Dalla letteratura

Conviene abbandonare gli psicofarmaci in gravidanza?

«Ricordo come fosse oggi mia madre che mi diceva durante le ultime fasi della gravidanza: “Ne varrà la pena quando terrai il tuo bambino tra le braccia”. Dopo un travaglio lungo ma tutto sommato semplice, ho guardato negli occhi il mio bambino e ho sentito un enorme sollievo al pensiero fosse finita. Non mi preoccupava più nulla e pensavo fosse più che comprensibile essere più concentrata sulla necessità di riposarmi che sul creare dal primo istante un legame con il mio bambino. Le ostetriche hanno portato via per un po’ il bambino e mi sono riposata. Non riesco a ricordare di aver pensato a lui o di chiedermi dove fosse. Poi me lo hanno riportato e guardandolo negli occhi mi sono vergognata di essere insensibile. Era bello, non potevo negarlo. Sapevo di amarlo ma mancava qualcosa. Tutto quello che sentivo era il vuoto. Mi sembrava di guardare il bambino di qualcun altro».




Depressione: la frequenza con cui il disturbo si manifesta è aumentata negli ultimi trent’anni, in parte sull’onda del progressivo aumento della durata della vita e del numero delle persone anziane. Anche se è sempre difficile azzardare delle cifre, si pensa siano circa 350 milioni le persone che ne soffrono nel mondo. È una condizione che pesa non soltanto sull’animo delle persone, ma anche sui sistemi sanitari: solo negli Stati Uniti si ritiene che i disturbi depressivi siano all’origine di un costo superiore ai 210 miliardi di dollari. La metà è attribuibile ai costi collegati alle assenze o all’interruzione del lavoro, più del 40% ai costi diretti ma una piccola, ma significativa parte, ai costi legati ai casi in cui le persone si tolgono la vita. La tendenza alla crescita dei disturbi psichici e in particolare di quelli depressivi è una sfida enorme per i sistemi sanitari sia di quelli del “primo mondo” sia dei contesti in via di sviluppo. Alla necessità di ristabilire delle condizioni sociali ed economiche che siano capaci di contrastare l’emergere del disagio psichico, si accompagna l’urgenza di curare i pazienti e migliorare l’assistenza nell’ambito della salute mentale.

«Le settimane successive furono molto dure. Col senno di poi non ero preparata a crescere un bambino. Avevo tenuto in braccio un bambino solo in poche occasioni e poi solo per un breve periodo di tempo. Niente sonno, pianto costante e mancanza di tempo per me stessa. Al mio smarrimento si aggiungeva la paura che il piccolo stesse male: non pensavo che il suo pianto continuo fosse normale. Per fortuna il mio medico di famiglia mi ha garantito che non era malato. Il problema è che lo stesso medico mi ha detto che potrei avere una depressione post partum. Mi sono sentita così offesa che me ne sono andata e non sono più tornata nel suo studio. Le parole del dottore mi risuonarono nelle orecchie per tutto il tragitto fino a casa. Nel profondo del cuore sapevo che qualcosa non andava. Ho una storia familiare di depressione e la riconoscevo. Ma non ero convinta: non potevo avere la depressione, doveva essere il periodo più bello della mia vita».

I pensieri che abbiamo riportato sono tratti da alcuni tra le tante storie che, in rete, testimoniano la depressione che colpisce la donna durante e dopo la maternità: “una indefinibile sensazione di malinconia, tristezza, irritabilità e inquietudine” spiega il Ministero della salute. I risultati della ricerca internazionale dicono che il momento in cui maggiormente si manifesta la crisi emotiva nella madre è intorno al secondo mese. Il disturbo solitamente si protrae fino a estendersi anche oltre un anno dopo il parto, così che dovrebbe essere previsto un appropriato follow-up da parte del medico o, più in generale, del servizio sanitario. Nella revisione dalla quale abbiamo estrapolato queste informazioni, l’incidenza della depressione post partum è risultata essere del 12% e variava dal 3,4% al 34% sulla base degli studi inclusi nella valutazione1. Le ricerche condotte negli ultimi anni, però, spiegano che sono a maggior rischio di depressione perinatale le donne che hanno sospeso un trattamento antidepressivo una volta accertata la gravidanza2.

