La tragedia del trasferimento della ricerca nella pratica

Paolo Vineis1

1School of Public Health, Imperial College, St Mary’s Campus, London.

Pervenuto su invito il 27 novembre 2021. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. Alessandro Liberati è stato un pioniere del trasferimento della ricerca nella pratica. Negli ultimi anni questo nodo cruciale della pratica medica e in generale delle decisioni di sanità pubblica ha fatto un passo avanti e due indietro. Uno avanti perché, grazie ad Alessandro e alla comunità che ha creato, oggi c’è molta più consapevolezza della necessità di un approccio basato sulle prove, sulla sintesi della letteratura e su meccanismi trasparenti e razionali per il trasferimento nella pratica. Due indietro perché i problemi sono ora molto più complessi rispetto a dieci anni fa. Con covid-19 abbiamo assistito a una grande accelerazione dei processi decisionali oltre che della tecnologia medica, ma questo non ha corrisposto certo a un miglioramento del trasferimento della ricerca nella pratica, come si evince dal convulso affastellarsi di opinioni sulle misure preventive e cliniche. Con la minaccia del cambiamento climatico assistiamo ugualmente a un debole e incerto processo di selezione delle migliori prove scientifiche che guidino le decisioni che debbono essere rapidamente prese. In entrambi i casi, quanto seminato da Alessandro dovrebbe essere recuperato e sviluppato.

The tragedy of the transfer of research into practice.

Summary. Alessandro Liberati has been a pioneer of methods for the transfer of research into practice. In the last years this key component of medical practice and decision-making in public health has made one step forward and two steps backward. One forward because the awareness of the need for rational criteria for decision making, based on scientific evidence and literature synthesis, has grown. Two backward because the problems we face have become much more complex. With covid-19 we have seen a rapid acceleration of technological responses and of decision-making, but this has not necessarily followed the recommendations from evidence-based medicine, as testified by the confused bundling up of opinions on the measures to be taken at the bed of patients and at the policy-making level. With the threat of climate change, equally, we face a weak and uncertain process of selection of the best scientific evidence that can guide towards rational policy choices. In both cases the seeds that Alessandro has planted need to be disseminated and reinforced.

Alessandro Liberati è forse la persona che più ha operato in Italia per affrontare razionalmente il trasferimento della ricerca nella pratica medica. Che cosa direbbe oggi, dopo l’esperienza della covid-19 e con la minaccia incombente del cambiamento climatico? Lo spettacolo della classe medica nel corso della pandemia non è stato interamente confortante. Accanto a numerosi episodi di dedizione al limite dell’eroismo (anche da parte degli infermieri), la comunicazione relativa alla pandemia è stata caotica e spesso diseducativa. Mentre la comunicazione istituzionale nel suo complesso è stata dignitosa (Ministero e ISS), quella avvenuta sui media è stata caratterizzata da incongruenze, contraddizioni, diffusione prematura, protagonismo e dogmatismo (naturalmente con eccezioni). Alessandro Liberati vedeva il trasferimento nella pratica innanzitutto come un fenomeno che toccava l’ethos professionale e il senso di responsabilità della categoria medica. Vi sono numerosi motivi per cui questo non si è verificato, tra cui un certo scadimento della comunicazione giornalistica (che preferisce lo star system ai professionisti seri), e soprattutto la rapidità con cui tutto è avvenuto e sta ancora avvenendo (mentre scrivo si sta diffondendo la variante omicron, non si sa quanto rapidamente e con quali conseguenze). Rispetto a un modello di ricerca e di suo trasferimento nella pratica che si era affermato in Italia grazie al tessuto creato dalla Collaborazione Cochrane e altre esperienze legate all’Istituto Mario Negri, oggi lo sviluppo delle tecnologie mediche per avversare il virus e il loro trasferimento nella pratica stanno avvenendo quasi contemporaneamente. Vi sono domande molto concrete, cui normalmente si cercava di trovare risposta nell’arco di anni, oggi di settimane.

Vediamo alcuni esempi: che cosa implica la capacità di ricombinazione dell’RNA virale per la comparsa di mutazioni? È possibile che i trattamenti farmacologici possano facilitare la selezione di ceppi mutanti? Nuove mutazioni possono comparire non solo tra i non vaccinati, ma anche tra vaccinati con deboli difese immunitarie? E che significa esattamente quel continente inesplorato che sono i Paesi poveri dove meno del 5% della popolazione è vaccinata? Quali ceppi virali possono selezionarsi? È emerso recentemente un vaccino proteico (Novavax, ancora in corso di approvazione): è preferibile a quelli a RNA o DNA? E cosa dire del vaccino a virus attenuato? Tutte queste domande non sono oziose, richiedono risposte rapide, per esempio perché non solo almeno metà della popolazione mondiale non è vaccinata, ma perché parte di quella vaccinata lo è con vaccini non approvati dai Paesi ricchi (come Sinovac).

