Dalla letteratura

La Svezia e covid-19

Nessuna nazione ha affrontato la pandemia in modo “tecnicamente così originale” come la Svezia. Un Paese teoricamente più che pronto per affrontare la sfida sanitaria di questi anni in modo razionale ed efficace. «Oltre 280 anni di collaborazione tra organi politici, autorità e comunità scientifica hanno prodotto molti successi nella medicina preventiva» commentano gli autori di un recente commento pubblicato sulla rivista open access Humanities and social sciences communications . «La popolazione svedese è alfabetizzata e ha un alto livello di fiducia nelle autorità e in chi detiene il potere. Durante il 2020, tuttavia, la Svezia ha registrato tassi di mortalità per covid-19 dieci volte più elevati rispetto alla vicina Norvegia».

Un articolo molto critico che punta il dito su una serie di scelte e decisioni di sanità pubblica che hanno compromesso le capacità del Paese di rispondere in modo efficiente. «Nel 2014 l’Agenzia di sanità pubblica si è fusa con l’Istituto per il controllo delle malattie infettive; la prima decisione del suo nuovo capo (Johan Carlson) è stata quella di licenziare e trasferire le sei figure apicali dell’authority al Karolinska Institute. Con il nuovo assetto, l’agenzia vedeva compromessa la propria esperienza, potendo permettersi di ignorare i fatti scientifici. La strategia pandemica svedese sembrava voler puntare all’immunità di gregge “naturale” ed evitare i lockdown».




Ancora più gravi le accuse riguardanti la comunicazione con i cittadini. «La popolazione svedese è stata tenuta all’oscuro di fatti fondamentali come la trasmissione aerea SARS-CoV-2, la contagiosità degli individui asintomatici e che le maschere per il viso proteggono sia chi le indossa sia le persone che incontra». Troppe raccomandazioni basate sulla responsabilità personale, commentano gli autori. Drammatici altri passaggi: in ospedale, a molte persone anziane è stata somministrata morfina invece dell’ossigeno nonostante le scorte disponibili, abbreviando loro vita.

Tra i correttivi proposti, la creazione di un istituto separato e indipendente per il controllo delle malattie infettive e l’avvio di un processo autocritico riguardo la cultura politica e l’irresponsabilità dei decisori.

Bibliografia

1. Brusselaers N, Steadson D, Bjorklund K, et al. Evaluation of science advice during the COVID-19 pandemic in Sweden. Humanit Soc Sci Commun 2022; 9: 91.

Medici e ricercatori: lasciati soli nell’impegno di comunicare

La presenza di medici e ricercatori sui social media li espone a reazioni di ogni tipo: è un volano di popolarità, ovviamente, al punto che può accadere che un articolo rilanciato da uno degli autori su Twitter o su Instagram determini un più alto numero di citazioni su riviste accademiche. Argomento di crescente interesse – proprio per le sue diverse implicazioni – ha indotto la redazione della rivista Science a chiedere a 9585 ricercatori che hanno pubblicato su covid-19 di compilare un sondaggio online sulle loro esperienze 1 . Dei 510 che hanno risposto, il 38% ha segnalato almeno un tipo di attacco non solo sui social ma anche via e-mail o al telefono. Talvolta anche di persona. Le persone oggetto di queste reazioni – che arrivano in casi estremi fino alle minace di morte – hanno sottolineato l’impatto anche devastante sulla vita personale, potendo creare problemi sul posto di lavoro o disturbi psicologici.

La pandemia e la polarizzazione estrema delle posizioni sulla prevenzione e le terapie ha aggravato il problema. Lo studio di Science va contestualizzato e, per questo, possiamo ricordare come l’organizzazione no profit Insecurity Insight abbia segnalato 517 casi di violenza fisica legati al covid-19: 10 operatori sanitari sono stati uccisi, 24 rapiti e 89 feriti. Uno studio pubblicato questo mese sull’ American Journal of Public Health ha messo in evidenza molestie nel 57% di 583 dipartimenti sanitari statunitensi e 80 dimissioni presentate da funzionari che hanno subito molestie. Un sondaggio pubblicato nell’ottobre 2021 su Nature dà altri numeri sorprendenti: l’81% dei 321 scienziati che avevano partecipato più attivamente al dibattito pubblico su covid-19 ha ricevuto almeno attacchi personali e nel 25% questi attacchi erano frequenti o costanti. Una storia nota anche per chi lavora in ambiti come la ricerca sul clima o sugli animali.




