Dieci anni di stagnazione della ricerca, non solo clinica, nel contesto accademico italiano

Lorenzo Moja1, Rita Banzi2, Federico Cabitza3,4, Matteo Capobussi5, Greta Castellini4, Danilo Cereda6, Michela Cinquini7, Cinzia Colombo7, Giorgio Costantino8, Roberto D’Amico9, Silvia Gianola4, Marien Gonzalez-Lorenzo7, Giovanni Lodi10, Ersilia Lucenteforte11, Silvia Minozzi12, Ivan Moschetti7, Paola Muti10, Davide Petri11, Gian Marco Podda13, Alessandro Squizzato14, Marcello Tirani15, Gianni Virgili16, Daniela Berardinelli17

1Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università di Milano; 2Centro di Politiche Regolatorie in Sanità Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, Milano; 3Dipartimento di Informatica, Sistemistica e Comunicazione, Università di Milano-Bicocca, Milano; 4IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi, Milano; 5Centro Interuniversitario in Ricerca Clinica, Università di Milano; 6Direzione Generale Welfare, Regione Lombardia, Milano; 7Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, Milano; 8Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità, Università di Milano; 9Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Materno-Infantili e dell’Adulto, Università di Modena e Reggio Emilia, Modena; 10Dipartimento di Scienze Biomediche, Chirurgiche ed Odontoiatriche, Università di Milano; 11Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Pisa; 12Dipartimento di Epidemiologia del SSR - Regione Lazio, Roma; 13Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Milano; 14Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università dell’Insubria - ASST Lariana, Como; 15ATS Milano Città Metropolitana, Milano; 16Dipartimento di Neuroscienze, Area del Farmaco e Salute del Bambino, Università di Firenze; 17AOU San Luigi Gonzaga, Orbassano, Torino.

Pervenuto su invito il 20 dicembre 2021. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. Questo articolo riflette su alcune delle attuali sfide della medicina basata sulle prove di efficacia (evidence-based medicine - EBM) in Italia. Gli autori, che condividono un impegno ventennale nel campo della ricerca clinica, discutono quella che definiscono una fase di “stagnazione” nella pratica e nell’insegnamento dei metodi e degli strumenti di ricerca, sia in ambito clinico che accademico. Il successo iniziale del movimento culturale dell’EBM non è durato a lungo. Gli autori ragionano su come l’insegnamento dell’EBM sia rimasto limitato a una nicchia di chi fa ricerca e clinica, e riguardi pochi professionisti rispetto alle necessità del Paese. Gli autori identificano alcune ragioni che potrebbero aver portato a una scarsa attenzione per la metodologia della ricerca e affrontano alcuni possibili modi per rafforzare il contributo della medicina accademica alla ricerca clinica.

10 years of stagnant clinical research in the Italian academic context.

Summary. This article is about current challenges to evidence-based medicine (EMB) in Italy. The authors, who share a 20-year commitment to the field of clinical research, discuss what they define as a phase of “stagnation” in practicing and teaching methods and research tactics, both in clinical and academic settings. Early success of EBM cultural movement was not persistent. The authors reason about how the teaching of EBM has remained a niche, concerning few professionals compared to the needs of the country. The authors identify some reasons that might have led to inconsistent attention to research methodology and address ways to strengthen the contribution of academic medicine to clinical research.

«Una civiltà che è incapace di risolvere i problemi che suscita il suo funzionamento è sostanzialmente una società decadente»

(Aimé Césaire)