I tempi abituali dell’evidence-based medicine qui sono scompaginati: di fronte alla gravità della pandemia ci si aspetta risposte rapide, ma queste sono necessariamente incerte e contradditorie1.

Il trasferimento nella pratica diventa ancora più insoddisfacente in quanto alla pandemia è corrisposto un cortocircuito tra scienza e politica. I politici si sono in una prima fase affidati interamente alle indicazioni scientifiche – seppure con qualche ritardo –, e questo è stato un bene; ma mano a mano che le domande diventavano più complesse questo affidamento è venuto a mancare o si è complicato: per esempio, nel 2020 sono stati avviati inutili screening di massa con i tamponi antigenici, non basati sulle prove; alcuni Presidenti di Regione si sono affidati a terapie discutibili come la somministrazione di plasma di pazienti guariti. In tutto questo si inserisce un tema cui Alessandro Liberati era molto sensibile, quello del ruolo di Big Pharma. Anche se non possiamo non essere grati e in qualche modo ammirati per lo sviluppo così rapido delle tecnologie vaccinali, la polemica quotidiana, anzi la polarizzazione tra vax e no-vax, non deve farci dimenticare che vi sono ombre che hanno offuscato le attività dei grandi produttori, e i molteplici conflitti di interesse non sono ancora stati chiariti.

Se dunque la pandemia costituisce una sfida per la procedura cui ci eravamo abituati per il trasferimento nella pratica, anche in considerazione della crescita concomitante della consapevolezza e del senso critico dei cittadini (non necessariamente corrispondente a una maggiore cultura scientifica), la vera grande sfida di cui la pandemia è stata solo una prova generale è quella del cambiamento climatico, ancora una volta soprattutto nei Paesi poveri. Qui non solo la sfida è di dimensioni molto maggiori, ma la transizione che comporta è di alcuni ordini di grandezza più vasta. Consideriamo l’impatto sull’agricoltura: la siccità crescente in diverse aree del mondo (19% della superficie è stata affetta da siccità grave o estrema nel 2020 nei soli Paesi poveri) porterà a migrazioni di massa, con le conseguenze politiche che già vediamo. L’agricoltura è un settore chiave in relazione al cambiamento climatico. Da un lato essa ne soffre le conseguenze, dall’altro contribuisce almeno per il 13% alle emissioni di gas serra attraverso gli allevamenti intensivi di animali. Nel 2020 i Paesi a basso e medio reddito hanno perso 295 miliardi di ore lavoro a causa dell’aumento di temperatura o delle ondate di calore. Questo, insieme agli effetti più diretti del cambiamento del clima, ha portato a una riduzione della produttività dell’agricoltura. Nel 2020, si è assistito a una riduzione del 6% nel raccolto di mais, 5% per la soia, 1,8% per il riso, relativamente al periodo 1981-2010. La conseguenza ovvia è l’insicurezza alimentare in un sistema diventato molto fragile. Anche qui ci sono domande senza risposta: per esempio, quali sono le prove che riducendo o eliminando i composti azotati come fertilizzanti si riesca a mantenere un livello di produttività sufficiente a nutrire tutti, anzi una popolazione rapidamente crescente? E, sempre in termini di trasferimento nella pratica, quali sono le prove qualitative e le stime dell’impatto quantitativo delle diverse proposte di intervento di mitigazione?

Alcuni sono fautori della riforestazione come soluzione decisiva, ma è lecito dubitarne: in parte si tratta di vere attività di greenwashing di industrie che inquinano; in parte la riforestazione, pur necessaria, è del tutto insufficiente per sostituire la foresta pluviale che va rapidamente scomparendo sfiorando il “tipping point” di non ritorno. La foresta amazzonica è un ecosistema estremamente complesso selezionatosi in milioni di anni, non può essere ricreato come una scultura in vitro di Piero Gilardi. L’uomo non può ricostituire in pochi anni il risultato di secoli di evoluzione e co-evoluzione (mentre distruggere è quasi immediato, come dimostra Bolsonaro).

