Dalla medicina basata sulle evidenze
alla decisione condivisa con il paziente
:
come gestire l’incertezza nella pratica clinica

Giuseppe Parisi1,2, Peter Konstantin Kurotschka3,4

1Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università Milano-Bicocca, Monza; 2Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPeM); 3Institut für Allgemeinmedizin, Universitätsklinikum Würzburg, Germania; 4Dipartimento di Scienze Mediche e Salute Pubblica, Università di Cagliari.

Pervenuto il 23 marzo 2022. Accettato il 24 marzo 2022.

Riassunto. In sanità l’incertezza, lungi dall’essere un evento eccezionale, è sempre presente. Il concetto è stato definito come incapacità di decidere, data dalla percezione soggettiva dell’ignoranza, una meta-ignoranza. L’ignoranza è spesso vista come inaccettabile nel contesto sanitario, che sembra, invece, richiedere certezze, prove inequivocabili che consentano previsioni esatte, e conseguenti decisioni professionali che non lascino spazi a dubbi. Per questo il professionista chiamato a prendere decisioni può essere portato ad assumere atteggiamenti di avversione o di negazione dell’incertezza, e a rifugiarsi, invece, in false certezze. In questa rassegna, esaminiamo il dibattito teorico degli ultimi decenni e le attuali evidenze sulla gestione dell’incertezza nella pratica clinica, in particolare nella consultazione delle cure primarie. Le situazioni cliniche possono essere rappresentate come costituite da un nucleo di rischio, con una probabilità di esito nota. Questo nucleo di rischio noto è circondato da una nuvola di incertezza, che è tanto più ampia, quanto più è vaga e imprecisa l’informazione clinica. Questa nuvola di incertezza deve essere tenuta sempre presente, poiché influenza in modo significativo le probabilità dell’esito. Gli operatori sanitari possono affrontare al meglio le situazioni cliniche assumendo un atteggiamento “ecologico”, allargando le proprie prospettive dalla malattia al paziente e dal paziente al suo contesto, potendo utilizzare sia modelli decisionali analitici sia modelli più intuitivi. Delineiamo quelle strategie particolarmente utili per prendere decisioni in situazioni di incertezza, come le euristiche veloci e frugali, comprese le strategie diagnostiche e terapeutiche come le reti protettive (safety netting) e il test del tempo, e quelle che utilizzano le sensazioni istintive in modo complementare (sensazioni di pancia o gut feelings). Inoltre, sottolineiamo l’importanza, nella gestione dell’incertezza clinica, di coinvolgere i pazienti nel processo decisionale. Questo per due ragioni. Una di ordine etico – i pazienti hanno sempre il diritto di essere coinvolti – e una di ordine pratico – prendere in considerazione le preferenze dei pazienti può dare un contributo al ragionamento clinico. In tal senso, maggiore è l’incertezza, maggiore è la necessità del coinvolgimento dei pazienti nella decisione. Concludiamo, infine, questo lavoro mostrando come la comunicazione dell’incertezza ai pazienti possa essere uno strumento che favorisce la costruzione e il mantenimento di un buon rapporto medico-paziente, basato su responsabilità, fiducia e rispetto.

Parole chiave. Decisione condivisa, incertezza, medicina basata sulle evidenze, medicina generale, pratica clinica, relazione medico-paziente.

From evidence-based medicine to shared decision making: how to manage uncertainty in clinical practice.

