbiamo accettare»4.

Non si può parlare di telemedicina senza almeno accennare a un altro grande vantaggio, almeno potenziale, cioè il suo costo. «La telemedicina non solo può prevenire inutili visite al pronto soccorso, ma esistono anche altre spese collegate alle visite “in presenza”, come i test di laboratorio o gli elettrocardiogrammi, che potrebbero non essere necessari e non vengono utilizzati durante una visita video», sostiene Libby. Il risparmio da parte del servizio sanitario rischia però di ricadere direttamente sugli utenti che devono necessariamente attrezzarsi a un tipo di interazione nuova, investendo in competenze e strumenti tecnologici e senza i quali verrebbero inevitabilmente lasciati indietro.

Privacy e costi

Quando si pensa alla telemedicina la prima preoccupazione che invariabilmente emerge è quella di garantire la privacy e la sicurezza dei pazienti, un argomento che occupa i pensieri degli operatori sanitari, dei consumatori e della politica. Negli Stati Uniti, per facilitare l’uso della telemedicina durante la pandemia, l’amministrazione Trump non ha esitato a mettere mano direttamente alle singole norme. Forse il cambiamento più significativo in questo senso – per ora efficace per tutta la durata dell’emergenza nazionale CoViD-19 – è che i fornitori di servizi sanitari sottoposti all’Health insurance portability and accountability act del 1996 (HIPAA) possono utilizzare app per la telemedicina anche non completamente conformi agli standard HIPAA: FaceTime, Zoom, Skype e le altre. Ma anche altri Paesi oltre agli Stati Uniti hanno modificato alcune norme per rendere meno complicato il ricorso alla telemedicina, Francia e Cina per esempio. «Le piattaforme usate in questa fase di emergenza dai medici hanno sicuramente aiutato a mantenere o a sviluppare la relazione medico-paziente. Si pone però un problema di privacy perché queste piattaforme non sono nate specificamente per gestire una comunicazione di dati medici, per cui andrebbe valutato l’uso di piattaforme ad hoc», avverte Caiani. Il settore sanitario è molto rigido (le piattaforme di telemedicina tradizionali infatti garantiscono una sicurezza pressoché totale), ed è giusto che sia così data l’importanza della sicurezza e della privacy dei pazienti e degli operatori sanitari. In tempi di pandemia però questa rigidità può mettere in pericolo proprio le persone che si cerca di proteggere.

Un primo e decisivo passo sarebbe quello di aggiornare le leggi per ridurre almeno i costi di conformità, facendo attenzione a garantire che sia protetto il nucleo della protezione dei dati personali. E il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) dell’UE è degli ostacoli più evidenti. «Il GDPR europeo prevede che per poter utilizzare i dati del paziente occorre richiedere un consenso esplicito che non può essere generico ma deve rendere esplicito come e da chi verranno utilizzati i dati. E il consenso può essere ritirato», sottolinea Caiani. La struttura degli standard di sicurezza e tecnologia ha creato in effetti un ambiente complesso per le start-up e i fornitori di telemedicina, così complesso da far sospettare che il successo dell’Asia nella lotta alla pandemia sia in parte da attribuire alla sua “disinvoltura” nel districarsi tra leggi, standard, privacy e salute pubblica.

La telemedicina non era stata riconosciuta formalmente in Italia prima della pandemia e la mancanza di regole relative a tariffe e rimborsi e al contesto di applicazione hanno rappresentato e rappresentano uno dei principali ostacoli alla realizzazione dei progetti anche in questa fase. Alcune Regioni (Veneto, Toscana, Valle d’Aosta e Piemonte in particolare) hanno scelto di definire in modo autonomo le modalità di fruizione dei servizi digitali, mentre il Ministero della Salute ha anche pubblicato delle linee guida che indicano la telemedicina come modalità privilegiata per le visite mediche. Da una ricerca dell’Osservatorio innovazione digitale in sanità del Politecnico di Milano emerge un cambiamento non trascurabile nella percezione dei medici degli strumenti digitali rispetto all’epoca pre-CoViD: dai dati, il 75 per cento dei medici crede che la telemedicina abbia un ruolo determinante durante l’emergenza e più del 50 per cento ritiene che possa migliorare i processi e l’efficienza delle cure. «Il nostro Osservatorio ha monitorato la salute digitale in Italia negli ultimi 14 anni e la percezione dell’utilità di questi strumenti in precedenza era uno degli ostacoli. Ma dopo l’esperienza dell’emergenza abbiamo visto che questa barriera non è così forte», spiega Paolo Locatelli, responsabile scientifico dell’Osservatorio. Oggettivamente l’Italia, anche se in buona compagnia da questo punto di vista, si è trovata impreparata a gestire i pazienti bloccati con malattie croniche a causa della scarsa diffusione su larga scala di soluzioni di telemedicina. Ma i problemi che rallentano l’implementazione diffusa sono molti: servizi di telemedicina sono sparsi e non interconnessi, e questo ostacola l’integrazione con la cartella clinica elettronica; manca un vero approccio multidisciplinare alla gestione del paziente; le regole sulla privacy sono molto stringenti; mancano linee guida chiare; infine, almeno per ora, manca la rimborsabilità che «costituisce uno dei principali limiti da superare», secondo Caiani.