Alle difficoltà materiali si sommano altri problemi che si sono lasciati ingigantire nel corso dell’ultimo decennio, come il crescere delle diseguaglianze. Mentre il 60% delle popolazioni ricche è stato vaccinato lo è solo meno del 5% delle popolazioni povere. E il cambiamento climatico ricade soprattutto su di loro: oltre a alluvioni, siccità e migrazioni, anche il diffondersi di malattie infettive da vettori interessa soprattutto il Sud e Centro America, i Caraibi, l’Asia del Sud e l’Africa.

Ma qui il trasferimento della ricerca nella pratica diventa ciclopico, in parte per la necessità di una sistematica revisione delle prove: non sul fatto che esista il cambiamento climatico e su quali ne siano le cause, ma sui diversi metodi per mitigarlo2,3. Cattura della CO2; riforestazione, eolico; solare, auto elettriche; ricorso al gas naturale; vecchio e nuovo nucleare, agricoltura rigenerativa: per ciascuna di queste soluzioni vi sono prove di efficacia (alcune forti, altre deboli), ma è sul mix migliore che si tratta di decidere in fretta, in base a calcoli accurati e realistici, visto che abbiamo solo 9 anni per raggiungere il primo obiettivo dell’accordo di Parigi.

Il blah blah di Greta non è un’accusa generica, è quel penoso spettacolo degli esperti televisivi che si esprimevano con certezza salvo poi essere smentiti pochi giorni dopo (vogliamo fare un censimento di quanti hanno detto che la covid-19 sarebbe diventata una banale influenza, e ora ci troviamo a fronteggiare la variante omicron?). Queste modalità di comunicazione, in cui tutti si improvvisano scienziati, per il cambiamento climatico sono inaccettabili.

Ma c’è un altro motivo più profondo per cui la politica dimostra tutti i suoi limiti. Accenno soltanto ad alcuni commenti a caldo sulla COP26, che certamente richiederanno una riflessione approfondita in vista della prossima COP. Dal mio punto di vista un limite è stato il fatto di accettare di mettere il 50% delle risorse nell’adattamento e il 50% nella mitigazione (cioè l’abbattimento delle emissioni). Se questa decisione (insieme al capitolo “loss and damage”) viene incontro ai Paesi in via di sviluppo, ha tuttavia diversi limiti: (a) va contro gli interessi delle future generazioni, che preferirebbero vedere un deciso impegno nella mitigazione da subito; (b) non fare la prevenzione adesso implica doversi adattare per molti anni in più; (c) vi sono situazioni non adattabili (come le piccole isole); (d) parliamo di un flusso di denaro verso i Paesi a basso reddito (G77), che spesso hanno governi corrotti, molti dei quali cioè faranno un cattivo uso delle risorse; (e) dietro a G77 nelle Nazioni Unite c’è la Cina, che ha la sua agenda di promozione delle proprie attività infrastrutturali (il rischio è una ulteriore cementificazione giustificata dall’adattamento: argini, alvei dei fiumi, shelters…).

Si tratta di considerazioni estemporanee da approfondire, ma mostrano la portata etica e politica delle decisioni prese e da prendere, per esempio il conflitto tra generazioni: la presente interessata soprattutto all’adattamento, e le future tragicamente interessate alla mitigazione.

Nella COP26 vi sono state trattative estenuanti per attenuare il linguaggio delle conclusioni (“unabated” coal emissions: inefficient emissions, phase down/phase out…), segno del fatto che alla mitigazione c’è una forte resistenza da parte di molti Paesi. Inoltre gli impegni presi sono caratterizzati di volta in volta da coalizioni diverse con numeri diversi di Paesi, segno di frammentazione. A me pare evidente che sia urgente creare un’Agenzia sovranazionale per il cambiamento climatico, partendo da un cartello di soggetti diversi, incluso il mondo imprenditoriale e finanziario come quello di Davos: le Nazioni Unite non bastano. Il grave limite della COP26 è stato che la negoziazione è stata lasciata ai rapporti tra Stati, dove i negoziatori rispondono ai loro elettori, non alla popolazione del mondo.

Non so come Alessandro Liberati avrebbe reagito a queste sfide totalmente nuove cui siamo impreparati, ma sono certo che il suo contributo sarebbe stato di altissimo livello, con la sua visione lucida, cosmopolita e profondamente etica.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Vineis P. Medicina basata sulle prove e COVID-19. Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani, 2022, in press.

2. Vineis P, Alfano R, Ancona C, et al. (eds). Mitigation of climate change and health prevention in Italy: the co-benefits policy. Rapporto ISTISAN 21/20, 2021. Disponibile su: https://www.iss.it/rapporti-istisan/ [ultimo accesso 12 gennaio 2022].

3. Vineis P, Savarino L. La salute del mondo. Milano: Feltrinelli, 2021.