Summary. In healthcare, uncertainty, far from being an exceptional event, is always present. The concept has been defined as the inability to decide, caused by a subjective perception of ignorance, a meta-ignorance. Ignorance may be seen as unacceptable in the context of healthcare, which seems to require certainties, hard evidence that allow exact predictions, and consequent professional decisions. For this reason, the professional who has to make decisions can be led to assume attitudes of aversion or denial of uncertainty, and to seek refuge in false certainties. In this article, we review the theoretical debate of the past decades and the current evidence around the management of uncertainty in clinical practice, especially in the primary care consultation. We argue that clinical situations can be represented as constituted by a core of risk, whit a known probability of the occurrence of an outcome. This known risk core is surrounded by a cloud of uncertainty, the wider the more the clinical information is vague and inaccurate. This cloud of uncertainty must be taken into account, since it significantly influences the probability assessments within the known risk core. Healthcare professionals can face clinical situations best by assuming an “ecological” attitude, broadening their perspectives from the disease to the patient and from the patient to his context, being able to use both, analytical decision models and more intuitive ones. We outline strategies that are particularly useful in making decisions in situations of uncertainty, such as the fast and frugal heuristics, including diagnostic and therapeutic strategies such as safety netting and the test of time, and those that use instinctive sensations in a complementary way (gut feelings). Furthermore, we outline the importance, in the management of clinical uncertainty, of involving patients in the decision-making process. This for two reasons. One is ethical: patients have always the right to be involved. The other is practical: taking patients’ preferences into account improves the clinical reasoning. The higher the uncertainty, the higher the need of patients’ involvement in the decision. Finally, we conclude the article by showing how the communication of uncertainty to patients favors the construction and maintenance of a good doctor-patient relationship, based on responsibility, trust and respect.

Key words. Clinical practice, evidence-based medicine, general practice, physician-patient relations, shared decision making, uncertainty.

Introduzione e obiettivi

Il tema che vorremmo trattare è un tema attuale, su cui si riflette probabilmente troppo poco nella pratica clinica: quello della gestione dell’incertezza. 

Si tratta di un tema rilevante, soprattutto in un periodo perturbato come quello degli ultimi anni, in cui i clinici hanno dovuto fronteggiare una patologia, la covid-19, dove tutto è stato più incerto che mai: la situazione epidemiologica, gli strumenti diagnostici, la prognosi, l’efficacia dei trattamenti e la loro sicurezza1

Gli effetti dell’incertezza sono molteplici, sia psicologici per il paziente e il medico e, in generale, per l’individuo, sia deontologici, etici e legali. Essa incide sulla relazione medico paziente e sugli aspetti micro- e macro-organizzativi del sistema sanitario e dell’attività medica, e in modo particolare sulla qualità della cura e dell’assistenza, e sulla sua appropriatezza2,3

L’intento di questo articolo è quello stimolare una riflessione sulle implicazioni dell’incertezza nella pratica clinica e di suggerire alcune semplici strategie di gestione della stessa durante la consultazione medico-paziente e, più in generale, durante il processo clinico-decisionale. Anche se questa trattazione è riferita principalmente al primo livello di cure, ovvero alle cure primarie, le riflessioni qui contenute potranno essere utili anche a professionisti sanitari, medici e non medici, che operano in contesti diversi dalle cure primarie, dato che l’incertezza è presente a tutti i livelli e in tutte le aree della medicina e dell’assistenza. Non a caso, attualmente, oltre alle cure primarie, anche la medicina di emergenza-urgenza si interroga su questo aspetto del lavoro dei professionisti4.

Riflessione preliminare

L’incertezza è insita nella pratica clinica, vi «si insinua […] attraverso ogni suo poro»5 e, anche se la covid-19, una malattia recente e ancora in parte sconosciuta, l’ha resa più evidente, essa è sempre esistita. La storia della medicina è stata interpretata persino come una ininterrotta battaglia per ridurre l’incertezza, fin dai tempi di Ippocrate6,7.

In un contesto, quello clinico, che sembrerebbe richiedere previsioni esatte, certezze, per il medico è difficile, quasi disdicevole, esplicitare a sé stesso l’incertezza: essere incerti è qualcosa di inammissibile, al punto che i professionisti cadono spesso in atteggiamenti di fuga o di diniego dell’incertezza8.

Trisha Greenhalgh et al., in un ormai famoso articolo pubblicato nel 2014 sul British Medical Journal9, descrivono come uno degli elementi di crisi della medicina basata sulle evidenze una progressiva distrazione della sua agenda: si assiste, così argomentano gli autori, alla progressiva marginalizzazione della cura individualizzata sui bisogni dei pazienti e a una parallela enfasi posta su «popolazioni, rischi, statistiche e certezze spurie». Lungi dal caldeggiare un abbandono della medicina basata sulle evidenze, Greenhalgh et al. propongono invece una sua rinascita attraverso il ritorno ai suoi principi fondanti: anziché certezze spurie e sempre valide, vengono proposte evidenze centrate sull’individuo, calate nella pratica clinica mediante lo strumento della condivisione delle decisioni, nel contesto di una relazione professionale e umana significativa tra il clinico e il paziente.