Il metodo scientifico come piccolo lume

Quanto il metodo scientifico guida le scelte cliniche quotidiane dei medici e dei professionisti sanitari? Se riteniamo indispensabile per costruirsi un io critico l’aver studiato il metodo della ricerca scientifica e tematiche fondamentali come le controversie scientifiche, non possiamo non rilevare che, all’interno dei curricula universitari, sono pochi e quasi “elitari”, per non dire fortemente docente-dipendente, i corsi interamente dedicati alla trasmissione di questo sapere. È possibile quindi che uno studente di medicina, e di molte altre discipline clinico-sanitarie, possa concludere il proprio percorso di studi avendo sentito parlare dell’accezione moderna del metodo scientifico in medicina, alias EBM (medicina basata sulle prove di efficacia), senza però averne completamente compreso le potenzialità e le reali necessità cliniche. Nel corso dei primi anni di università, avrà probabilmente frequentato le lezioni di statistica medica e seguito alcune lezioni di epidemiologia, iniziando così a mettere esclusivamente a fuoco il perimetro e le coordinate della ricerca clinica. Salvo occasioni incidentali e fortuite, l’EBM rimarrà però sullo sfondo, generalmente a indicare una ricerca di qualità: “se è EBM è ok”. L’incontro che avviene tra uno studente e l’EBM è quindi solo tangenziale e perde l’occasione di concretizzarsi in un’attitudine alla valutazione critica e una capacità a elaborare decisioni sulla base di elementi verificati.

Negli anni successivi l’ex-studente, diventato un professionista sanitario, verrà a contatto con una moltitudine di studi, di cui molti finalizzati al marketing e alla commercializzazione di tecnologie sottoposte a proprietà intellettuale, possedendo però una scarsa sensibilità a coglierne la vera bontà e decidere se adottare o meno, nella propria pratica, la novità proposta.

Le ragioni sottese

La nicchia

La metodologia della ricerca clinica è ancora materia di approfondimento di pochi. Nella nostra esperienza ci si avvia a questa disciplina o per un interesse personale nato in modo fortuito e accidentale, o perché si lavora in una struttura che fa ricerca, e quindi a qualcuno “tocca” approfondire la materia. Il modo con cui soddisfare la propria sete di conoscenza è anch’esso sui generis. Non essendo un sapere solidamente istituzionalizzato, chi decide di intraprendere questa strada può imbattersi in lezioni di docenti appassionati di metodi sperimentali, o farsi carico di trovare sparuti corsi di metodologia sul nostro territorio, o addirittura spostarsi in atenei esteri dove la metodologia è più presente e formalizzata. La ricerca clinica e il metodo scientifico in Italia non decollano verso l’alto, diventando una branca di alta formazione, né si radicano, perdendo l’opportunità di diventare un sapere condiviso. Questa disciplina rimane quindi appannaggio di pochi, una nicchia all’interno delle aree mediche, magari anche di ottimo livello, ma stabile nel tempo e con una limitata concorrenza.

Il ponte sospeso tra metodo e ospedale

Se la metodologia vive confinata, non lo è altrettanto il desiderio di fare ricerca. Il mondo quotidiano della clinica accoglie con grande entusiasmo le novità proposte dalle maggiori riviste o dalle associazioni scientifiche. Spesso vuole diventare parte attiva facendosi carico della risoluzione dei dubbi che nascono in corsia, nei dibattiti scientifici, o proposti da terze parti (quali l’industria ma anche le istituzioni attraverso i bandi di ricerca pubblici). Questo desiderio può essere esaudito: con un quesito, uno spazio dove far ricerca con mezzi di cura e diagnostici importanti, e i pazienti che accettano di partecipare allo studio. Tra questi, però, manca il metodo. Su più di 1000 ospedali in Italia, la nostra stima è che quelli dotati di unità operative di metodo (clinical trial unit - unità di epidemiologia clinica) siano compresi tra l’1 e il 2%. Anche gli IRCCS (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico), seppur dotati di una direzione scientifica, in gran parte mancano di unità di supporto che coprano, oltre agli aspetti amministrativi della ricerca, la componente della metodologia scientifica, dalla pianificazione, alla conduzione e analisi dei dati, fino alla pubblicazione dei risultati. Da ricordare è inoltre la comune denuncia dei professionisti sanitari riguardo la mancanza di tempo da dedicare alla ricerca perché oppressi dal carico di lavoro clinico. Tutto questo pone dei limiti importanti alla capacità di produrre evidenze, in particolare a livello di studi sperimentali di intervento. Un possibile esempio è dato dalla pandemia in atto. L’Italia ha prodotto contributi significativi nel definire la storia di malattia, i fattori di rischio, ma non ha generato evidenze per quanto riguarda le cure in studi sufficientemente grandi da raggiungere una rilevanza a livello internazionale1.