Un ultimo aspetto che rallenta lo sviluppo è che molti servizi di telemedicina finanziati a livello locale o centrale non hanno prove di efficacia clinica e prospetti di costo raccolti in base a quadri di valutazione scientifica appropriati. Detto in parole più povere, a volte mancano gli elementi per capire se funzionano ed effettivamente quanto costano rispetto a un servizio “tradizionale”. Questo aspetto è particolarmente critico perché di fatto rende l’implementazione di questi servizi imperfetta e inefficiente: devono forzatamente essere messi a punto e ottimizzati “in corsa” quando invece l’aspettativa è che siano immediatamente (ed efficacemente) operativi.

La domanda delle domande è cosa succederà alla telemedicina nei prossimi anni, quando auspicabilmente saremo fuori dalla pandemia e avremo imparato a convivere con il nuovo coronavirus. «È improbabile che l’attuale elevato utilizzo della telemedicina persisterà esattamente allo stesso modo in futuro, ma quasi certamente rimarrà più alto sia per i pazienti che per i fornitori di quanto non fosse pre-pandemia», è la facile profezia di Demaerschalk. L’obiettivo iniziale, quando la pandemia ha cominciato a mordere, era chiaro: fornire una risposta efficace allo stress a cui è stato sottoposto il nostro sistema sanitario nazionale, riducendo la pressione sugli ospedali ed evitando a pazienti e caregiver spostamenti non necessari. Il sottotesto è sempre stato però che non venissero compromessi i princìpi su cui si basa la sanità moderna, cioè la continuità assistenziale dei servizi, l’impostazione paziente-centrica e la riduzione al minimo dei rischi per la salute pubblica.

Oggi, e domani, le nuove prospettive aperte dalla telemedicina dovranno integrarsi con gli attuali percorsi terapeutici e assistenziali, aggiornando il modo di offrire i servizi alla persona e potenziando la medicina territoriale di prossimità. Con queste premesse è probabile che assisteremo al passaggio dalla centralità dell’ospedale alla casa come luogo principale di assistenza, limitando l’ambito ospedaliero ad attività ed esami più specifici.




Ma le sorti della telemedicina nel breve periodo dipendono molto dalla capacità di “resistenza” dei cambiamenti che sono avvenuti durante l’emergenza CoViD-19. La telemedicina non dovrebbe più essere considerata come una possibile opzione o un’aggiunta alla sanità “normale” per reagire a un’emergenza, ma come un potenziamento stabile delle possibilità di assistenza. Già preziosissima oggi per garantire la continuità delle cure dei pazienti affetti da malattie croniche, con l’accelerazione dei progressi tecnologici tipica della nostra epoca, potrebbe in un futuro molto vicino rivoluzionare del tutto il concetto stesso di assistenza sanitaria.

Alessio Malta

[Questo contributo è realizzato in collaborazione con il sito Sentichiparla.it]

Bibliografia

1. Bloem BR, Dorsey ER, Okun MS. The Coronavirus Disease 2019 crisis as catalyst for telemedicine for chronic neurological disorders. JAMA Neurol 2020; 77: 927-8.

2. Demaerschalk BM, Blegen RN, Ommen SR. Scalability of telemedicine services in a large integrated multispecialty health care system during COVID-19. Telemed J E Health 2021; 27: 96-8.

3. Libby R. America’s Health: stories from physicians from the frontline. YouTube 2020; 9 luglio (https://bit.ly/3nGHCLy).

4. Preparing the healthcare workforce to deliver the digital future. The Topol Review 2019; febbraio (https://topol.hee.nhs.uk/).

Vaccino: non obbligo
ma fiducia, informazione
e trasparenza.
E una buona logistica

Il tanto atteso vaccino, o meglio, i tanto attesi vaccini sono arrivati e altri stanno per arrivare. Siamo dunque alla fine di questa terribile pandemia? Di sicuro siamo in una fase cruciale. Non solo per la svolta che questi vaccini potrebbero rappresentare, ma anche perché comincia ora uno dei periodi più delicati di questa pandemia, come vediamo dai numeri e dai titoli dei giornali. Quando si vede la luce si rischia di lasciarsi andare: dal distanziamento alle chiusure più o meno severe, dalle mascherine alla rinuncia a grandi eventi o anche solo a piccoli eventi, tutto sembra diventare sempre più difficile. Anche perché purtroppo siamo davanti a un nemico che agli occhi di molti è rimasto invisibile e lontano, sebbene abbia provocato un numero spaventoso di morti: sono oltre 75mila oggi le vittime in Italia e quasi due milioni nel mondo.

A rendere la situazione ancora più delicata, alla stanchezza accumulata in molti mesi ora si potrebbero aggiungere gli antagonisti storici di ogni campagna di vaccinazione e gli ingredienti di quella che generalmente viene definita esitanza vaccinale: incertezza, paura, scetticismo, cinismo, complottismo, negazionismo. Toccano tutti noi in una certa misura, sia che ci riguardino in prima persona sia che dilaghino rendendo vano lo sforzo senza precedenti di ricerca e produzione di questi vaccini. Come evitare questo disastro?

Cominciamo chiarendo di cosa si parla quando si parla di “esitanza vaccinale”. Con questo termine si definisce un ritardo nell’accettare o un rifiuto di un vaccino nonostante la sua disponibilità1. È uno dei fattori che mette più a rischio il raggiungimento dell’immunità di gregge e ben prima di CoViD-19 era considerata dall’Organizzazione mondiale per la sanità una delle principali minacce alla salute globale.

