Se la medicina narrativa trae ispirazione da Dante

Sandro Spinsanti1

1Istituto Giano, Roma.

Pervenuto su invito il 2 novembre 2021.

Riassunto. Ogni medico inizia il rapporto con un paziente sollecitando un racconto, così come egli stesso racconta storie per comprendere la malattia del paziente. Siamo di fronte a quella che è stata definita “medicina narrativa”. Proviamo qui a prendere Dante come guida per compiere il nostro viaggio nella relazione di cura e nella comprensione della malattia, attraversando l’“inferno” del dolore e della solitudine, passando per la scalata al monte del purgatorio alla ricerca della guarigione, ovvero – come ci sembra ovvio – del paradiso. Ma scopriamo di potervi entrare solo se diamo il giusto valore al racconto della nostra vita, che include inevitabilmente il morire. Il saper morire non è in contraddizione con la salute, anzi, possiamo definirlo come il coronamento più alto di una vita sana vissuta nella sua pienezza.

If narrative medicine draws inspiration from Dante.

Summary. A doctor patient relationship is made of stories. The story the patient tells the doctor and the one the physician uses to explain the patient’s illness. Nowadays we call it “narrative medicine”. The poet Dante can be a guide for our journey from the relationship of cure and care to the comprehension of pain and loneliness. With him we can ascent the hill of purgatory searching for healing or, it seems obvious, for paradise. We learn that we will be able to enter there only if we attribute the right meaning to the story of our life, which includes inevitably: dying. The knowledge of dying is not in contradiction to health, indeed it may be the crowning glory of a healthy life, lived in it’s fullness.

Dante e la medicina narrativa. Suvvia, non scherziamo: il sommo poeta e la narrazione in medicina sono due cose serie, ma ognuna nel suo ambito! Eppure l’abbinamento non è una facezia*. Alla ricerca di una giustificazione di più ampio respiro dell’inusuale prospettiva dantesca nell’approccio alla medicina narrativa, sarà utile – per rimanere in tema – iniziare con una storia. La conosciamo attraverso il racconto autobiografico che il suo protagonista, il grande giornalista Ryszard Kapus´cin´ski, ha affidato al libro In viaggio con Erodoto1. Si tratta del suo apprendistato professionale. Appena laureato, senza mezzi economici e senza appoggi, parte dalla natìa Polonia isolata dell’epoca comunista per fare il corrispondente nelle più diverse realtà geopolitiche, di cui non conosce niente, né la lingua né la cultura: prima in India, poi in Cina e a seguire l’Africa e l’America Latina. Come far fronte al caos, sia nel microcosmo dei vissuti umani, sia nel macrocosmo delle vicende storiche? A questo punto entra in scena un libro: le Storie di Erodoto. Lo riceve come viatico dalla caporedattrice del suo giornale e da quel momento diventa il suo unico compagno di viaggio.

Non è una coincidenza: anche Erodoto si è trovato, nel V secolo a.C., in una situazione analoga. Voleva capire e raccontare il grande scontro che aveva contrapposto Greci e Persiani. Diffidando delle spiegazioni mitologiche che circolavano, ha adottato un metodo diverso: quello della historíe. In greco la parola significava “ricerca”; i nove libri che scriverà si chiameranno Historíai, propriamente “inchieste, ricerche”, piuttosto che Storie, come noi traduciamo con approssimazione fuorviante. Ciò che è fondamentale è il metodo, più che il contenuto di ciò che viene narrato. Comporta il mettersi in viaggio, raccogliere dati, domandare e ascoltare i racconti, con tutte le necessarie riserve per le storie riferite da altri. Ciò ha permesso a Erodoto di viaggiare per tutto il mondo antico, scoprendo e accettando la pluralità culturale del mondo. È diventato così il fondatore della storia come disciplina, così come la concepiamo anche oggi. Annota Kapus´cin´ski: «Erodoto viaggia per il mondo, incontra altri uomini e ascolta quello che hanno da dirgli. Raccontano chi sono, narrano la propria storia. La conoscenza assume la forma di racconti». Il metodo di Erodoto diventerà anche quello di Kapus´cin´ski, che non si separerà mai dal suo libro: fare le domande giuste, per orientarsi e per conoscere.