Le responsabilità

Nell’ultima decade come accademia, e gruppo che si riconosce nella cultura EBM, non siamo riusciti a dare un ruolo centrale alla valutazione critica delle possibili distorsioni ed errori della ricerca e dell’innovazione. Abbiamo perso una precisa consapevolezza identitaria e di prospettiva come gruppo. Le cause di questa mancanza sono plurime, tra cui la dispersione degli accademici appassionati di EBM su molteplici specialità e atenei. L’università italiana, inoltre, ha spesso premiato, in maniera non lineare, l’esperienza individuale e/o unica rispetto alla valutazione e replicazione del dato, marginalizzando il metodo e riducendo fortemente l’apprezzamento, anche nostro, per quello che facciamo. È venuta a mancare una leadership capace di comporre e direzionare le forze in gioco. Eppure, molti di noi nei primi anni 2000 avevano vissuto una fase di eccitazione intellettuale derivante da alcuni cambiamenti di sistema che sembravano essere il preludio di una rapida diffusione dell’EBM2. Il desiderio legittimo di una maturazione del sistema sanitario, e di una crescita della ricerca a esso correlata, si è rivelata però un’illusione fugace, a livello sia nazionale che estero.

Le promesse non mantenute

Le guide per fare buona ricerca

Nonostante nell’ultimo trentennio il movimento EBM abbia fatto luce sulla scarsa qualità della ricerca clinica e sull’insufficiente uso di adeguati metodi, chiedendo meno ricerca ma di migliore qualità, si è concretizzato esattamente l’opposto. La mole di articoli pubblicata ogni anno è aumentata inesorabilmente. L’ambita qualità degli studi e del processo di ricerca continuano a scontrarsi con la scarsa integrità delle evidenze oggi disponibili. Le iniziative virtuose, a tutela della bontà della ricerca scientifica e dei suoi metodi, hanno trovato ospitalità su riviste scientifiche autorevoli come il BMJ con il suo manifesto “Evidence based medicine for better healthcare”3, JAMA con le sue “User’s Guide to the Medical Literature”4 e il New England Journal of Medicine attraverso le “Changing Face of Clinical Trial”5. Ancora, Lancet nel 2009 aveva denunciato la presenza di sprechi evitabili nel processo di produzione e reporting delle evidenze, lanciando un grido di allarme per la ripercussione che questa cattiva ricerca poteva avere sui pazienti e sui clinici, causando un 85% di spreco degli investimenti correlati6. Nell’ultima decade molti di questi problemi sono rimasti pressoché invariati e la discussione in merito è stata rilanciata nuovamente da Lancet con la serie “Increasing value, reducing waste”, che segue come appendice spontanea l’appello di qualche anno prima7. A questa pluriennale fase di denuncia non è seguita una presa di coscienza fattiva. È come se il percorso di cambiamento si fosse fermato alla fase di analisi, senza raggiungere la forza di una massa critica coesa. E così l’85% di spreco sembra una percentuale immutabile, mentre il denominatore cresce velocemente.

L’invasione delle checklist

Caratteristica imprescindibile di una “medicina basata sulle prove”, ma anche possibile leitmotiv di tutto il processo di produzione della ricerca, è la trasparenza, che si realizza attraverso la pubblicazione di protocolli, report integrali dei trial, revisioni sistematiche, e la più giovane condivisione dei dati individuali dei partecipanti agli studi primari. Tutti questi passaggi fondamentali sono stati oggetto di una o più checklist mirate ad aiutare i ricercatori nella loro azione. Il paradosso è che le checklist sono passate rapidamente da cura (come le avevamo immaginate alla fine degli anni ’90) a malattia. Aumentate vertiginosamente di numero, coprono ogni aspetto del metodo e del reporting in maniera ipergranulare. Se l’iniziale scopo era formativo e di utilità, oggi sono spesso percepite come un faticoso orpello richiesto alla sottomissione degli articoli scientifici, il cui uso è spurio. Forse presto sarà il momento per un editoriale che chieda meno checklist, ma di maggiore qualità, e che inviti i ricercatori a usare poche checklist come strumento non meccanico ma di riflessione rispetto al reporting dei contenuti.

