Il futuro della medicina generale in Italia:
un cambio metodologico

ATTILIO DALLA VIA1

1già Formatore - Regione Veneto e Tutor Valutatore, Università di Padova

Pervenuto il 29 aprile 2021. Accettato il 17 maggio 2021.

L’articolo comparso nel numero di marzo 2011 di Recenti Progressi in Medicina dal titolo “Libretto di istruzioni per riformare la medicina generale italiana1 e il commento all’articolo stesso di Rubatto e Maciocco “Riformare la Medicina Generale italiana”2 mi hanno indotto alcune riflessioni.

La prima, che sembrerà polemica, è che da molti anni proposte di riforma strutturale e culturale della medicina generale (MG) provengono da ambiti accademici che non hanno una conoscenza diretta e continuativa del territorio e di conseguenza non sempre ne percepiscono le esigenze. L’università ha quasi sempre chiuso le porte alla MG, ritenendola subalterna, non consentendo la realizzazione di corsi durante l’ultimo triennio di laurea, bloccando la formazione di dipartimenti in cui organizzare una ricerca improntata alle cure primarie e ignorando il documentato gradimento di studenti e di giovani colleghi in attesa dell’esame di Stato per la frequenza degli ambulatori dei medici di medicina generale (MMG). Il territorio è sempre e solo stato per molti un oggetto passivo, un contenitore di una cultura medica focalizzata su modelli ospedalieri e spesso sponsorizzata dalle industrie farmaceutiche.

Non è neppure possibile una generalizzazione dei bisogni formativi. I cambiamenti del Servizio sanitario nazionale (SSN) causati dalla modifica dell’articolo V della Costituzione hanno frammentato l’organizzazione delle cure e a modelli diversi corrispondono esigenze didattiche diverse, come ampiamente dimostrato dai differenti percorsi delle Scuole di formazione regionali. L’eccesso di autonomia dei servizi sanitari regionali fu anni fa criticato dalla professoressa Barbara Starfield, che poté studiare tutti i sistemi sanitari europei, tranne quello italiano, per l’eccessiva diversificazione, indicandola come diffusa causa di malfunzionamento della sanità e della formazione medica3.

Non è neppure vero che ci sia un vuoto diagnostico negli ambulatori medici: Atul Gawande, chirurgo e professore alla Harvard medical school di Boston, nel 2017 ha pubblicato sul New Yorker un articolo dal titolo “The heroism of incremental care”4 (tradotto dal settimanale Internazionale con il titolo “Il medico che ti può salvare la vita”5. L’articolo rivaluta il ruolo della medicina di prossimità, del contatto umano e della continuità che permettono, tra le altre cose, diagnosi più accurate e “in divenire”, la “medicina incrementale”, contrapposta alla “medicina eroica” che spesso guadagna l’attenzione dei giornali e della tv. Una medicina non sensazionale che aiuta a vivere le persone meglio e più a lungo. La medicina di famiglia, o generale, o di base, appunto.

Una medicina che, per esempio, è fondamentale per la cura e il monitoraggio dell’ipertensione e del diabete, oltre che di tutte quelle malattie croniche che considerate insieme fanno più vittime del cancro. Un approccio sempre più importante, dato il trend di invecchiamento della popolazione. Più di un quarto degli europei che muoiono prima dei 75 anni vivrebbero di più se ricevessero cure mediche appropriate, tagliate a misura di paziente, cure che hanno radici in una conoscenza spesso datata. Una medicina lenta, una medicina narrativa, in cui la tecnologia è supporto e non conditio sine qua non.

In questo mi trovo su posizioni diverse da quella della Scuola da cui provengo, la Semeiotica Medica di Padova diretta da un grande metodologo clinico, il professor Mario Austoni. I suoi successori, i professori Scandellari e Federspil, tra i massimi esperti di metodologia clinica negli anni ’70 del secolo scorso, proposero un diagramma6 delle conoscenze mediche (figura 1).




Non si tratta solo di quantità e qualità del sapere. La medicina generale ha una propria peculiare metodologia, che vede le malattie all’esordio, indistinte, e che valuta età, reddito e condizione sociale, cultura, etnia, visione della vita, aspettative, per affiancare il paziente nel percorso di diagnosi e cura. Che considera ancora il tempo, elemento rischioso in un’ottica di costosa medicina difensiva e l’osservazione come strumento fondamentale di diagnosi.