Molto spesso la depressione post partum è il segno di un disagio iniziato durante la gravidanza, “il periodo più bello” nella vita di una donna, scrive la ragazza raccontando la propria storia di depressione. Un periodo talmente felice che non si può correre il rischio di rovinarlo assumendo medicinali che possano nuocere al feto e, successivamente, al bambino.

Le conseguenze della depressione perinatale sulla salute della donna, del bambino e delle altre persone che vivono in famiglia rappresentano un problema importante, spiega il rapporto nazionale sull’Uso dei farmaci in gravidanza curato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Esistono numerose possibilità diverse per curare o gestire questo disagio e devono essere considerate durante la gravidanza e l’allattamento bilanciando i possibili rischi legati all’utilizzo del farmaco con le possibili conseguenze negative causate dal mancato trattamento. Invece, solo il 14% delle donne in gravidanza e il 16% delle donne nel post partum ricevono un qualche trattamento, non solo farmacologico, avvertono gli autori del rapporto.

L’Unità operativa di Psichiatria e psicologia clinica del Policlinico Tor Vergata di Roma ha un’attività di ricerca molto intensa su questi temi e ne abbiamo parlato col direttore, Alberto Siracusano: «Se timore significa prudenza e attenzione alle scelte terapeutiche è sicuramente giustificato, in quanto tutti i farmaci passano il filtro placentare e dunque vengono assunti anche dal feto ed esistono delle percentuali di rischio di sviluppo anormale di alcuni organi del feto – in altre parole, di teratogenesi – e sono differenti a seconda del trimestre di gravidanza in cui il farmaco viene assunto. Invece, se timore significa rifiuto e diffidenza verso le cure dei disturbi psichiatrici in gravidanza, è un errore. Infatti, molte persone non sanno che i farmaci sono classificati in categorie a seconda del potenziale di teratogenicità e vengono scelti solo quelli che appartengono alle classi con minor rischio».

Anche al Dipartimento di neuroscienze dell’università di Verona, in un centro collaborativo dell’Organizzazione mondiale della sanità, si studiano da tempo l’efficacia e la tollerabilità degli psicofarmaci: «I diversi psicofarmaci mostrano profili di sicurezza molto eterogenei per quanto concerne il rischio di complicanze durante e dopo il parto, anomalie nello sviluppo fetale e nello sviluppo neuropsicologico dei primi anni di vita» ci dice Giovanni Ostuzzi. «Per molti farmaci, i dati disponibili sono scarsi per poter confermare o escludere con certezza la presenza di un rischio. Tale rischio tende comunque a ridursi nelle fasi più avanzate della gestazione. Le evidenze provenienti dalle più recenti revisioni sistematiche – vale a dire da studi che sintetizzano i risultati delle ricerche più affidabili condotte a livello internazionale – indicano che gli antidepressivi, e in particolare quelli di nuova generazione, sono relativamente sicuri in corso di gravidanza, con la possibile eccezione di paroxetina». In linea con quanto osserva il ricercatore di Verona, il rapporto dell’AIFA mette in luce che la paroxetina è assunta da circa il 17% delle donne che utilizzano antidepressivi nei nove mesi antecedenti il concepimento ma la percentuale scende al 9% nel primo trimestre di gravidanza e si dimezza ulteriormente nei trimestri successivi. «Nel post partum si osserva un aumento, ma molto contenuto che quindi non riporta ai livelli registrati inizialmente».