La ritorsione dei comitati etici contro la ricerca indipendente

Se la malattia della ricerca inizia con la formulazione errata del quesito di ricerca, avanza poi con la scelta di un disegno di studio inadeguato, e si diffonde setticamente con la manipolazione del dato per scovare effetti statisticamente significativi anche laddove non esistono8,9. Le metastasi che possono aggravare maggiormente questo quadro patologico sono rappresentate dal bias di pubblicazione e di reporting, e dalla tutela del consenso informato. A cura del sistema ricerca è stato eletto il comitato etico. La diffusione di quest’ultimi, iniziata nei primi anni 2000, doveva rispondere a una missione di sorveglianza e riduzione dei comportamenti non etici negli studi, tracciando la strada per una ricerca di qualità e indipendente da vincoli commerciali nei metodi e nella disseminazione dei risultati. Quanto i comitati etici siano riusciti a tutelare il diritto, la sicurezza e il benessere delle persone coinvolte negli studi e ad aumentare la qualità e accessibilità dei risultati, è una domanda senza facile risposta.

Quello che sembra emergere dopo alcuni anni è che per i grandi studi sponsorizzati i comitati etici possano essere un passaggio formale. L’associazione ricercatore-finanziamento diventa un lasciapassare. Vittima dell’azione del comitato invece diventa spesso la ricerca indipendente che, priva di mezzi, rimane bloccata dentro alle regole del gioco. Da un lato diversi studi indipendenti sono presentati in forma velleitaria, avendo carenze di metodo sostanziali tali da decretarne un rapido rigetto. La preoccupazione va però ad alcune decine di studi che, guidati da ricercatori con quesiti genuini, e proponendo soluzioni metodologiche improntate alla fattibilità, vengono rallentati o annullati da richieste eccessive. Non è infrequente imbattersi nell’ipergarantismo metodologico, che propone procedure e tecniche che si sono affermate con l’EBM, come verità assolute. Si tratta però, purtroppo, di un profondo travisamento dell’obiettivo iniziale dell’EBM che ha sempre considerato il metodo parte di un ineliminabile rapporto con la realtà delle cose.

La caratterizzazione burocratica

Perché le soluzioni proposte nelle ultime due decadi hanno prodotto risultati in parte deludenti? A nostro avviso le cause non sono da ricercare nelle azioni burocratiche che hanno prevalso su quelle tecniche. Là dove il metodo, anziché strumento per affrontare un quesito, diventa un rigido vincolo amministrativo, aumentano le probabilità che questo sia vissuto come un faticoso ornamento e si perdano le possibilità di un suo radicamento e successivo sviluppo. Questo è quello che potrebbe essere accaduto in Italia, e in altri Paesi, che hanno adottato l’EBM in un contesto culturalmente acerbo e in cui i mezzi e le disponibilità sono stati a lungo fattori limitanti. Per i comitati etici non è mai stato del tutto chiarito quali siano i valori e gli elementi di valutazione da salvaguardare e se tra questi rientri il metodo scientifico. Più spesso nei comitati etici sembrano prevalere altri aspetti, quali i requisiti in materia di consenso informato, informativa relativa alla privacy, copertura assicurativa e contenuto innovativo della sperimentazione. Quest’ultima ha la funzione di un lasciapassare rispetto a richieste metodologiche che potrebbero rallentare la scoperta scientifica. In altri contesti, come quello editoriale, è prevalso un approccio formale in cui le checklist sono dispensatrici di una certificazione che poco ha a che fare con l’EBM e molto con una prassi di produzione su larga scala. Insomma, applicando buoni principi in modo errato ci siamo persi per strada. Infatti, nella prospettiva EBM originaria le esigenze macro – il dubbio su quale farmaco dare, i valori e le aspettative del paziente, il giudizio clinico – prevalgono e la connotazione burocratica è messa in secondo piano. Oggi il medico sperimentatore si affaccia su uno scenario rovesciato, in cui prevale l’aspetto amministrativo o un micro-management della ricerca. Questo rovesciamento è probabilmente una delle cause della stagnazione della ricerca, con profonde conseguenze sulla capacità di produrre evidenze e di qualità. L’aver perso la funzione di guida scientifica, intellettuale e morale ci ha lasciato ristretti margini per fronteggiare le spinte a un eccessivo manierismo. E la perdita di un certo spirito di ribellione ha prodotto una predisposizione all’abdicazione delle responsabilità, con un elevato grado di ricettività verso modelli formali.

