Dalla letteratura

Il coronavirus resterà con noi, dice Fauci

«Anche se è quasi impossibile eradicare SARS-CoV-2, è del tutto fattibile controllarlo», ha affermato Anthony Fauci durante un evento virtuale tenutosi a metà aprile 2022 presso l’associazione della stampa statunitense1. Una varietà di fattori rende il covid-19 diverso dalla poliomielite e dal morbillo, ha spiegato il direttore dell’Istituto statunitense per lo studio di allergie e malattie infettive (NIAID), compreso il numero di varianti genotipicamente e fenotipicamente diverse. Alle difficoltà incontrate nell’eradicazione ha contribuito anche la mancanza di un’accettazione più ampia delle vaccinazioni.

«Speriamo di riuscire nell’attività di controllo», ha affermato Fauci, grazie a una combinazione di misure igieniche e di mitigazione sostenuta – in fin dei conti – dal buon senso, da piani di vaccinazione sistematici e dal trattamento con antivirali efficaci e anticorpi monoclonali. Un ottimismo realista, quello di Fauci, che si è augurato si giunga presto al punto in cui l’immunità abbia una durata sufficiente per rendere necessario un suo saltuario potenziamento. In definitiva, non è fattibile immaginare un programma di vaccinazioni che preveda un richiamo ogni quattro mesi. «Stiamo lavorando intensamente per sviluppare vaccini che garantiscano maggiore durata dell’immunità» e che siano efficaci anche contro le varianti del virus. Lo studio Variant Immunological Landscape (COVAIL) sta somministrando una quarta dose mirata e i primi risultati potrebbero essere disponibili quest’estate.

Fauci ha sottolineato l’importanza di continuare a monitorare le varianti, alcune assai più trasmissibili sebbene non necessariamente più pericolose.




Bibliografia

1. Fauci HJ. Covid-19 is here to stay, but we can control it. MedPage Today 2022; 29 aprile.

Media, covid e credibilità

Affinché la promozione della salute pubblica abbia successo, è necessario che le strategie di medicina preventiva non entrino in contrasto con i cittadini: le politiche sanitarie e le decisioni assunte devono essere percepite come opportune. In altre parole, le autorità sanitarie devono costruire e sostenere la fiducia anche grazie a determinate politiche di sanità pubblica. Quando la politica si espone a critiche forti, la credibilità viene messa in discussione e le autorità sono chiamate a “rinegoziare” il patto di fiducia con la cittadinanza.

Questa è la premessa a un lavoro pubblicato su un’interessante rivista di salute pubblica che cerca di offrire indicazioni utili per la promozione della salute e per la comunicazione in tema di covid-191. Gli autori hanno analizzato un dibattito televisivo norvegese in cui un medico ha criticato duramente la risposta alla crisi messa in atto dalle autorità sanitarie nella prima fase della pandemia. Destrutturando la retorica dell’esperto e la presunta “autorevolezza” delle autorità sanitarie gli autori suggeriscono che i rappresentanti delle istituzioni siano più aperti al dialogo e si rapportino meglio alle esperienze quotidiane rispetto a quanto non siano capaci di fare i medici, che costruiscono principalmente la propria visione sulla padronanza di linguaggio e dei metodi della ricerca, il tutto “condito” da una retorica spesso allarmistica.

Infine, dopo un’analisi dei tweet che commentavano il programma, gli autori sostengono che le autorità sanitarie pubbliche potrebbero coltivare il rapporto di fiducia con i cittadini spiegando e difendendo le proprie posizioni all’interno di reti istituzionali e dei social media. Un articolo che – sebbene parta da un’esperienza “locale” e forse non generalizzabile – tocca punti sui quali ragionare e molto attuali anche nel nostro Paese, come dimostra l’interesse suscitato dall’ultimo libro di Sandro Spinsanti2.

Bibliografia

1. Kjeldsen JE, Ihlen Ø, Just SN, Larsson AO. Expert ethos and the strength of networks: negotiations of credibility in mediated debate on covid-19. Health Promotion Intern 2022; 37: daab095.