Esitanza vaccinale

In Italia oggi l’esitanza vaccinale riguarda il 43 per cento degli italiani. Ce lo racconta in una videochiamata Guendalina Graffigna, professore ordinario all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttrice dell’EngageMinds Hub, che insieme al suo gruppo di ricerca ha cercato di capire quali sono le ragioni dell’esitanza degli italiani verso un vaccino anti-CoViD-19. «Il dato è leggermente in crescita rispetto a maggio. Ed è interessante: quando non c’era un vaccino vicino, quando era più teorica l’ipotesi tutto sommato i dubbi erano minori, adesso che si è arrivati quasi ad averlo aumentano i dubbi. Tuttavia sono diminuiti rispetto a settembre i cosiddetti “novax”, coloro che si dichiarano assolutamente contrari: oggi sono il 16 per cento. È invece rimasto costante, al 27 per cento, il numero degli incerti sui quali, lo abbiamo visto, pesano diverse variabili psicologiche».

Raccolti sotto l’ombrello dell’esitanza ci sono tanti scenari e motivazioni diverse che possono spingere una persona al rifiuto. Per esempio vi sono dubbi e paure connaturati da sempre con l’idea stessa di un ago e di un vaccino: «C’è una resistenza che ha probabilmente radici antiche, legata allo stesso concetto di integrità e di inviolabilità del corpo come inviolabilità dell’Io; ed è qualcosa di molto complesso», ci spiega Cosimo Nume, presidente dell’Ordine dei medici di Taranto e Responsabile della comunicazione della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici e Odontoiatri (FNOMCeO). «È l’idea dell’agente estraneo introdotto nel corpo a turbare. Non accade per esempio lo stesso nel caso di una semplice iniezione di un antidolorifico; anzi, tra molti pazienti si riscontra la richiesta di anticipare la fine del dolore attraverso una terapia parenterale. Nel vaccino giocano altre componenti che probabilmente si sono stratificate negli anni nell’immaginario popolare».

Come dice Guendalina Graffigna, all’esitanza o all’accettazione nei confronti di un vaccino contribuiscono diverse variabili. Una di quelle individuate dal gruppo di ricerca è l’engagement, il livello di coinvolgimento delle persone nella prevenzione: «Tanto più le persone percepiscono di avere nelle loro mani la loro salute e la prevenzione, e ritengono di essere attori fondamentali del sistema sanitario, tanto più sono propensi verso la vaccinazione». L’altro fattore fondamentale, individuato non solo dal gruppo italiano ma anche da altri gruppi di ricerca di altri Paesi che stanno svolgendo un lavoro simile, è la fiducia: nella scienza e negli operatori sanitari ma anche nelle istituzioni e nei governi1. E da marzo, sottolinea Graffigna, nel nostro Paese questa fiducia è diminuita, soprattutto quella nel sistema sanitario e nella ricerca scientifica.

Responsabilità

Forse è proprio per questo che nel suo messaggio di fine anno lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sottolineato l’importanza e il valore di sottoporsi alla vaccinazione: «Vaccinarsi è una scelta di responsabilità, un dovere. Tanto più per chi opera a contatto con i malati e le persone più fragili. Di fronte a una malattia così fortemente contagiosa, che provoca tante morti, è necessario tutelare la propria salute ed è doveroso proteggere quella degli altri, familiari, amici, colleghi». Parole queste probabilmente dettate anche dalle polemiche di fine anno seguite alle dichiarazioni di alcuni medici e operatori sanitari contrari alla vaccinazione e che hanno riacceso anche il dibattito in merito all’obbligatorietà o meno del vaccino per alcune categorie.

Potrebbe tuttavia essere stata data troppa attenzione a un fenomeno di dimensioni ridotte o non radicato: «È la prima volta nella storia dell’umanità che un vaccino arriva alla popolazione in così breve tempo e anche se questo non vuol dire che questo percorso sia stato fatto male, porta con sé un quantitativo di ansia e di preoccupazione che trovo assolutamente fisiologico», ci spiega Alessandro Conte, medico di Direzione sanitaria e coordinatore del portale contro la disinformazione in medicina della FNOMCeO, Dottore ma è vero che…?. «Sicuramente fanno più rumore i pochi medici che hanno posizioni un po’ distanti ma, per esempio, quando noi abbiamo aperto il primo giro di prenotazioni, abbiamo avuto 1600 adesioni in meno di sei ore. Lo scenario quindi sembra promettente da questo punto di vista, poi purtroppo sulle prime pagine dei giornali invece che questi numeri finisce il professore di infermieristica che dice che lui non si vaccina”.

Dello stesso tenore sono anche le dichiarazioni di Filippo Anelli, presidente della stessa FNOMCeO, secondo il quale non sarebbero più di un centinaio in tutto il Paese i medici contrari a sottoporsi al vaccino: «La stragrande maggioranza dei medici si vuole vaccinare contro la CoViD e abbiamo, anzi, una forte pressione da parte di medici della sanità privata e odontoiatri che vorrebbero vaccinarsi, oltre a voler contribuire alla somministrazione delle dosi», spiega all’ANSA.

Per questo, secondo Anelli, non sarebbe necessario fare ricorso all’obbligo. Obbligo a cui è contrario anche Alessandro Conte. «Se le istituzioni in generale o il mondo scientifico fossero sempre capaci di comunicare in maniera accessibile e trasparente, dell’obbligo non ci sarebbe bisogno». Questa è una situazione ben diversa rispetto a quella che ha portato all’obbligo di alcune vaccinazioni infantili, sottolinea il medico: «Penso che l’Italia si sia trovata costretta a fare una scelta molto particolare quattro anni fa, una scelta sofferta che in un quel momento particolare trovava anche una motivazione: ci stavamo discostando in maniera molto pronunciata dalle soglie critiche di copertura della popolazione e bisognava invertire la tendenza. Questo ha generato una serie di ritorni di fiamma come è normale che sia. Il vero sforzo in queste situazioni è di tipo educativo e comunicativo. Si devono rifuggire affermazioni polarizzanti che fanno di questo confronto una lotta del bene contro il male. La scienza non procede per dogmi, ma attraverso la costruzione di evidenze; evidenze che si costruiscono con metodo e che possono essere riproducibili in vari altri contesti sperimentali. Quello che le istituzioni devono fare in questo momento è essere serenamente trasparenti, anche verso gli operatori sanitari».