Non è senza significato che – nello stesso periodo storico in cui è vissuto Erodoto – la historíe come metodo, accanto alla ricerca storica, influenzasse anche le techné medica, proposta dalla scuola ippocratica. Il metodo della historíe è centrale anche nella scienza che si avventura nel caos delle malattie. Anche il medico si affida all’indagine e sollecita il racconto. Perché ogni paziente racconta la sua storia. Ancor più, secondo il medico scrittore americano Siddharta Mukherjee, la pratica della medicina ci appare come un intreccio di storie, ossia di diverse modalità di ricerca: «La medicina comincia con un racconto. I pazienti raccontano storie per descrivere la malattia, i dottori raccontano storie per comprenderla. La scienza racconta la propria storia per spiegare le malattie»2.

A questo punto ci sentiamo più equipaggiati per affrontare la provocazione: possiamo assumere Dante come compagno di viaggio per indagare il mondo sconosciuto che si apre davanti a noi, quando ci avventuriamo nel territorio dove la nostra fragilità incontra la cura? Per esplorare il labirinto dell’esistenza umana Dante si è affidato a Virgilio e a Beatrice; noi attingiamo alla ricchezza della sua dottrina e saggezza. A cominciare dalla metaforica divisione nei tre regni dell’inferno, del purgatorio e del paradiso: un panorama che vale per l’aldiquà almeno altrettanto come per l’aldilà. Siamo consapevoli che, portandoci a visitare il mondo ultraterreno, Dante intendeva raccontarci l’inferno, il purgatorio e il paradiso che ci costruiamo, con le nostre scelte e le nostre decisioni, in questa vita. Ci sentiamo perciò autorizzati a far nostra la sua prospettiva e applicarla non solo per affrontare la vita umana nel suo insieme, ma in modo ancor più pregnante l’esistenza che prende forma sotto il segno del pathos. I percorsi nel territorio dello star male possono assumere profili infernali, purgatoriali o paradisiaci. La medicina narrativa ci aiuta a scoprire quelle condizioni nel modo in cui affrontiamo il percorso di cura.

Nell’inferno della malattia: “lasciate ogni speranza”

La condizione di malattia che ci viene spontaneo correlare con l’universo dantesco è quella infernale. Sappiamo che sull’ingresso campeggia il monito: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Potremmo dire che l’inferno è ciò che aspetta coloro che hanno perso la speranza di poter evadere. Solo che proprio dalla medicina narrativa abbiamo imparato che bisogna parlare di speranze – al plurale! – più che di speranza. Perché l’oggetto della speranza è diverso da persona a persona, e anche per la stessa persona cambia nel decorso della patologia. Alla speranza dobbiamo dare una forma “sartoriale”: va tagliata su misura. E per conoscerla bisognerà mettersi all’ascolto della persona malata. Non sempre ciò che si spera è il prolungamento a oltranza della vita. Trovarsi prigionieri in un girone infernale di sopravvivenza in condizioni ritenute soggettivamente disumane è per taluno un incubo disperante. Può essere parte costitutiva della condizione infernale anche essere lasciati soli, disperando della solidarietà che si esprime concretamente in servizi sanitari disponibili per tutti i cittadini, indipendentemente dalla disponibilità economica, come un diritto esigibile e non come un favore o un privilegio. Dall’inferno della disperazione e della solitudine si alzano grida che vanno ascoltate. Anche questa è una funzione della medicina narrativa. Basterebbe evocare i peccati di omissione che abbiamo commesso in quanto società nel periodo recente dell’emergenza pandemica. Le voci che venivano da anziani isolati nelle RSA e da malati in reparti di rianimazione hanno ricevuto attenzione tardi e male. Se la modalità in cui sono morte tante persone nel periodo della prima emergenza pandemica ha costituito “una tragedia nella tragedia” – come ha affermato l’on. Giorgio Trizzino in un’audizione parlamentare –, dobbiamo dire che l’inferno possiamo risparmiarci dall’immaginarlo nell’aldilà: l’abbiamo avuto davanti ai nostri occhi.