2. Spinsanti S. Una diversa fiducia. Per un nuovo rapporto nelle relazioni di cura. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2022.

Deprescribing nelle persone con decadimento cognitivo

Una maggiore consapevolezza dei medici di medicina generale dell’opportunità di ridurre le prescrizioni di farmaci con benefici attesi a lungo termine può giovare ai pazienti con decadimento cognitivo? Questa domanda ha guidato i ricercatori che hanno condotto uno studio clinico randomizzato pragmatico di educazione al deprescribing negli adulti anziani con deterioramento cognitivo che assumono 5 o più farmaci1. Da notare in premessa che il deprescribing (riduzione o interruzione dei farmaci per i quali i potenziali danni superano i potenziali benefici) può diminuire il rischio di esiti avversi2.

Lo studio è durato 12 mesi ed è stato condotto dal 1° aprile 2019 al 31 marzo 2020 in 18 ambulatori di cure primarie. Ha arruolato 3012 pazienti adulti di età pari o superiore a 65 anni con demenza o decadimento cognitivo lieve che avevano una o più patologie mediche croniche aggiuntive e assumevano cinque o più farmaci con benefici attesi a lungo termine.

Un opuscolo educazionale e un questionario volto a comprendere quale fosse l’atteggiamento del medico riguardo il deprescribing sono stati inviati per posta ai pazienti prima di una visita dai medici di medicina generale, informati dell’invio, e fogli di suggerimenti per la deprescrizione sono stati distribuiti ai medici stessi durante le riunioni mensili previste nella struttura assistenziale.




I risultati non sono stati incoraggianti: l’educazione dei pazienti e dei medici sulla deprescrizione nell’assistenza primaria non ha avuto effetto sul numero di farmaci prescritti in modo inappropriato. È necessario studiare nuovi percorsi formativi ed educazionali sia rivolti ai medici, sia alle famiglie per sperare di riuscire ad alleggerire il numero di prescrizioni non opportune nei pazienti anziani, questione che rappresenta un problema segnalato anche dalle istituzioni sanitarie del nostro paese3.




Bibliografia

1. Bayliss EA, Shetterly SM, Drace ML, et al. Deprescribing education vs usual care for patients with cognitive impairment and primary care clinicians: the OPTIMIZE pragmatic cluster randomized trial. JAMA Intern Med 2022; 182: 534-42.

2. Rochon PA, Petrovic M, Cherubini A, et al. Polypharmacy, inappropriate prescribing, and deprescribing in older people: through a sex and gender lens. Lancet Healthy Longev 2021; 2: e290-300.

3. Zito S, Pierantozzi A, Marinelli M, Ambrosino F, Trotta F, Cangini A. Uso dei farmaci nella popolazione anziana in Italia. Il Rapporto Nazionale OsMed 2019. Recenti Prog Med 2022; 113: 76-83.

Polvere bianca pagata cara

Nonostante abbia dovuto affrontare una montagna di contenziosi sui suoi prodotti a base di talco e averli ritirati dagli scaffali di tutti i negozi del Nord America due anni fa, Johnson & Johnson continuerà a venderli in molti mercati in tutto il mondo. La decisione è stata presa a maggioranza dopo il voto degli azionisti nella riunione annuale di J&J a fine aprile 2022.

Sono oltre 40.000 le cause contro l’azienda, di cui più di 25.000 ancora in sospeso: la ragione è nota ed è legata alla possibilità che i prodotti a base di talco causino il cancro. Il contenzioso è già costato a J&J quasi 1 miliardo di dollari in spese legali e 3,5 miliardi di dollari in risarcimenti. Va ricordato che nel 2019 la Food and drug administration ha richiamato alcuni prodotti nei quali era stata segnalata la presenza di amianto. Meno di un anno dopo, J&J ha interrotto le vendite del proprio borotalco e di altri prodotti in Nord America e ha creato una società per assorbire le proprie passività dovute ai contenziosi e proteggere l’azienda dal fallimento. Il fondo fiduciario destinato ai risarcimenti è pari a 2 miliardi di dollari.