Il problema, però, è che anche il ricorso agli altri farmaci antidepressivi si dimezza con l’avvio della gravidanza e si dimezza ulteriormente alla fine del primo trimestre di gestazione. «Abbandonare la terapia antidepressiva durante la gravidanza, se la donna la assumeva in precedenza, è un grave errore» spiega Cinzia Niolu, responsabile dello sportello SOS mamma, dedicato ai disturbi psichici perinatali, attivo presso l’Unità operativa di Psichiatria e psicologia di Tor Vergata già da diversi anni. «Errore che purtroppo viene ancora molto frequentemente compiuto, sia da parte delle donne, in autonomia, sia da parte dei medici curanti, ginecologi e talvolta, anche da alcuni psichiatri. Tale sospensione espone la donna al rischio di aggravamento e recidiva, con conseguenze spesso gravi sia per la donna stessa che per il feto e per l’andamento generale della gravidanza. È importante ricordare che nella depressione perinatale, in gravidanza, il rischio di suicidio è molto più alto che nella depressione maggiore nelle altre fasi della vita». Lo conferma Ostuzzi: «È importante sottolineare che episodi depressivi in gravidanza e nel post partum possono associarsi a elevati rischi per madre e figli, e che la gravidanza non è in sé protettiva per lo sviluppo o esacerbazione della depressione o di altri disturbi mentali. In generale, le evidenze scientifiche suggeriscono che un disturbo depressivo non adeguatamente trattato in corso di gravidanza potrebbe associarsi a rischi maggiori rispetto a quelli associati alla terapia stessa». Per esempio, nei casi più gravi, come abbiamo detto, possiamo trovarci di fronte a comportamenti suicidari, oppure può ridursi la frequenza con cui la donna accede ai servizi sanitari, può aumentare il fumo di sigaretta, la mamma può bere alcoolici o assumere altre sostanze che possono provocare parto pretermine o basso peso alla nascita. «Poiché molti fattori entrano in gioco e non è possibile generalizzare, il compito del medico specialista psichiatra sarà di indicare gli interventi più consoni sulla base di un’attenta analisi dei rischi e benefici legati al farmaco e al disturbo depressivo nel caso specifico» conclude Ostuzzi.

Uno dei problemi è rappresentato dalla preparazione del medico, che non sempre è adeguata: «Purtroppo anche i medici spesso hanno scarse conoscenze sulla sicurezza dei farmaci in gravidanza e nel corso dell’allattamento, e suggeriscono di interrompere la terapia o di sconsigliare l’allattamento» ammette Antonio Clavenna, ricercatore dell’Istituto Mario Negri di Milano e tra i coautori del rapporto sull’Uso dei farmaci in gravidanza curato dall’AIFA. «Mi è capitato di ricevere qualche anno fa una e-mail da parte di una mamma disperata in terapia con antidepressivi compatibili con l’allattamento e che desiderava allattare, ma a cui lo psichiatra aveva controindicato in modo molto fermo questa possibilità. Purtroppo non si tratta di casi isolati». È un problema di difficile soluzione e su questa complessità torna anche Cinzia Niolu confermando che almeno in linea teorica «sicuramente il setting delle cure primarie è il più indicato per una precoce identificazione del disagio, dato che il medico conosce la donna e la famiglia, e pertanto anche i fattori di rischio personali e familiari: presenza di disturbi psichiatrici prima della gravidanza, familiarità, status socio-economico, rapporti di coppia».

I luoghi e i protagonisti delle cure primarie sono dunque un fondamentale punto di riferimento per coloro che soffrono di disturbi ansiosi e depressivi, e questo principio vale anche durante la gravidanza e nel post partum. «Il medico di medicina generale – conferma Giovanni Ostuzzi – può fornire indicazioni sugli interventi di prima linea, inclusi interventi sullo stile di vita, supporto psicologico, gruppi di auto mutuo aiuto e, se indicato, terapia psicofarmacologica, tenendo in considerazione eventuali controindicazioni specifiche relative alla gravidanza e all’allattamento. Il medico di medicina generale favorirà l’invio a uno specialista psichiatra qualora gli interventi di prima linea non fossero sufficienti, o vi fossero problemi di tollerabilità dei farmaci prescritti, o nei casi in cui la sintomatologia ansioso-depressiva risultasse particolarmente severa o sia già in corso un trattamento psicofarmacologico complesso». Della necessità di una collaborazione stretta tra medico di medicina generale e medico specialista sono convinti anche Siracusano e Niolu: «I medici di famiglia devono essere informati e formati per essere in grado di identificare i primi segni di allarme e intervenire tempestivamente, inviando alle strutture specialistiche. Va tenuto presente anche che le visite presso lo specialista psichiatra possono essere estremamente utili non solo per la scelta terapeutica iniziale – per esempio per la valutazione dell’opportunità di una psicofarmacoterapia rispetto a una terapia psicologica – ma anche per superare le resistenze individuali, di coppia e familiare, nell’assunzione dei farmaci. Il modello di presa in carico più utile è la stretta collaborazione tra medico di base e specialista psichiatra».