Da dove ripartire

Bisogna, in primis, avere consapevolezza di due aspetti fondamentali. I grandi maestri, proprio per la loro grandezza, sono un evento raro, se non eccezionale e la sterile replicazione di lavori altrui non è annoverabile come progresso scientifico. Se questi due assunti sono veri, non resta che capire da dove ripartire.

Un reale miglioramento della qualità della ricerca e della diffusione di competenze metodologiche non può avvenire in tempi brevi, né mediante interventi specifici e circoscritti: è necessario un cambiamento complessivo, che coinvolga aspetti fondanti il sistema della ricerca. È necessario un confronto costante con la società nella decisione dell’agenda della ricerca e nella discussione delle possibili ricadute. Va recuperata la prospettiva di una ricerca che risponda a bisogni e valori dei pazienti, coinvolgendoli negli studi, dalla definizione del quesito alla pianificazione dello studio.

Altro elemento centrale è il reclutamento dei professionisti che operano a livello universitario e ospedaliero. Va dato atto che la sensibilità per la qualità della ricerca è di certo aumentata negli ultimi anni e che le recenti leggi che hanno introdotto mediane e metriche, rispetto alle pubblicazioni nei concorsi universitari, per quanto tutt’altro che perfette, sembrano avere generato un maggiore riconoscimento per la metodologia. È importante però bandire concorsi che evidenzino esplicitamente l’importanza di periodi dedicati all’apprendimento del metodo. Allo stesso modo le università devono creare percorsi dedicati alla formazione metodologica, sia a livello pre- che post-laurea. È peculiare che negli ultimi 10 anni in Italia non si sia tenuto più nessun corso universitario sulla governance della ricerca. È anche importante che ci siano incentivi per rendere più attrattivo l’investimento sul metodo rispetto alla clinica, chiaramente più redditizia.

Nell’attesa che la formazione sul metodo cominci già a livello della scuola primaria e secondaria, la formazione universitaria e post-laurea deve giocare un ruolo decisivo in questa partita. È in crescita il numero di partecipanti che negli ultimi anni, dopo il conseguimento di una laurea magistrale o triennale, arricchisce la presenza ai corsi di perfezionamento sul metodo, lanciando così un segnale di positività: c’è ancora sete di questa conoscenza. Ed è proprio in quel momento che la nicchia si allarga, con l’obiettivo di trasmettere la conoscenza del metodo scientifico in un’ottica di condivisione del sapere. Questi corsi nascono non solo per promuovere la buona ricerca ma creare una rete di specialisti che non siano solo fruitori, ma anche produttori di evidenze. La pandemia ha stravolto radicalmente il mondo della formazione, ma ha apportato anche delle innovazioni come la didattica sincrona online. Se al primo impatto poteva apparire frustrante e faticoso per un docente, che spesso si trovava a dialogare davanti a uno schermo con dei nomi apparentemente senza volto, ha però permesso un notevole risparmio di tempo e avvicinato realtà geograficamente distanti, come quelle del Sud Italia. Rimangono numeri, seppur in crescita, troppo limitati. In Italia vengono formati su trial clinici e revisioni sistematiche circa 100-200 professionisti all’anno a fronte di un fabbisogno di almeno 10 volte superiore.