Non è per l’obbligo nemmeno Cosimo Nume, anche se la sua regione, la Puglia, lo prevede per gli operatori sanitari. «Non sono per l’obbligo a meno sia strettamente necessario, sono per un forte e intelligente coinvolgimento di tutti gli strumenti di comunicazione da parte del Ministero, da parte del Governo, da parte delle regioni e da parte della professione che, al di là di alcune sacche di resistenza, guarda a questa possibilità davvero come al faro che illumina il futuro non solo della professione ma soprattutto di una società e di una economia piegate da questa epidemia».

Messo da parte l’obbligo, quali altri strumenti abbiamo? Secondo Graffigna, per lo meno da un punto di vista della comunicazione istituzionale, potrebbe essere importante mettere in atto dei processi di segmentazione della popolazione e di studi comportamentali: «L’esitanza non è una, ci sono tanti profili, quindi bisognerebbe riuscire a segmentare la popolazione sulla base di caratteristiche non solo socio demografiche ma anche psicologiche, e sulla base di questo tipo di segmentazione poi orientare delle strategie di comunicazione differenziate e coordinate».

Il primo passo, sia delle istituzioni sia dei medici, dovrebbe essere comunque quello di ascoltare chi è titubante: «Dobbiamo ascoltare, dobbiamo farci dire tutti quelli che sono i dubbi le preoccupazioni e a partire da questi dubbi e queste preoccupazioni andare a sbocconcellare delle informazioni che poi possano andare ad argomentare contro queste posizioni. Partire da quelle che sono le minacce al comportamento corretto, dalle false credenze, dalle preoccupazioni, far sentire la persona ascoltata per poi ribattere su quei punti in modo puntuale, cercando di evitare un’escalation di emozioni negative, frustrazioni e rabbia», spiega la ricercatrice. «Le persone vogliono essere trattate da adulte, ambiscono a capire e a “sentirsi esperti”. Questo atteggiamento di per sé va premiato ma va “corretto il tiro” delle percezioni e delle argomentazioni, facendo sentire le persone degli alleati del processo scientifico ma ribandendo come per partecipare al discorso scientifico ci voglia pazienza e comprensione del linguaggio tecnico».

Spesso, sottolinea Paul Offit, direttore del Vaccine education center e docente di pediatria del Children’s hospital di Filadelfia (USA), le persone hanno paura soprattutto degli effetti collaterali dei vaccini. «Si potrebbe intervistare chi ha fatto il vaccino e far descrivere loro gli effetti collaterali, che sono diversi: stanchezza, mal di testa, dolore a muscoli e articolazioni, alterazione della temperatura. Tutti segnali che il sistema immunitario è stato attivato ed è a lavoro», spiega. E poi, prosegue, bisognerebbe essere in grado di fugare i dubbi in fretta. «Tra le prime persone che verranno vaccinate ci sono gli ospiti di RSA e strutture di lungodegenza, spesso anziani e con problemi di salute. Se uno di questi viene vaccinato e dopo due giorni ha un ictus o un attacco cardiaco, i media riporteranno immediatamente la notizia che il vaccino provoca l’ictus: si deve essere pronti a raccogliere i dati, a fare un confronto tra persone vaccinate e non vaccinate e mostrare che le prime non sono più a rischio delle seconde. Dobbiamo essere pronti a placare le paure che circonderanno questi vaccini».

In questo potrebbe essere fondamentale nei prossimi mesi il contributo dei medici generali e di famiglia sul territorio. «Credo che andrebbe fatto un forte investimento sui medici del territorio, che prescinda dall’impiego per fare il tampone o per fare la vaccinazione; non voglio disconoscere l’importanza anche di essere forza lavoro, ma credo che la cosa più importante sia di essere forza pensiero: orientamento nei confronti dei proprio pazienti», ci spiega Cosimo Nume. «Viviamo in un Paese che ancora attribuisce alla figura del medico di fiducia un ruolo di guida, di consigliere; un ruolo amicale che può essere la chiave di volta per reclutare sempre più persone verso la vaccinazione».

Oltre ai medici e alle istituzioni, trovarsi davanti un parente titubante può capitare a chiunque. In questo caso ci sono più strategie per confrontarsi costruttivamente, secondo Alessandro Conte: «Con le persone più anziane bisogna essere capaci di quantificare il rischio che queste corrono rispetto ad altre fasce di età; provare a spiegare che fasce di età diverse e soprattutto elementi fragili nella popolazione hanno a maggior ragione bisogno di questo vaccino». «L’altro approccio utile», spiega il medico di Udine, «è l’appello alla protezione degli altri. La persona che dice “No, non mi fido, non mi voglio vaccinare”, può essere allettata dall’idea di esercitare una protezione nei confronti dei propri cari. Occorre sottolineare che in questo particolare momento, in un contesto pandemico, più persone si vaccinano più possiamo aspettarci che l’immunità di gregge arrivi, quindi anche una goccia del mare – in questo caso qualcuno che si rifiuta – rischia di creare un’increspatura».