Il sondaggio di Science prima citato 1 mostra che i ricercatori oggetto di attacco personale hanno riferito disturbi d’ansia, paura per la propria reputazione e perdita di produttività. Fino ad arrivare all’abuso di sostanze o a malattie direttamente riconducibili a stress. Meno del 10% dei ricercatori molestati ha ricevuto supporto legale (7%), tecnologico (8%), supporto alla propria sicurezza (5%) o un sostegno riguardo la salute mentale (6%) dai propri datori di lavoro. L’aiuto da parte degli uffici stampa dell’università è rimasto un sogno non esaudito. A molti sarebbe bastato un supporto emotivo: la certezza di non essere in colpa e la conferma che il loro impegno nella comunicazione nei confronti del pubblico era prezioso. Ma anche questo non è arrivato.




Bibliografia

1. O’Grady C. In the line of fire. Science 2022; 375: 1338-43.

Perché ci serve Twitter

I modi attraverso i quali viaggia l’informazione cambiano a un ritmo impensabile solo fino a poco tempo fa. Da anni, per esempio, osserviamo un calo progressivo nella diffusione dei quotidiani che fino a non molto tempo fa rappresentavano con la televisione pubblica la fonte principale di informazione. Le persone giovani o adulte hanno pochissima familiarità con questi media e in molti casi non hanno memoria di un mondo in cui Google – fondato nel 1998 ma di fatto conosciuto solo alcuni anni dopo – non esisteva.

Questa rivoluzione ha interessato anche la formazione e l’aggiornamento professionale delle persone che lavorano nella sanità: basti pensare che fino al 1996 le riviste indicizzate nella National Library of Medicine del congresso statunitense erano consultabili solo a mano o utilizzando dei CD-Rom (e per molti lettori bisognerebbe ormai spiegare anche di cosa si trattasse…). Solo nel gennaio di quell’anno, il governo americano svelò PubMed, progetto di un’interfaccia web per consultare il database documentale e che rimase in versione prima sperimentale e poi beta fino all’inizio del nuovo millennio.

Facciamo un salto di vent’anni e ci ritroviamo in un ecosistema dell’informazione in cui i game changer – secondo Science – sono nientemeno che i social media 1 : la minaccia della pandemia entra in relazione diretta con il pubblico attraverso il flusso di informazione su internet, rendendo incredibilmente più ampio rispetto a un tempo il pubblico potenzialmente raggiunto dai risultati della ricerca scientifica. In particolare, Twitter è diventata una risorsa di riferimento per chiunque cerchi di dare un senso all’ondata di studi sulla pandemia e per coloro che intendono trovare una soluzione non difficilissima al rischio di disinformazione.




Va detto – puntualizza Science – che la pandemia ha anche contribuito a dimostrare i limiti dei social media. «Può essere difficile, ad esempio, per un ricercatore farsi ascoltare superando il rumore di fondo dei messaggi su Twitter, circa 500 milioni ogni giorno. E sebbene alcuni scienziati abbiano utilizzato la piattaforma per migliorare la propria credibilità in Rete, raramente il loro impegno è stato ricompensato». Da una parte, la popolarità promessa dall’alto numero di follower di Twitter raggiunto da alcuni durante la pandemia potrebbe ridursi, dall’altra non poche tra le persone che lavorano nella ricerca e nell’assistenza sanitaria hanno subito le conseguenze della propria popolarità digitale, diventando oggetto di attacchi personali e minacce di violenza. Nonostante tutto, avverte Brainard, in molti ritengono che la pandemia abbia cambiato per sempre la comunicazione della scienza, della salute e della cura.