Quel che resta aperto, però, è il rischio di un’ulteriore erosione della reputazione dell’azienda, che notoriamente si pone nei riguardi dei consumatori come partner fiduciario per la fornitura di prodotti per la salute. Forse per questo, il consiglio di amministrazione dell’azienda ha risposto alla sfida continuando a difendere il prodotto: «La scienza non ha portato alcuna evidenza che il talco da noi usato causi il cancro».

Bibliografia

1. Dunleavy K. Amid legal tumult, J&J shareholders reject proposal to end talc sales worldwide. Fiercepharma 2022; 29 aprile.

Twitter e le istituzioni sanitarie

Le istituzioni sanitarie, compresi ospedali e istituti di ricerca e assistenza, utilizzano sempre più spesso le piattaforme di social media, come Twitter, per sensibilizzare i cittadini su argomenti di salute e benessere. In linea con questa tendenza, uno studio statunitense ha cercato di capire come tre importanti centri medici appunto degli Stati Uniti utilizzino Twitter per condividere contenuti educazionali su problemi di salute, trattamenti, misure preventive e altri argomenti relativi alla medicina1.




È stato raccolto e analizzato tematicamente un campione di tweet pubblicati dalla Cleveland Clinic, dal Johns Hopkins Hospital e dalla Mayo Clinic in un arco di tempo di 6 mesi. La prima analisi, che si è concentrata su otto popolari argomenti di salute, ha messo in evidenza che dieta e cancro erano costantemente gli argomenti oggetto di maggiore interesse, mentre il diabete era meno frequentemente citato nei tweet. Una seconda analisi ha mostrato che le tre istituzioni fornivano principalmente consigli e informazioni generali sulla salute nei loro tweet ma prestavano un’attenzione minore alle cause e alle conseguenze delle malattie, alle strategie di prevenzione e ricorrevano di rado alla narrazione di storie dei pazienti.

Allineare la comunicazione sui social media delle istituzioni sanitarie alle esigenze di sanità pubblica sarebbe un’ottima cosa. Ma è difficile dimenticare che – al di là dell’indiscusso prestigio delle tre istituzioni coinvolte – si tratta pur sempre di tre importanti player di quella che è stata definita “medicina industriale”, che ha nella diagnosi e nella terapia la propria principale – se non esclusiva – ragion d’essere2.




Bibliografia

1. Kordzadeh N. Health promotion via Twitter: a case study of three medical centers in the USA. Health Promotion Inter 2022; 37: daab126,

2. Montori V. Perché ci ribelliamo. Una rivoluzione per una cura attenta e premurosa. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.

Aspirina e prevenzione primaria

L’aspirina è una pietra miliare della terapia antipiastrinica per la prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari (CVD), ma il suo ruolo nella prevenzione primaria rimane incerto. L’argomento è stato oggetto di analisi su una delle riviste del gruppo editoriale del JAMA1.

Negli ultimi decenni, c’è stato un grande interesse nell’identificare gli individui per i quali il beneficio clinico dell’aspirina per la prevenzione di un primo infarto o ictus (prevenzione primaria) supera il rischio di sanguinamento. Le meta-analisi dei primi studi di prevenzione primaria sull’aspirina hanno suggerito un modesto beneficio di quella a basse dosi nella prevenzione del primo infarto o ictus a costo di un eccesso di rischio di emorragia. In effetti, il numero di pazienti da trattare necessario (NNT) per prevenire un singolo evento cardiovascolare sembrava paragonabile al NNT per causare danni provocando l’evento avverso. Pertanto, inizialmente le linee guida raccomandavano l’aspirina a basse dosi solo per individui con alto rischio di CVD presumendo che il beneficio superasse il rischio. Nel corso del tempo, sono stati disegnati studi più ampi per valutare il rapporto beneficio/rischio dell’aspirina a basso dosaggio in individui con un rischio cardiovascolare più elevato, inclusi gli anziani, in persone con diabete e con CVD subclinica. Nonostante l’arruolamento di pazienti a rischio più elevato, i risultati erano coerenti: il beneficio clinico dell’aspirina era marginale e, nella maggior parte degli individui, il beneficio era annullato dall’eccesso di rischio di sanguinamento.