Una soluzione al grave scollamento che esiste tra l’università, che si occupa di insegnare la metodologia della ricerca, e i corpi ospedalieri potrebbe essere la creazione di unità di supporto metodologico rivolte ai clinici che intendono fare ricerca. La guida metodologica che questi centri dovrebbero offrire partirebbe dalla supervisione di come si pianifica uno studio, si scrive un protocollo, si crea una piattaforma per la raccolta dati e, infine, come questi si analizzano senza torturarli o diventarne vittime. Questo supporto metodologico dovrebbe favorire studi spontanei, e avere meccanismi che bilancino richieste di chi ha già maturato esperienza nel campo e di chi è alle prime armi. Sarebbe ideale che questi centri fossero collegati ai corsi di formazione universitari, favorendo tirocini in cui si impara facendo, e che fossero in rete, in modo da creare sinergie che rendano possibili studi di grandi dimensioni. Per far sì che questa idea non rimanga utopica, alle aziende ospedaliere è richiesto uno sforzo di investimento e di fiducia nella ricerca, che attualmente manca. Una parte del budget della ricerca di un ospedale, in particolare degli IRCCS, dovrebbe essere riutilizzata nello sviluppo di questi centri, che dovrebbero confluire in reti collaborative (per un esempio, si veda il box 1). Questo budget potrebbe essere ricavato in parte (50%) da fondi già in essere (per es., ricerca corrente) e in parte (altro 50%) riconoscendo quote ai centri metodologici dei bandi competitivi vinti.




Una nuova frontiera per l’EBM

Il metodo scientifico non si esaurisce nel ciclo di diagnosi e cura, ma deve spingersi a esplorare le nuove tecnologie informatiche, sempre più usate in ambito medico, per guidarne lo sviluppo al servizio della professione medica, e arrivare a ottenere un supporto professionale pratico. Su questa scia nasce l’evidence-based design, una pratica di progettazione guidata da prove di efficacia che, esattamente come le discipline mediche, applica il metodo scientifico a soluzioni architettoniche e ingegneristiche per identificare le migliori soluzioni al servizio del professionista sanitario10. I criteri o dimensioni di qualità perseguiti sono: l’efficacia, l’efficienza, la sostenibilità o anche comodità, la soddisfazione e il benessere degli utenti coinvolti. Il vero banco di prova di queste tecnologie è quindi se e quanto riducano il carico di lavoro dei professionisti sanitari – un esito da considerarsi di primaria importanza. Tutte quelle attività a cui abbiamo accennato sopra, in cui si replicano meccanicamente certi modelli, dovrebbero essere oggetto primario dell’evidence-based design. Questo approccio potrebbe essere perseguito anche per obiettivi più sofisticati, come creare una nuova piattaforma per i trial clinici, in cui gli elementi chiave del processo sono attivati autonomamente dal software in funzione di algoritmi stabiliti a priori, avendo consensi informati o analisi statistiche gestite in modo parzialmente autonomo. Chi fa EBM dovrebbe promuovere questa disciplina, incanalandola verso la risoluzione dei problemi principali della professione medica e della ricerca. Un passaggio fondamentale è capire che medici e ricercatori in questo contesto diventano pazienti, mentre ingegneri e informatici i curanti. È curioso come le criticità inerenti le tecnologie informatiche sanitarie siano simili a quelle delle prove di efficacia mediche, riguardando infatti la generalizzabilità dei risultati e degli effetti osservati, e quindi la possibile replicabilità di un progetto di successo in un contesto diverso dal suo utilizzo11. Questo può avvenire sia nel trasferimento di un sistema da un contesto sperimentale e controllato (il laboratorio) a quello di cura, per l’impossibilità di prevedere tutte le condizioni del mondo reale, sia nel passaggio di una tecnologia da un’organizzazione, dove ha introdotto benefici (su parametri primari o surrogati), a un’altra. Ciò si verifica in quanto l’operatività di una tecnologia informatica non dipende esclusivamente dal suo sviluppo, bensì molto dal suo contesto, dagli strumenti tecnologici e digitali utilizzati e dal cosiddetto “fenoma esteso”. Quest’ultimo è dato dall’insieme di tutti i fattori umani osservabili, inclusi i comportamenti, le preferenze, le abitudini e le attitudini del gruppo coinvolto12. La gestazione dell’evidence-based design è ancora in una fase embrionale e i suoi aspetti teorici fondanti sono ancora lontani dal bagaglio culturale standard del progettista informatico. Quest’ultimo tipicamente considera l’utente (noi) e tutta la sua complessità e imprevedibilità un’inutile complicazione e disturbo. Anche qui salta agli occhi come il modello del progettista informatico prevalente sia centrato sulla malattia e non sul paziente, replicando problemi che in medicina sono già stati ampiamente dibattuti.