La gravidanza è un dunque un determinante importante dell’interruzione della terapia farmacologica della depressione: le donne in gravidanza hanno una probabilità cinque volte maggiore di interrompere l’uso rispetto a quelle non in gravidanza3. È un punto sul quale convergono molti studi: solo 1 donna su 4 sottoposta a trattamento antidepressivo prima del concepimento riferisce di aver assunto antidepressivi nel terzo trimestre4. Evitare l’esposizione fetale è il motivo principale per cui le donne interrompono gli antidepressivi ma il rischio di eventi avversi e di un impatto preoccupante sul bambino associati a depressione non trattata sono da non trascurare assolutamente5. «La stigmatizzazione degli psicofarmaci non è giustificata» spiega Ostuzzi «e va combattuta anzitutto promuovendo una corretta informazione. Gli psicofarmaci possono notevolmente migliorare il controllo del disturbo depressivo in gravidanza e nel post partum. Se assunti consapevolmente e sotto la guida del medico, in gran parte dei casi i loro benefici superano notevolmente i rischi legati al disturbo». È fondamentale un’efficace interazione tra la donna e i diversi professionisti coinvolti, dal medico di medicina generale, al ginecologo e allo psichiatra. Se possibile con il coinvolgimento del partner della donna.

La diffidenza nei confronti dei farmaci antidepressivi non caratterizza tutte le donne allo stesso modo: «Pur con le cautele e i limiti associati all’uso di dati amministrativi – osserva Antonio Clavenna – quello che emerge dal rapporto sull’Uso dei farmaci in gravidanza sembra indicare che le donne con un livello di istruzione più basso e disoccupate tendono a interrompere la terapia psicofarmacologica in gravidanza più frequentemente delle altre mamme. Le differenze sulla prevalenza di prescrizione di questi farmaci che si osservano prima della gravidanza (prevalenza più elevata in chi ha un livello di istruzione più basso ed è disoccupata) si assottigliano, infatti, durante la gravidanza. Questo verosimilmente è associato a un maggior rischio di non essere adeguatamente assistite durante il periodo della maternità e non solo per ciò che riguarda la terapia psicofarmacologica». Può darsi che su questi differenti comportamenti influisca anche lo scetticismo sugli antidepressivi che viene diffuso attraverso i media, con articoli sensazionalisti e poco equilibrati. Uno studio pubblicato su Psychological Medicine6 ha confrontato citazioni e rappresentazione dei farmaci antidepressivi confrontando il modo di trattarli con quello riservato ai trattamenti di psicoterapia da parte di alcuni dei media online più popolari nel Regno Unito: The Sun, The Daily Mirror, Daily Mail, Daily Express e The Custode. Ebbene, gli antidepressivi sono ritratti in modo più negativo rispetto alle terapie psicologiche, sia nei titoli che negli articoli stessi. Un quadro simile a quello descritto da un’altra ricerca simile condotta in Danimarca7.

«Lo stigma nei confronti della psicofarmacoterapia in generale è ancora molto forte, nonostante si vada ridimensionando con il passare degli anni» ammette Alberto Siracusano. «Nei confronti della psicofarmacoterapia in gravidanza, invece, lo stigma resiste inalterato. La visione dicotomica psicoterapia buona/farmacoterapia cattiva deve essere superata dall’utilizzo personalizzato – tailored – e integrato di entrambe. La psicoterapia da sola, individuale o di coppia o di gruppo, può essere utilizzata nei casi più lievi, la farmacoterapia va riservata ai casi di gravità moderata e grave, alle donne che erano già in trattamento prima della gravidanza, a quelle che hanno una anamnesi positiva per disturbi psichiatrici nelle gravidanze precedenti, da sola o in associazione alla psicoterapia». Qualsiasi trattamento – spiegano i clinici di Tor Vergata – dimostra la massima efficacia quando è integrato e messo in atto sulla base delle diverse caratteristiche della donna, sui suoi vissuti personali, familiari e sulla condizione socio-economica: «in un’ottica più attuale di medicina e psichiatria personalizzata, di precisione, che supera di fatto le vecchie dicotomie. In altre parole, al centro del trattamento non è la psicoterapia o il farmaco, ma la paziente, sulla quale entrambi vanno – per così dire – cuciti. Purtroppo lo stigma verso i trattamenti psicofarmacologici e verso i disturbi psichiatrici sta trovando nell’ultimo periodo una forte diffusione in quanto si va unendo a una generale critica contro le competenze tecnico-scientifiche e mediche. L’uso della rete, dei social, addirittura attraverso siti specifici, diffonde un’informazione distorta e sbagliata sul significato delle malattie e sull’uso dei farmaci».