A preoccupare gli esperti in questo momento non sono tuttavia gli esitanti. Allarmano molto di più la scarsa disponibilità di vaccini e le difficoltà logistiche di distribuire le dosi e di vaccinare la popolazione non esitante, che è comunque il 57 per cento al momento e probabilmente è destinata a crescere. «Sono fattori che possono influenzare il successo di una campagna, ce lo dice la letteratura e ce lo dice anche il nostro vissuto personale. Facciamo un esempio: andare alla posta a ritirare una raccomandata o al comune a pagare una multa è già un’attività che non vorremmo fare, se è resa particolarmente complicata o costellata di lunghe attese è probabile che rinunciamo o posticipiamo», conclude Alessandro Conte. «Dovremmo cercare – compatibilmente con le risorse che sono a disposizione – di creare percorsi agili e sicuri, perché ovviamente non dobbiamo essere noi a creare assembramenti di persone o aree stipate di persone in attesa. Ci vuole un lavoro di programmazione e di gestione non scontato, se lo si fa male rischia di essere un potentissimo boomerang, un’arma in più per chi già sta cercando una scusa per dire di no».

Caterina Visco

[Questo contributo è stato realizzato in collaborazione con il sito Sentichiparla.it]

Bibliografia

1. MacDonald NE. Vaccine hesitancy: definition, scope and determinants. Vaccine 2015; 33: 4161-4.

2. Palamenghi L, Barello S, Boccia S, Graffigna G. Mistrust in biomedical research and vaccine hesitancy: the forefront challenge in the battle against COVID-19 in Italy. Eur J Epidemiol 2020; 35: 785-8.

Intelligenza artificiale
e salute? Meglio parlare
di “medicina aumentata”

Le rivoluzioni tecnologiche sono inevitabili, il loro impatto in un determinato contesto, tuttavia, dipende spesso dall’atteggiamento con cui sono accolte: se sono subite o se sono cavalcate. Questo è ancora più vero quando parliamo di intelligenza artificiale (IA) nell’ambito della medicina e dell’assistenza sanitaria, dove moltissime di queste tecnologie sono già presenti, dalla ricerca biomedica alla diagnostica, dall’epidemiologia alla chirurgia.

Ogni giorno nuove potenziali applicazioni vengono messe a punto e nuove visioni di come queste possano trasformare l’assistenza sanitaria globale prendono vita. Alcune di queste visioni possono fare paura e rendere ostili a questa rivoluzione. Sono quelle che perpetuano lo stereotipo di uomo vs macchina tipico del secolo scorso; quelle che vedono le macchine sostituire medici, operatori sanitari, amministrativi; quelle che vedono poveri pazienti alle prese con poco empatici robot e software; o peggio ancora quelle che vedono l’impiego di queste tecnologie per aumentare ineguaglianze, discriminazioni, povertà.

C’è però un’altra visione. Quella in cui le tecnologie restano quello che sono: strumenti messi a punto dall’essere umano per l’essere umano. In questa visione i sistemi di IA migliorano le performance del medico, velocizzano e automatizzano quei processi che possono essere automatizzati e velocizzati e che beneficiano di questo tipo di intervento. Quelli ripetitivi, per esempio, quelli in cui stanchezza, carico di lavoro eccessivo, mancanza di tempo, emozioni possono influire negativamente la performance e portare a un errore. E soprattutto quelli in cui risultati migliori si ottengono analizzando una quantità enorme di dati di partenza – troppi per il cervello umano –, eterogenei tra loro e riguardanti diversi parametri allo stesso tempo.

È la visione che in parte racconta racconta anche Eric Topol nella Topol Review del 20191 come anche nel suo libro “Deep Medicine”2: una medicina in cui uomo e macchina, uomo e algoritmi di IA, collaborano e in cui la tecnologia integra e migliora la performance umana invece che sostituirla. «La più grande opportunità offerta dall’intelligenza artificiale non è ridurre il numero degli errori o il carico di lavoro, né persino curare il cancro: è l’opportunità di ripristinare il prezioso e antico rapporto di connessione e fiducia – il tocco umano – tra pazienti e medici», scrive Topol. Le macchine dunque sono strumenti che permettono ai medici di essere medici migliori e di avere più tempo da dedicare ai pazienti, di poter curare più pazienti e farlo meglio.




«La più grande opportunità offerta dall’intelligenza artificiale […] è l’opportunità di ripristinare il prezioso e antico rapporto di connessione e fiducia – il tocco umano – tra pazienti e medici».

Quale di queste due visioni si avvererà, o meglio quale realtà compresa nello spettro di cui queste due visioni sono gli estremi vivremo, dipende da come oggi governi e comunità si porranno rispetto a queste tecnologie e come lavoreranno per cavalcare anziché subire questa inevitabile rivoluzione tecnologica. Per far questo tuttavia sono necessarie trasformazioni culturali e tecnologiche non indifferenti.

Descrivere lo stato dell’arte delle tecnologie di IA equivale a voler raccontare l’acqua che scorre. Non si fa in tempo a scrivere che già è diversa da quella del momento precedente. Ogni giorno vengono proposte nuove applicazioni e quasi continuamente le tecnologie a disposizione sono migliorate, raffinate o superate. Vale però la pena provare a dare una fotografia che illustri i tempi più recenti, se non altro per provare a trasmettere la pervasività e l’ampiezza di applicabilità queste tecnologie.