Conclusioni

Negli ultimi due anni abbiamo affrontato un’infodemia senza pari, dove è prevalso spesso il sensazionalismo scientifico ed è dilagato il morbo dell’opinionismo generico. L’automatismo tra la generazione delle prove scientifiche e le decisioni sanitarie, già traballante in tempi di relativa quiete, diventa esplosivo nell’emergenza covid-19 che stiamo vivendo. Le decisioni devono essere guidate da prove scientifiche rilevanti, affidabili, accessibili ma non possiamo chiedere che siano le prove da sole a decidere per noi (clinici, politici, cittadini, ecc.). “Lo dice la scienza”, “lo dicono i dati” sono espressioni che svuotano il senso originario dell’EBM, perché spesso quella scienza e quei dati sono inaffidabili o strumentalizzati. Chiaramente non facciamo il tifo per l’ipotesi alternativa all’EBM, l’opinione degli esperti, che non può essere la soluzione per prendere buone decisioni. Senza gridare al fallimento dell’EBM, dobbiamo essere intellettualmente onesti nell’ammettere che – da solo – il bollino EBM non basta.

Il contesto pandemico e la recente introduzione di elementi legislativi, che regolano una pratica clinica basata sulle prove, con effetti diretti su operatori, pazienti, cittadini (legge “Gelli-Bianco”) potrebbero sostenere un riorientamento della bussola della ricerca clinica. Questo momento rappresenta quindi un unicum per rilanciare l’attenzione sull’importanza della ricerca e del suo metodo, in ambito formativo, comunicativo e partecipativo, investendo anche nella raccolta di esperienze, valori e preferenze, in un’ottica inclusiva e di democratizzazione del sapere, proprio come l’EBM stesso suggeriva in origine. È anche possibile, però, che tutto questo possa non verificarsi. Sembra più probabile che l’evoluzione delle politiche a sostegno della scienza, almeno in Europa, possa portare a una separazione dei sistemi di pratica clinica e di ricerca medica, configurandosi così l’opposto dello spirito EBM. La contrazione del finanziamento pubblico e/o la ricerca di sinergie tra finanziamento pubblico e privato spinge il sistema a selezionare pochi centri, molto efficienti, in cui investire le risorse. In un decennio o due, il metodo scientifico potrebbe essere detenuto solo da poche università e centri di ricerca. La maggior parte delle scuole mediche e delle professioni sanitarie si potrebbe concentrare sulla formazione dei professionisti sanitari come disciplina finalizzata a risolvere problemi di natura operativa e applicativa. Così facendo verrebbe marginalizzato il ruolo del dubbio clinico, tralasciato lo sviluppo della ricerca come risposta a questi quesiti, e posta in retrovia la comprensione dei metodi sottostanti. Vale la pena di ripercorrere le orme dell’EBM e resistere, se questo è il cambiamento proposto per il futuro.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

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