Occorre, innanzi tutto, una parola


Una donna giovane e bella entra, con sguardo opaco, nella saletta dell’ospedale dove avviene la somministrazione del farmaco. Dietro di lei arranca una anziana signora, probabilmente la madre, che è qui per darle assistenza e conforto. Ha un’ aria tesa e preoccupata. Più in là un giovane sui venticinque anni, dalle occhiaie profonde e dallo sguardo triste, non fa che compulsare nervosamente un cellulare come se da quello dipendesse la sua salvezza. Lungo una parete una fila di sedili dove molta altra gente attende insieme a me il suo turno per la chemio. A prima vista, sembra una normale sala d’aspetto di un qualsiasi luogo di cura, ma poi, ad osservare meglio, si nota un’inquietudine e una depressione che non sono qualsiasi. Uno sguardo appannato, un tono di voce un po’ isterico o, al contrario, una sospetta euforia. E poi un chiacchiericcio da bar, un far finta di niente che, una volta attaccati alle bocce della flebo, si smonta rapidamente in un cupo silenzio che fa male al cuore. Sembrano murati vivi, murati in se stessi.
In genere i giovani appaiono più vulnerabili, meno adattabili all’idea di avere una malattia così a rischio. Il loro stesso modo di vestire e di atteggiarsi sembra incongruo rispetto all’ambiente ospedaliero che tende inesorabilmente ad omologarli, a farne dei “pazienti” appunto. Gli anziani sembrano invece più rassegnati. D’altra parte, nella cultura di questi medici che li amministrano non esiste, neanche remotamente, l’idea che questa non sia una malattia come tante altre, che questa non si può curare senza mobilitare le energie psichiche del paziente. Quelle energie capaci a volte di provocare veri e propri “miracoli”. Si creano ospedali sempre più accoglienti ed efficienti, si aumenta il personale, almeno nelle grandi città come Roma e Milano di cui ho esperienza, ma a nessuno viene in mente che a questi pazienti occorre, innanzitutto, una parola. Qualcuno capace di capire la loro condizione, capace di esprimersi non solo con delle aride prescrizioni e delle asettiche valutazioni, ma in grado di offrire un sorriso, un intervento atto a ristabilire la giusta gerarchia delle cose. Davanti a questa gente che soffre – che brutta parola quella di “paziente”, mi fa pensare a una pecora condotta al macello –, davanti a queste donne e a questi uomini che si trascinano nei vari gironi del dolore e della paura c’è una prospettiva tremenda e non detta: una progressiva invalidità e la morte. Una invalidità e una morte possibili, anche se in molti casi evitabili. Perché aggirare tutto ciò con strategie che non si dovrebbero usare nemmeno con i bambini? Perché non aiutare la gente ad affrontare questo problema senza ipocrisia e senza falsi pietismi, ricordandosi per una volta che il bene più prezioso per l’uomo è la dignità?