Al momento, come in molti altri ambiti, le applicazioni di IA che sono più promettenti nell’ambito della ricerca, della clinica e dell’assistenza sanitaria sono quelle che vengono definite di Narrow Artificial Intelligence, dove narrow viene tradotto con “specifico”. «Le tecnologie dell’IA hanno chiaramente negli ultimi anni fatto un passo avanti notevole per cui si cominciano a vedere diversi esempi dove l’algoritmo specifico si comporta meglio o performa meglio dell’essere umano nella stessa situazione», racconta a “Senti chi parla” Giorgio Metta, Direttore Scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT). «I campi dove le cose funzionano piuttosto bene direi che sono tutti quelli dell’elaborazione del dato e il dato può essere sia immagini, come radiografie o Tac, su cui è stato fatto tanto lavoro, ma anche testo e quindi algoritmi per la comprensione del linguaggio naturale come quelli per l’interpretazione delle cartelle cliniche – che tipicamente sono state scritte per l’uomo – sia per l’analisi dei testi degli studi clinici».

Sicuramente poi, prosegue Metta, performance molto elevate si vedono nelle applicazioni in biologia (nel 2020, secondo il rapporto annuale State of AI3, ci sono già state oltre 21mila pubblicazioni riguardanti applicazioni di metodi di IA in biologia). «Per esempio ci sono stati passi avanti molto importanti su quello che si chiama “problema del folding delle proteine”, quindi capire la struttura tridimensionale finale di una proteina partendo dalla sequenza di aminoacidi». Ci sono poi, come ben racconta sempre Eric Topol, applicazioni nell’ambito della cardiologia e persino della salute mentale.

Tuttavia, forse, un modo per illustrare bene lo stato dell’arte dell’IA è legarla alla corrente pandemica di CoViD-19 dando qualche esempio di come è stata utilizzata o come alcune tecnologie potrebbero essere adoperate in caso di una pandemia simile (alcune sono applicazioni magari possibili, ma non ancora implementabili tanto meno nel contesto italiano).

IA vuol dire tecnologie basate su grandi quantità di dati e questi possono essere, per esempio, i dati epidemiologici di cui sentiamo tanto parlare, dati sanitari, dati molecolari o genetici. I dati epidemiologici – tra cui, per capirci, numero di malati nel tempo e nello spazio, dati demografici dei pazienti, tassi di incidenza e prevalenza – possono essere (e in parte lo sono) usati da sistemi che aiutano a capire come si diffonde l’epidemia e prevedere come potrebbe diffondersi in futuro, per capire se le misure prese per fronteggiare il virus sono utili, per stabilire quali ulteriori sono necessarie.

I dati sanitari raccolti quando si visitano i pazienti in ospedale potrebbero essere usati da sistemi che aiutano il medico e gli operatori sanitari a formulare una prognosi e magari a prendere delle decisioni riguardo a terapie e trattamenti. Oppure l’analisi di dati ospedalieri, magari su scala regionale o interregionale, potrebbero permettere l’ottimizzazione di letti di terapia intensiva, ventilatori, Cpap e una migliore e rapida distribuzione dei pazienti tra i vari centri di cura. Tutto questo avviene anche adesso, ma molto spesso viene fatto manualmente da medici che potrebbero impiegare il proprio tempo con i pazienti o che potrebbero risparmiarselo ed evitare il burn out completo.

Grazie al lavoro di sequenziamento del virus, infine, alcune tecnologie di IA possono individuare molto più velocemente molecole che potrebbero essere utili contro il virus per cominciare il prima possibile le sperimentazioni. Oppure per capire se tra i farmaci a disposizione ce ne siano alcuni che potrebbero funzionare e quindi far partire sperimentazioni che già hanno superato i test di sicurezza sull’uomo. Molto probabilmente tecnologie di questo tipo sono state utilizzate per mettere a punto i vaccini al momento in studio.

Ostacoli e rischi

A prescindere da CoViD-19, per riassumere, come ha spiegato Anthony Chang, cardiologo del Children Hospital Orange County e fondatore di AI MED alla Health Care Forecast Conference del marzo 20204, queste tecnologie trovano applicazione in tre i principali ambiti: aiuto nelle decisioni cliniche e monitoraggio ospedaliero; imaging e diagnostica; medicina di precisione e sviluppo di nuovi farmaci.

In ognuno di questi campi, come sottolinea invece il direttore scientifico dell’IIT Metta, «si tratta di applicazioni molto focalizzate con cui si risolve un problema specifico, non bisogna dare loro un significato più ampio del problema che si sta tentando di risolvere. Per esempio, se l’algoritmo ha buone performance nell’identificazione di un particolare problema su immagini mediche, poi non bisogna aspettarsi che dallo stesso sistema esca fuori una diagnosi, che è qualcosa di più complicato che ha magari bisogno di dati da più fonti. Trarre inferenza che quel sistema sia intelligente e allora possa fornire direttamente la diagnosi è un presupposto sbagliato».

Da queste parole emerge uno dei problemi principali che si presenta nell’applicazione dell’IA in medicina, quello della non scalabilità (o della difficile scalabilità) dell’algoritmo. Pensare di poter adoperare un algoritmo per analizzare dati che sono troppo lontani da quelli adoperati nel training o per portare a termine compiti diversi da quelli originariamente pensati è un errore. Per esempio, un sistema in grado di individuare una retinopatia diabetica in un set di pazienti non è detto che sia altrettanto efficiente con un altro problema o che sia applicabile a un set di pazienti troppo distante da quello descritto dai dati inseriti nel sistema al momento del training.