L’alleanza – se così possiamo chiamarla – tra Twitter e la sanità ha avuto uno straordinario impulso negli ultimi due anni, a partire dal drammatico gennaio del 2020. Gli studi prima della pandemia ci dicevano che solo il 2% dei ricercatori, infermieri e medici autori di articoli scientifici e non più di un ricercatore su cinque negli Stati Uniti e in Europa avesse un account su Twitter. Ma quando la pandemia è esplosa e i ricercatori hanno cercato un modo efficiente per condividere informazioni tra loro – non dimenticando la domanda di conoscenza espressa dai cittadini – molti hanno scoperto i vantaggi offerti da Twitter. L’enorme audience raggiunta dal media è diventata rapidamente un elemento molto attraente per chi intendeva comunicare la scienza: oltre 200 milioni di utenti giornalieri attivi, tra cui circa un quarto degli adulti statunitensi, secondo il Pew Research Center 1 . Una potenzialità unica – sottolinea Science – che «consente ai ricercatori di utilizzare un’unica piattaforma per condividere i risultati dei propri studi con i colleghi e il pubblico e per favorire discussioni aperte. L’interattività e le funzionalità virali di Twitter contribuiscono al suo fascino: per esempio, gli utenti possono ulteriormente contribuire a disseminare i tweet con il proprio like o ritwittandoli ai propri follower.

Oggi, la piattaforma ha contribuito a far circolare la maggior parte della letteratura prodotta su covid-19: circa il 51% degli articoli accademici sulla pandemia è stato menzionato in almeno un tweet (dati di maggio 2021), secondo un rapporto di Research on Research Institute, citato da Brainard. Numeri che superano i risultati di qualsiasi altro media, da Facebook a YouTube, da Wikipedia ai blog. Un dato ben al di sopra di quanto si osservava prima della pandemia, quando solo dal 10% al 30% degli articoli su qualsiasi argomento scientifico veniva menzionato su Twitter.




Bibliografia

1. Brainard J. Riding the Twitter wave. Science 2022; 375: 1344-7.

Trial clinici in cardiologia, le principal investigators donne sono ancora poche

Il numero delle principal investigators donne è, almeno per quanto riguarda i trial clinici in ambito cardiologico, ancora nettamente inferiore a quello dei colleghi maschi. È quanto emerge dalle anticipazioni di uno studio che sarà presentato nel corso del meeting ACC.22 dell’American College of Cardiology, il quale ha inoltre messo in evidenza una relazione tra la presenza di una principal investigator di sesso femminile e il numero di donne reclutate nei trial 1 .

Lo studio ha preso in considerazione 620 trial clinici realizzati in ambito cardiovascolare tra il 2010 e il 2019, finanziati sia dai National Intitutes of Health (NIH) che dalle industrie, presenti su ClinicalTrials.gov. Di questi solo il 18,4% era guidato da una principal investigator donna, un dato rimasto più o meno stabile nel corso del decennio considerato.

Rispetto ai colleghi di sesso maschile, le donne sono meno rappresentate tra i principal investigators dei trial clinici sui farmaci (18,9%) e sui dispositivi (9,6%) mentre ricoprono più frequentemente questo ruolo negli studi riguardanti aspetti comportamentali, chirurgici o di riabilitazione. Infine, le donne sono risultate più spesso alla guida di trial finanziati dai NIH (28,9%) rispetto a quelli finanziati dall’industria (14,7%).

I ricercatori hanno inoltre individuato una correlazione tra la presenza di una principal investigator di sesso femminile e il numero di donne reclutate nei trial: rispetto agli studi guidati dagli uomini, infatti, quelli con una principal investigator donna presentano in media un 7% di soggetti di sesso femminile in più (44,9% nei trial guidati da donne, 37,9% in quelli guidati da uomini).

«In fin dei conti tutto quello che possiamo fare per migliorare la rappresentanza delle donne nei nostri trial si tradurrà in trial clinici con risultati più impattanti, a prescindere da chi sono finanziati», ha commentato Aashna Suvarna, studentessa dell’University of California, Berkeley e autrice dello studio. «L’associazione tra sesso del principal investigator e proporzione dei soggetti di sesso femminile reclutate suggerisce una potenziale strategia».

Bibliografia

1. Yong CM, Suvarna A, Gummidipundi S. Sex of principal investigators and patients in cardiovascular clinical trials. J Am Coll Cardiol   2022; 79 (9 Suppl.) 1470.

Fabio Ambrosino