Anche la situazione patologica infernale, tuttavia, ha qualche buona notizia. Come il fatto che ai “dannati” devono essere risparmiati i giudizi morali dei curanti. Per Dante nell’inferno stanno i peccatori, che devono essere puniti per ciò che hanno commesso. Interpretando il giudizio di Dio sugli esseri umani e la loro storia terrena, Dante destina alcuni al castigo eterno e altri alla beatitudine (magari passando per il purgatorio). L’equivalente di questo giudizio sulle persone è ciò da cui il professionista sanitario si deve astenere. Nella medicina praticata correttamente il profilo morale della persona da curare è messo tra parentesi; i trattamenti sono commisurati al bisogno, non al merito. Persone ignobili e moralmente condannabili ricevono gli stessi trattamenti di quelle eccellenti. Ancor più: sullo scenario delle cure è proibito gioire per il male altrui, anche quando questo colpisce chi se l’è cercato. Si tratta di quel sentimento conosciuto con la parola tedesca Schadenfreude, ovvero la gioia maligna che si prova di fronte alla sofferenza altrui, quando abbiamo l’impressione che sia meritata. Anche Dante vi soccombe di fronte a certi dannati. Se sviene per compassione quando ascolta Francesca da Rimini e il suo dramma, esulta incontrando Filippo Argenti, affondato nel fango che umilia i superbi «come porci in brago» (canto VIII dell’Inferno). Lo respinge quando cerca di aggrapparsi alla barca che porta il poeta e Virgilio: «Con piangere e con lutto / spirito maladetto, ti rimani; / ch’ i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».

E a Virgilio chiede la soddisfazione di vedere ulteriormente umiliare colui che a Firenze si comportava da superbo arrogante: «Maestro, molto sarei vago / di vederlo attuffare in questa broda / prima che noi uscissimo dal lago».

Siamo agli antipodi di quello spirito che deve aleggiare nell’ambito delle cure medico-sanitarie. La deontologia chiede a chi le pratica di agire in modo controintuitivo, ovvero non come abitualmente ci comportiamo nella vita sociale, assumendo invece una posizione di assoluta neutralità nei confronti del profilo morale delle persone, astenendosi dal colorare con i propri giudizi la fisionomia di chi chiede aiuto.

Ascendere al monte della purificazione

Ma è giunto il momento di lasciarci condurre dal Poeta nella condizione purgatoriale. Stiamo parlando di uno stato di transizione, intimamente animato dalla speranza di ascendere. Perché, mentre nell’inferno si sprofonda, la montagna del purgatorio è lì per essere scalata. È una metafora trasparente del lavoro di trasformazione richiesto a chi è colpito da una patologia che lo esilia dall’euforico benessere di un corpo-spirito in salute. Siamo di fronte al lavoro assimilabile a una metamorfosi che ci viene incontro in molti “misery report”, ovvero i racconti del dolore che nascono dalle esperienze biografiche di malattia e di cura. Montagne di libri, di racconti online, di condivisioni in chat nei social; narrazioni dalle mille sfumature: sfogo, lamento, ricerca di condivisione. Ma che diventano un momento di massima creatività quando la patologia, che è caduta come un meteorite su una vita in salute, distruggendola, dà inizio a un percorso di risalita. Scalare il monte del purgatorio, appunto: una metafora eloquente della fatica richiesta per acquisire quel nuovo equilibrio che chiamiamo salute.

La praticabilità della via purgatoriale dipende da una condizione previa: che la cura sia intesa in modo ampio, che trascenda la semplice rimozione dei sintomi o il ritorno allo stato di salute precedente (restitutio ad integrum). Perché il “purgatorio” richiede un’ascesa nella consapevolezza e parallelamente una profonda rivisitazione delle categorie di salute/malattia/guarigione. Con una diversa metafora, questa ascesa è presentata da Kierkegaard come la scelta di abitare nei piani alti della casa, piuttosto che nel sottosuolo: «Pensiamo a una casa, composta di scantinato, pianterreno e primo piano, abitata o adibita in modo tale che ci sia differenza di ceto tra gli inquilini di ciascun piano; e confrontiamo l’essere umano con una simile casa: è tanto doloroso e ridicolo il caso della maggior parte degli uomini che, nella loro casa, preferiscono vivere nel sottosuolo»3.