Un secondo problema, forse ancora più basilare, è quello della qualità dei dati con cui oggi si lavora. In un mondo ideale i dati forniti ai sistemi di IA in ambito sanitario sono tutti raccolti e selezionati oggettivamente, correttamente stratificati, ben strutturati ed etichettati nella maniera più chiara, pulita e inequivoca possibile, in modo che il sistema possa analizzarli e sputare l’informazione per ottenere la quale è stato messo a punto.

Tuttavia oggi sia i dati su cui si allenano gli algoritmi sia quelli che devono essere analizzati non sempre sono di grande qualità. «I dati necessari all’addestramento degli algoritmi di ML [machine learning, ndr] per elaborare processi diagnostici nei modelli predittivi sono spesso di qualità non ottimale, perché non sottoposti a quel processo di “ripulitura” e di rielaborazione (stratificazione per coorti, filtrazione per livello di qualità, ecc.) che sarebbe insostenibile nella pratica clinica quotidiana e quindi potrebbero non essere in grado di fornire risposte implementabili per decisioni e trattamenti clinici, anche perché, talvolta, potrebbero “imparare” gli errori delle intelligenze “naturali”, cioè dei professionisti che forniscono i “materiali da allenamento” per gli algoritmi, i training data», spiegano Giampaolo Collecchia e Riccardo De Gobbi nel volume Intelligenza artificiale e medicina5.

Il medico ci serve, perché è l’unico poi che può interpretare effettivamente cosa sta dicendo l’algoritmo.

Questi sono gli errori più preoccupanti, perché possono portare al perpetuarsi di bias, razziali e di genere. Per esempio, è noto che la maggior parte dei database adoperati per trial clinici non contengono un campione sufficientemente rappresentativo di individui che non siano maschi bianchi6. Ed è molto probabile che siano gli stessi dati quelli dati in pasto ai sistemi messi a punto finora, salvo qualche eccezione. Se poi è vero che nei sistemi più avanzati (deep learning) gli algoritmi imparano da soli, in molti casi la quantità di dati necessaria perché questo avvenga è troppo grande rispetto a quella realmente disponibile.

L’importanza dell’uomo nella raccolta e interpretazione dei dati rende evidente che non si può ancora fare a meno di questa componente, almeno nelle decisioni complesse. «Dove noi abbiamo conoscenza l’algoritmo è allenato bene e fa la cosa giusta con un’alta probabilità; dove noi questa conoscenza non ce l’abbiamo oppure quando tentiamo di spostare l’algoritmo da un’applicazione a un’altra le cose non funzionano tanto bene. Quindi la capacità di generalizzare umana bisognerà tenercela sempre lì. Il medico ci serve, perché è l’unico poi che può interpretare effettivamente cosa sta dicendo l’algoritmo e questo è importante perché vuol dire che devo fare anche formazione in ambito di IA verso il settore medico», spiega sempre Metta.

La direzione dunque deve essere sempre più quella della collaborazione uomo-macchina, soprattutto nel tentativo di sviluppare sistemi di IA “generale” e non solo specifica. Queste, secondo Anthony Chang, dovrebbero creare dei sistemi che aumentino l’intelligenza umana e quindi portare anche a una medicina “aumentata”, in un certo senso. Del resto, come sottolinea anche Eric Topol, difficilmente si arriverà a un livello in cui i pazienti e le società si sentiranno a proprio agio a delegare l’intera assistenza sanitaria alle macchine. L’uomo continuerà a essere presente, anche se magari in misura diversa in situazioni e ambiti differenti.

Infine, a rendere tutto ancora più complicato è che i processi coinvolti non sono completamente trasparenti né conoscibili – tanto ai non addetti ai lavori quanto alle volte a chi programma questi sistemi. Come si fa a fidarsi di un responso che non si capisce da dove arriva? «È complicato», spiega Metta. «Da un alto si possono avere degli algoritmi che verifichino altri algoritmi, strada lunga e tecnicamente molto complessa però percorribile, dall’altro si potrebbe arrivare a una sorta di certificazione condivisa, come quella degli elettrodomestici. La cosa migliore sarebbe che la stessa IA potesse spiegarmi come è arrivata a produrre una certa risposta”. Uno strumento importante, secondo Alberto Tozzi, Responsabile dell’Area di Ricerca Malattie Multifattoriali e Malattie Complesse dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, è il monitoraggio continuo: «Capire quale effetto hanno queste IA, capirlo nel tempo, monitorando quello che succede nel tempo, è l’unico modo per evitare che siano perpetuati degli errori. Auspicabilmente l’IA è dinamica e dovrebbe basarsi su dati continuamente forniti all’algoritmo in una sorta di aggiornamento continuo, per questo la verifica puntuale non è sufficiente». Inoltre anche fornire feedback ai sistemi è importante per poterne migliorare le prestazioni, è quello che permette alla macchina di imparare veramente; per questo sorvegliarne i risultati e aggiustare il tiro è un modo per creare sistemi sempre più affidabili. Del resto, come scrive Cathy O’Neil nel suo Armi di distruzione matematica, «senza un feedback costante i sistemi invecchiano e perdono di intelligenza»7.

Alla fiducia è collegato anche il discorso della salvaguardia della privacy dei cittadini: comprometterla è un rischio reale. Il diritto alla privacy è un diritto fondamentale, spesso sottovalutato da noi consumatori di tecnologia che regaliamo dati e informazioni su noi stessi senza pensarci due volte. Su questo tuttavia, in particolare in Europa, si sta lavorando molto. Tuttavia, bisognerebbe in questo ambito fare attenzione all’oggetto della regolamentazione: presi dalla paura si rischia di regolamentare queste tecnologie in modo da bloccarne lo sviluppo e la sperimentazione, anziché regolamentare l’uso improprio delle tecnologie e i prodotti di queste tecnologie che sono dannosi per i cittadini. Un po’ come è successo con le biotecnologie applicate all’agricoltura.