Sulla base di dati di diversi studi, la US Preventive Services Task Force (USPSTF) ha aggiornato le proprie raccomandazioni che risalivano al 2016 sull’uso dell’aspirina per la prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari. Ora, negli adulti di età compresa tra 40 e 59 anni che hanno un rischio CVD a 10 anni del 10% o superiore, prescrivere l’aspirina a basse dosi per la prevenzione delle malattie cardiovascolari dovrebbe essere una scelta individuale. Allo stesso tempo, si raccomanda di non iniziare l’uso di aspirina a basse dosi per la prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari negli adulti di età uguale o superiore ai 60 anni.

Tutte le raccomandazioni ricordano che il beneficio clinico dell’aspirina a basso dosaggio per la prevenzione primaria è marginale e dev’essere attentamente bilanciato rispetto al noto eccesso di rischio di sanguinamento maggiore. Gli studi che saranno disegnati e condotti in futuro – suggerisce l’autore del commento sul JAMA Open – «invece di identificare il rischio cardiovascolare globale degli individui utilizzando i tradizionali fattori di rischio (per esempio età, ipertensione, diabete, iperlipidemia), potrebbero prendere in considerazione il fenotipo piastrinico del singolo paziente per l’inizio della terapia mirata, inclusa l’aspirina. Poiché gli individui con maggiore attività piastrinica sono a maggior rischio cardiovascolare e poiché l’aspirina diminuisce l’attività piastrinica, la misurazione di quest’ultima o del trascrittoma piastrinico in soggetti senza CVD può aiutare a identificare un gruppo ad alto rischio che trarrebbe beneficio dalla terapia preventiva con aspirina».




Bibliografia

1. Berger JS. Aspirin for primary prevention. Time to rethink our approach. JAMA Netw Open 2022; 5: e2210144.

Se la terapia oncologica
non migliora la qualità di vita, non ce lo dicono

Gli esiti delle cure in termini di qualità della vita (QOL) negli studi clinici randomizzati di fase 3 (RCT) di farmaci antitumorali in fase avanzata sono associati a risultati di efficacia coerenti e in che modo la pubblicazione degli RCT riporta solitamente esiti della QOL quando questa non migliora?

Uno studio di coorte su 45 RCT ha provato a rispondere a questo interrogativo rilevando che solo la prescrizione di uno su quattro (24%) dei nuovi farmaci è associata a una migliore QOL1. Lo studio retrospettivo ha incluso tutti i pazienti affetti da cancro in ambiente avanzato arruolati in studi clinici randomizzati di fase 3 (RCT) di farmaci antitumorali (in totale 24.806 partecipanti di cui 13.368 nel braccio sperimentale e 11.438 nel braccio di controllo) che riportassero dati sulla QOL e pubblicati in lingua inglese in una rivista indicizzata su PubMed nell’anno solare 2019. La ricerca sistematica di PubMed è stata condotta a luglio 2020.

Solo il 22% degli studi che hanno messo in evidenza una migliore progression free survival ha mostrato anche benefici nella QOL, sebbene circa la metà degli studi che non hanno mostrato alcun miglioramento della QOL abbia comunque riportato i risultati con toni positivi. In altre parole, la maggior parte degli studi su farmaci oncologici che riportano una migliore sopravvivenza libera da progressione non mostra una migliore qualità della vita globale dei pazienti: tuttavia, questa discrepanza è spesso taciuta. Nel dettaglio, dei 34 studi in cui la qualità della vita non è stata migliorata rispetto ai controlli, 16 (47%) hanno riportato questi risultati in un quadro positivo, un dato statisticamente associato in maniera significativa alla natura dello sponsor dello studio stesso. Altro risultato interessante riguarda la più frequente peggiore QOL riportata in caso di assunzione di terapie target non chemioterapiche.




Bibliografia

1. Samuel JN, Booth CM, Eisenhauer E, Brundage M, Berry SR, Gyawali B. Association of quality-of-life outcomes in cancer drug trials with survival outcomes and drug class. JAMA Oncol 2022: e220864.