Uno dei racconti più eloquenti della presa di coscienza che il problema consisteva nello stato di salute, più che in quello di malattia, è quello che ha lasciato Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra, riferendo del percorso di consapevolezza legato alla sua patologia oncologica: «Cominciai a prendere quel malanno come un ostacolo messomi sul cammino perché imparassi a saltare. La questione era se ero capace di saltare in su, verso l’alto, o solo di lato o, peggio ancora, in giù. Forse c’era un messaggio segreto in questa malattia: m’era venuta perché capissi qualcosa! Da anni avevo cercato di uscire dalla routine, di rallentare il ritmo delle mie giornate, di scoprire un altro modo di guardare le cose, di fare un’altra vita. Ora tutto quadrava. Anche fisicamente ero diventato un altro»4.

Suona paradossale: l’esperienza di malattia come una situazione in cui ci è offerta la possibilità di “purgarci”, non tanto della patologia che ci colpisce, quanto della vita malata che la precede. Perché la salute illusoria che perseguiamo ci conduce lontano da quella persona che siamo chiamati ad essere: cerchiamo il benessere, più che l’essere-bene. È l’insight a cui Tolstoj conduce il suo Ivan Ilicˇ al termine del suo faticoso districarsi nei meandri di rapporti sanitari e familiari che miravano a privarlo dell’acquisizione della consapevolezza («Sì, non tutto è stato come avrebbe dovuto essere»). Il “purgatorio” della patologia coincide con l’opportunità di abitare i piani alti della casa, di scalare qualche balza della montagna. Una considerazione antropologica che collochiamo opportunamente lontano dai dolorismi, ovvero le celebrazioni retoriche del dolore come gradiente in umanità. Il dolore del corpo non ci purifica automaticamente. Per liberarci dall’imperfezione connaturata è necessaria una fatica intelligente e durevole, che non tutti gli esseri umani sono disposti ad affrontare. Per questo, quando la medicina narrativa ce li presenta, li accogliamo con gratitudine.

Sotto il segno dell’autorealizzazione

La terza cantica è la più provocatoria: quale abbinamento possibile tra la beatitudine (eterna o temporale) e la condizione del nostro corpo che invoca gemendo la cura? Per non dire di quando inevitabilmente si spalanca davanti la fine della parabola vitale. Che cosa può avere di “paradisiaco” questa condizione di sofferenza, a cui con esiti spesso infelici – e con un fallimento inevitabile alla fine del percorso – cerca di porre rimedio l’arte medica? Ancora una volta siamo invitati ad allargare il nostro sguardo, ponendo l’orizzonte paradisiaco non oltre il confine della vita corporea, sotto forma di vita eterna e immateriale, ma entro la vicenda stessa del corpo. Perché è qui che vale il brusco richiamo di Dante, per bocca di Ulisse ai suoi uomini, invitati a seguirlo fino ai confini del mondo: «Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e ­canoscenza» ­(canto XXVI dell’Inferno).

A disilluderci di trovarci di fronte a una prospettiva soprannaturalistica, basti evocare l’esortazione di un filosofo quanto mai radicato nell’immanenza: Friedrich Nietzsche. A suo avviso, come esseri umani siamo chiamati a tendere verso la Grande Salute, intesa come il coronamento dell’autorealizzazione umana. Senza adottare l’intera impalcatura del pensiero nietzschiano, possiamo affermare che la Grande Salute non è altro che la storia del nostro corpo attraverso momenti patologici o fisiologici che noi possiamo registrare come il percorso della nostra realizzazione. In quanto esseri umani corporei, la nostra storia, con il suo significato immanente e anche trascendente, la scriviamo con il nostro corpo: con il nascere, crescere, ammalarsi, guarire, ammalarsi e non poter guarire e, perciò, dover convivere con la malattia; con il nostro invecchiare, con il nostro decadere, con il nostro morire. Da questo punto di vista la Grande Salute non è il contrario della morte. Anche la morte la possiamo definire come un momento della Grande Salute. Per quanto ci appaia paradossale e lontano dal linguaggio comune, il saper morire non è in contraddizione con la salute; anzi, lo possiamo definire come il più alto coronamento di una vita sana nella sua pienezza.