È l’uso improprio di queste tecnologie infatti che porta alla realizzazione della prima visione, quella peggiore, quella in cui anziché migliorare la vita dell’uomo ne peggiorano le condizioni: male usate possono portare a minore accesso alle cure invece che a uno più diffuso e globale. E algoritmi predittivi messi a punto per il settore sanitario possono essere usati da compagnie assicurative o da datori di lavoro per discriminare cittadini con conseguenze che rischiano di aumentare ancora di più la forbice di ineguaglianze tra chi è privilegiato e chi non lo è.

Passi necessari per il futuro

Dunque visti i rischi, visti gli ostacoli ancora da superare, come si può costruire la strada che porta alla seconda visione? Di soluzioni ai singoli problemi se ne possono individuare diverse.
Per esempio, rispetto alla qualità dei dati si possono mettere protocolli e linee guida condivise per la loro strutturazione. Oppure, regole internazionali o accordi sull’uso dei dati che salvaguardino i diritti dei cittadini (è difficile che si arrivi a una regolamentazione condivisa da tutti, ma si può arrivare a soluzioni che permettano di lavorare insieme). O, magari, per fornire ai sistemi database sempre più ampi che permettano un processo di deep learning sempre più raffinato e quindi anche risposte sempre più accurate, si possono avviare progetti internazionali per creare reti di sistemi. «Mettere in rete sistemi di machine e deep learning che condividano i dati delle analisi così come quelli delle terapie potrebbe permettere di ottenere performance sempre più precise e puntuali, e anche meno “narrow”, ovvero in grado di fornire risposte a domande diverse non solo presenza assenza di una patologia specifica, ma un’analisi più ampia e generalizzata del problema che si vuole esaminare», spiega Metta. «Lanciare un progetto di ampio respiro di questo tipo a livello europeo potrebbe essere veramente un progetto di valore».

Tuttavia questa rivoluzione passa prima di tutto da un piano culturale, da una società che investe in tecnologie da tutti i punti di vista. Investire in tecnologie vuol dire ovviamente raggiungere un livello di digitalizzazione – non solo del sistema sanitario, ma del sistema Paese – adeguato e costruire le infrastrutture necessarie (data server, infrastrutture per lo storage e per il calcolo, e via dicendo). Vuol dire capire che si tratta di un ecosistema digitale e non solo del settore dell’IA (ma anche big data, robotica, informatica). Prima di tutto questo, tuttavia, ci deve essere un investimento in formazione. Formazione intesa come scuola, università ma anche percorsi di educazione continua. «È dimostrato che io riesco a utilizzare meglio l’intelligenza artificiale se ho conoscenza di come funziona», sottolinea Giorgio Metta. «Non tutti devono diventare sviluppatori di algoritmi però ci vuole una conoscenza del mezzo, altrimenti è come usare un martello senza avere idea a cosa serva, ci vuole quest’opera di formazione a priori altrimenti si rischiano di fare degli errori veramente molto molto grossolani».

«Anche negli ambienti più avanzati», fa eco Tozzi, »il livello di conoscenza è bassissimo. Ci si scontra spesso contro il timore di fare delle cose che sono difficili e quindi di sbagliare. Inoltre, confrontandosi con queste tecnologie è facile sentirsi inadeguati, obsoleti e aver paura di dover ricominciare da capo. Ma non è una colpa pensare che a un certo punto le cose cambiano e quindi bisogna capire, bisogna studiare bisogna accogliere competenze diverse. Perché l’IA sia trustworthy bisogna che venga valutata da tecnici (clinici, data scientist e pazienti), esperti di etica e esperti della parte regolatoria. Parola magica: multidisciplinarietà».

«Dobbiamo sempre ricordare che l’intelligenza artificiale è uno strumento per l’uomo ed è la ragione dell’uomo che fa la differenza. Tuttavia se la ragione dell’uomo non comprende profondamente le opportunità che vengono offerte farà un uso o marginale o addirittura sbagliato dell’intelligenza artificiale», conclude il medico del Bambino Gesù. «La modestia dell’approccio e la necessità di approfondire sono le cose su cui ci dobbiamo impegnare perché l’intelligenza artificiale sia davvero affidabile e sia uno strumento di cambiamento».

Caterina Visco

Bibliografia

3. The Topol Review. Preparing the healthcare workforce to deliver the digital future. The NHS Constitution, 2019.

4. Topol E. Deep Medicine. New York: Basic Books, 2019.

5. Benaich N, Hogarth I. State of AI Report 2020. Disponibile su: https://www.stateof.ai/ [ultimo accesso 4 dicembre 2020].

6. Health Care Forecast Conference, 2020. Intervento di Chang A. Disponibile su: https://bit.ly/3geV4UO [ultimo accesso 4 dicembre 2020].

7. Collecchia G, De Gobbi R. Intelligenza artificiale e medicina. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2020.

8. Ferrucci B. Biobanche troppo bianche: forniscono informazioni poco utili a popolazioni diverse. Senti chi parla, 16 settembre 2019. Disponibile su: https://bit.ly/3mPDCZs [ultimo accesso 4 dicembre 2020].

9. O’Neil C. Armi di distruzione matematica. Milano: Bompiani, 2017.