Continuare a seguire la terapia durante la gravidanza – quando non ci siano controindicazioni evidenti – dovrebbe essere un obiettivo in comune del medico e della donna. In altre parole, uno di quei terreni ideali dove realizzare quello che viene definito “shared decision-making”: una decisione condivisa e per questo più resistente agli eventi della vita. Iniziative come l’istituzione dell’Osservatorio nazionale Multicentrico per la Depressione Perinatale (OMPD), avviato da Cinzia Niolu e al quale già aderiscono 16 centri di diverse regioni, sono preziose anche perché riescono a tradurre tempestivamente le attività di ricerca in documenti capaci di informare la pratica clinica, come il rapporto redatto in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità “Indicazioni di un programma di intervento per la gestione dell’ansia e della depressione perinatale nell’ emergenza e post-emergenza covid-19”. Il rapporto AIFA sull’Uso dei farmaci in gravidanza va nella stessa direzione, interrogando e collegando tra loro delle banche dati di diversa natura, sfruttando la collaborazione possibile tra istituzioni, gruppi di lavoro e ricercatori.

Rebecca De Fiore

Bibliografia

1. Shorey S, Chee CY, Ng ED, et al. Prevalence and incidence of postpartum depression among healthy mothers: a systematic review and meta-analysis. J Psychiatric Res 2018; 104: 235-48.

2. Bayrampour H, Kapoor A, Bunka M, et al. The risk of relapse of depression during pregnancy after discontinuation of antidepressants: a systematic review and meta-analysis. J Clin Psychiatry 2020; 81: 19r13134.

3. Petersen I, Gilbert RE, Evans SJ, et al. Pregnancy as a major determinant for discontinuation of antidepressants: an analysis of data from The Health Improvement Network. J Clin Psychiatry 2011; 72: 979-85.

4. Ververs T, Kaasenbrood H, Visser G, et al. Prevalence and patterns of antidepressant drug use during pregnancy. Eur J Clin Pharmacol 2006; 62: 863-70.

5. Zou R, Tiemeier H, Van Der Ende J, et al. Exposure to maternal depressive symptoms in fetal life or childhood and offspring brain development: a population-based imaging study. Am J Psych 2019; 176: 702-10.

6. Pathak A, Lim E, Lawrie S. Needlessly controversial: the reporting of pharmaco-and psychotherapy for the treatment of depression in the UK media. Psychol Med 2020; 1-6.

7. Lauridsen MG, Sporrong SK. How does media coverage effect the consumption of antidepressants? A study of the media coverage of antidepressants in Danish online newspapers 2010-2011. Res Social Admin Pharmacy 2018; 14: 638-44.

Prediabete negli anziani: prevalenza elevata, rilevanza clinica scarsa

Gli anziani che rientrano nella categoria del cosiddetto “prediabete” hanno più probabilità di morire o di ritornare a una condizione di normoglicemia che di sviluppare effettivamente un diabete. Sono stati pubblicati su JAMA Internal Medicine i risultati di uno studio condotto su un campione di soggetti con un’età media di 75 anni, i quali mettono in discussione l’utilità della categoria diagnostica in questa popolazione1.

Quanti sono gli anziani con prediabete che diventano diabetici?

Per rispondere a questa domanda i ricercatori hanno preso in considerazione una coorte di 3412 individui non diabetici – età media: 75,6 anni – inclusi nell’Atherosclerosis Risk in Communities Study (ARIC), finanziato dal National Heart, Lung, and Blood Institute dei National Institutes of Health degli Stati Uniti.