Potremmo anche far coincidere questo percorso con quello della spiritualità, se non incombesse l’equivoco di intendere quest’ultima come equivalente alla dimensione religiosa. Quella che, tradizionalmente, si evocava quando, dichiarando che non c’era più niente da fare, la medicina si ritirava e invitava a far entrare in scena il ministro della religione. La spiritualità è piuttosto un elevarsi sulla punta dei piedi, saldamente radicati sulla terra. Adottando questo punto di vista, anche un letto d’infermità può avere una valenza paradisiaca; di più, anche il letto dove si consuma l’ultimo tratto di strada nella vita.

Il rischio di enfasi retorica, tinta di spiritualismo, è grande. Per questo è salutare rivolgersi a esperienze concrete, delle quali la medicina narrativa ci offre testimonianze preziose. Per evitare l’equivoco di approdare su territori nei quali la spiritualità ha il sapore di ritualità religiosa e si correla all’anima più che al corpo, ci lasciamo guidare da una pagina del libro in cui, in forma romanzata, Mattia Torre rende conto della malattia che, di lì a poco, l’avrebbe portato alla morte. Con La linea verticale5 condivide con i lettori il viaggio nella terra sconosciuta della malattia: «Quando ho saputo di avere un tumore sono morto all’istante. E poi, da quel momento, ogni minuto trascorso, ogni ora, giorno, mese, è stato sorprendente e inaspettato. È stato un dono, come un morto a cui si dice: puoi vivere ancora, non si sa quanto, ma puoi vivere ancora. Basta fare un passo alla volta». Ha assunto come sfida il salire più in alto, per assumere appunto la linea verticale: «Io sono contento di stare qui. Prima di ammalarmi, mi ritenevo indistruttibile, ma se devo essere onesto la mia vita non girava bene, e se mi fossi ascoltato di più forse avrei sentito che qualcosa non andava. La malattia è arrivata in maniera esplosiva e deflagrante, ha cambiato tutto, e anche se è difficile dirlo, ha cambiato tutto in meglio. Mi ha aperto gli occhi, la testa e il cuore. Ora ho nuovi desideri: voglio essere centrato, voglio stare in piedi, voglio vivere in asse su una linea verticale. Non voglio avere paura, perché la paura ti mangia e non serve a niente. Voglio pagare le tasse con gioia, perché un ospedale pubblico mi ha salvato la vita senza chiedermi nulla in cambio. Voglio guardarmi intorno e voglio vivere tutto quello che è possibile, con generosità e vitalità. Questo tumore mi ha salvato la vita. Senza questo tumore sarei senz’altro morto».

Una paradiso, quello di Mattia Torre, che non assomiglia a quello di cui parlano le religioni, e forse neppure alle risposte all’aspirazione all’immortalità che vengono da grandi pensatori radicati nell’immanenza. Presuppone la capacità di fondere insieme vita e morte, malattia e rinascita, guarigione e pienezza. Non osiamo neppure chiamarla beatitudine. Forse anche “amore” è troppo enfatico, anche se gli attribuiamo con Dante il potere di «movere il sole e l’altre stelle».

Potrebbe essere appropriato chiamarla vita umana, senza altri aggettivi?

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

*Questa riflessione prende forma a partire da un evento, che ha come promotori sia il Comune di Ravenna che l’ospedale ravennate di Santa Maria delle Croci, che ha voluto proporre Ravenna quale città polo per la medicina narrativa. Per dare rilievo a quanto già si pratica nelle strutture sanitarie locali, ma anche per rilanciare l’attenzione a questa dimensione della cura, di cui la medicina ha estremo bisogno. Il titolo del convegno svoltosi a Ravenna il 13 novembre 2021 era inequivocabilmente dantesco: L’amor che move il sole e l’altre stelle. La celebrazione del settimo centenario della morte di Dante, nella città che custodisce le sue spoglie, è stata l’occasione propizia per l’inusuale accostamento.

Bibliografia

1. Kapus´cin´ski R. In viaggio con Erodoto. Milano: Feltrinelli, 2005.

2. Makherjee S. L’imperatore del male. Vicenza: Neri Pozza, 2011.

3. Kierkegaard S. La malattia mortale. In: Opere. Firenze: Sansoni, 1962.

4. Terzani T. Un altro giro di giostra. Un viaggio nel male e nel bene del nostro tempo. Milano: Longanesi, 2004.

5. Torre M. La linea verticale. Milano: Baldini &Castoldi, 2017.