Una tecnologia “fast” indubbiamente aiuterebbe la rapidità di un percorso diagnostico, e chi scrive vorrebbe per esempio avere padronanza di un’ecografia di primo livello, ma a completamento di un percorso di cura personalizzato.

Con questi presupposti una Scuola di specializzazione in medicina generale è assolutamente auspicabile, ma dovrebbe affondare le sue radici nel territorio e nei suoi medici, sistematizzarne le peculiarità, occuparsi di una ricerca utile a quello che è richiesto dalla prassi quotidiana, interfacciarsi con altre figure fondamentali, come infermieri, psicologi del territorio e assistenti sociali, insegnare a utilizzare semplici supporti tecnologici, prendere dal mondo accademico ospedaliero e universitario quello che serve, creare percorsi condivisi di cura con gli specialisti (l’attività di referral del mondo anglosassone), sapersi rinnovare, creare un corpus di conoscenze e prassi.

Quanto considerato è però indissolubilmente legato al futuro assetto organizzativo che la società e la politica vorranno dare alla medicina generale.

Se verranno costituite le case della salute, forse ispirate al modello catalano, dove opereranno in équipe medici in regime di dipendenza, sensibilmente ridotti di numero rispetto a oggi, strettamente legati alle disposizioni aziendali, coordinati in turni ambulatoriali e di cura domiciliare dei malati cronici, i bisogni formativi di una Scuola di specializzazione in medicina generale dovranno essere profondamente diversi.

Prevarranno per esempio lo studio delle linee guida della cronicità, l’applicazione delle direttive ministeriali su protocolli terapeutici, le cure palliative con interventi multidisciplinari e di professionisti a rotazione per i malati portatori di una qualunque terminalità (documento della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva sulle grandi insufficienze d’organo “end stage” del 2013)7, l’addestramento all’utilizzo di tecnologia strumentale ambulatoriale, la telemedicina, il potenziamento informatico, l’utilizzo di sistemi intelligenti nella gestione delle malattie, la comunicazione all’interno dell’équipe.

Il rapporto del paziente sarà con un gruppo e non più con un singolo medico, e questo avrà un impatto sociologico non prevedibile in una popolazione abituata ad avere un punto di riferimento preciso, come recentemente dimostrato dalla pandemia di covid-19, che non implica solo cura ma anche prevenzione, rassicurazione, convincimento e comunicazione per un ampio spettro di bisogni, dalla paura del vaccino ai certificati di quarantena.

Sarà la fine di una medicina lenta per rapporti storici, incrementale, che cerca di coniugare la scienza con la personalità di ogni singolo paziente e la sua storia. Per molti la telemedicina e il video-consulto non potranno probabilmente mai sostituire lo sguardo del medico e la sua mano che sonda ed esplora il corpo.

Dovrà essere il mondo civile a fare una scelta: difficilmente si potrà avere contemporaneamente un rapporto fiduciario consolidato nel tempo e spesso con caratteristiche empatiche e una medicina orientata a dare risposte alle malattie e non alla salute che, secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, è «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale» e non semplice assenza di malattia o di infermità.

Bibliografia

1. Badinella Martini M, Garattini L, Mannucci PM. Libretto di istruzioni per riformare la medicina generale italiana. Recenti Prog Med 2021; 112: 182-5.

2. Rubatto E, Maciocco G. Riformare la medicina generale italiana. Salute Internazionale 2021; 26 aprile.

3. Starfield B, Shi L, Macinko J. Contribution of primary care to health systems and health. Milbank Q 2005; 83: 457-502.

4. Gawande A. The heroism of incremental care. The New Yorker 2017; 15 gennaio.

5. Gawande A. Il medico che ti può salvare la vita. Internazionale 2017; 10 novembre.

6. Federspil G, Scandellari C. Medicina Interna e Specializzazioni mediche: un rapporto complesso. La Medicina Internazionale 1994; 81-102.

7. Gruppo di studio di bioetica della Società italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI). Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive o cure palliative? Disponibile su: https://bit.ly/3wBO5N5 [ultimo accesso 17 giugno 2021].