La condizione di prediabete è stata definita dal riscontro di un livello di emoglobina glicata (HbA1c) compreso tra il 5,7% e il 6,4%, di un livello di glicemia a digiuno alterato (IFG) (tra 100 e 125 mg/dL), o di entrambi. L’incidenza del diabete è stata invece calcolata sulla base delle diagnosi effettuate dai medici, dell’uso di terapie per il controllo della glicemia, dei livelli di HbA1c (superiori o uguali al 6,5%) o dei livelli di IFG (superiori o uguali a 126 mg/dL).

Dei 3412 soggetti inclusi nello studio, 2497 hanno effettuato la visita di follow-up o sono deceduti. A 6,5 anni dal reclutamento sono state registrate 118 diagnosi di diabete e 434 decessi. La prevalenza di prediabete nella coorte considerata è risultata molto elevata: 2482 soggetti (73%) avevano un livello HbA1c compreso tra il 5,7% e il 6,4% o un livello di IFG alterato, mentre 1.004 (29%) li avevano entrambi.

I dati al follow-up a 6,5 anni, tuttavia, hanno messo in evidenza come il rischio di sviluppare effettivamente un diabete sia, in questi soggetti, piuttosto ridotto:

tra gli anziani con un livello HbA1c compreso tra il 5,7% e il 6,4%, 97 (9%) hanno poi sviluppato un diabete mentre 148 (13%) sono tornati a una condizione di normoglicemia (HbA1c <5,7%) e 207 sono deceduti (19%);

tra quelli con livelli di IFG tra 100 e 125 mg/dL, invece, quelli che hanno poi sviluppato un diabete sono stati 112 (8%) mentre 647 (44%) sono tornati a una condizione di normoglicemia (IFG <100 mg/dL) e 236 sono deceduti (16%);

tra i soggetti con normoglicemia alla baseline, invece, solo il 3% ha in seguito ricevuto una diagnosi di diabete: 41 tra quelli con livelli di HbA1c <5,7% e 26 tra quelli IFG <100 mg/dL. Il passaggio in una condizione di prediabete si è invece registrato in 239 (17%) e 80 (8%) soggetti, rispettivamente.




Gli autori dello studio concludono quindi che, a fronte di un’elevata prevalenza, nella fascia di popolazione con età superiore a 75 anni la definizione di prediabete non permette di individuare precocemente gli anziani che svilupperanno effettivamente un diabete: di fatto è più probabile che un soggetto che rientra in questa categoria muoia o ritorni a una condizione di normoglicemia.

In un articolo di commento pubblicato sullo stesso numero di JAMA Internal Medicine, Kenneth Lam e Sei J. Lee2, dell’University of California, sottolineano come il significato clinico di queste evidenze dipenda dal tipo di soggetto che ci si trova di fronte: fragile e con un’aspettativa di vita limitata o di età superiore ai 75 anni ma sano.

Nel primo caso, scrivono, «il prediabete è irrilevante e può essere ignorato in sicurezza. Poiché è molto probabile che gli effetti della gestione del prediabete emergano dopo 10 o più anni è improbabile che gli anziani fragili e con un’aspettativa di vita limitata ne traggano un beneficio».

Anche per la maggior parte degli anziani sani, tuttavia, la gestione del prediabete non dovrebbe essere una priorità. Poiché con i trattamenti oggi disponibili il diabete di tipo 2 in molti casi può essere visto, più che come una malattia in sé, come un fattore di rischio asintomatico per complicanze vascolari. Quindi, scrivono Lam e Lee, il prediabete costituisce un fattore di rischio “due volte rimosso”.

«Il prediabete dovrebbe avere una priorità inferiore rispetto alle condizioni sintomatiche o ai fattori di rischio tradizionali», scrivono. «Il tempo e gli sforzi necessari per discutere le strategie di gestione dopo una diagnosi di prediabete non dovrebbero andare a scapito di altre questioni di immediata importanza per il paziente».

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Rooney MR, Rawling AM, Pankow JS, et al. Risk of progression to diabetes among older adults with prediabetes. JAMA Intern Med 2021; e208774.

2. Lam K, Lee SJ. Prediabetes: a risk factor twice removed. JAMA Intern Med 2021; Feb 8. doi:10.1001/jamainternmed.2020.8773