Una tendenza di fuga dall’incertezza si riscontra anche nella medicina generale, la quale, paradossalmente, dovrebbe riuscire a essere più a proprio agio nell’incertezza, costitutiva del suo lavoro. Secondo Marshall10, infatti, nel caso della medicina generale, si assiste a un universale e diffuso diniego dell’incertezza: la pratica sul territorio avrebbe luogo ignorando la gestione della stessa – competenza pregiata e insostituibile – a favore di competenze più chiare e valutabili, ma che solo parzialmente sono alla base del lavoro del medico di medicina generale, che può essere chiamato, a ben vedere, “specialista dell’incertezza”. Hillen et al.11 descrivono il fenomeno con il termine di uncertainty aversion, ovvero l’atteggiamento del professionista rispetto all’incertezza: questi, nella pratica, si trova a rifugiarsi in erronee e false certezze anziché ammettere il grado di incertezza in cui è costretto a lavorare. Il termine si situa all’interno di un insieme di costrutti che sono stati oggetto di studi multidisciplinari. In questo ambito, lo stesso Hillen ha proposto una sua definizione del concetto di uncertainty tolerance, mettendo in luce come la tolleranza all’incertezza è data dalla risposta comportamentale, cognitiva ed emotiva alla percezione soggettiva di incertezza come consapevolezza di ignoranza rispetto a una determinata situazione11. Tale risposta può essere sia negativa che positiva. Quando è negativa, vale a dire quando prevale l’intolleranza all’incertezza, essa è percepita come minaccia, insorgono dubbi, un senso di vulnerabilità, il diniego, la preoccupazione e la paura, con conseguenti atteggiamenti di evitamento, disattenzione, e anche posposizione della decisione clinica. Ciò può portare situazioni di insicurezza per i pazienti e a veri e propri errori. È stato messo in evidenza come tale genere di distorsione cognitiva dovuta alla scarsa tolleranza dell’incertezza sia molto diffusa tra i sanitari12. Tuttavia, la risposta può essere anche di verso opposto, positiva, di tolleranza dell’incertezza, che il professionista vede come opportunità, connessa con sentimenti di serenità, coraggio, curiosità e speranza. L’atteggiamento del clinico, in tal caso, è attivo, di ricerca di informazioni e di azione.

Per una tassonomia dell’incertezza

Ma cosa si intende per incertezza? L’incertezza è il termine utilizzato in diversi significati in un certo numero di ambiti del sapere. Etimologicamente, la parola certezza deriva dal verbo latino cerne˘re, che significa separare, distinguere. Certu(m), che è il participio passato di cerne˘re, è, quindi, letteralmente qualcosa di separato, distinto e ben delimitabile13. Le circostanze incerte, al contrario, sono quelle non chiaramente distinguibili o separabili. Ne consegue che, in circostanze incerte, il discernimento (parola che peraltro condivide la stessa etimologia della parola “certezza”) richiesto a chi è chiamato a decidere è maggiore rispetto alle condizioni certe, in cui la via da seguire è certa, al di là di ogni ragionevole dubbio. Non sorprende quindi che l’incertezza sia stata definita come incapacità di decidere14. Tale incapacità di decidere può essere attribuita ai fatti e alla realtà, oppure può essere attribuita al soggetto. Di seguito, analizzeremo questa seconda accezione. Han et al.15 hanno definito l’incertezza come una meta-ignoranza, ovvero come la percezione soggettiva, la consapevolezza, dell’ignoranza (subjective perception of ignorance). In questa accezione, l’incertezza non è nella realtà ma è un fenomeno cognitivo, emotivo e comportamentale che si manifesta nel soggetto incerto con una serie di fenomeni cognitivi e affettivi, di seguito elencati:

dubbio;

percezione di indefinito;

percezione di indeterminazione;

percezione di non essere credibili;

ansia;

azioni di evitamento dell’incertezza (ambiguity aversion).

In letteratura sono state proposte diverse classificazioni dell’incertezza, e fin dagli anni Novanta dello scorso secolo è stata evidenziata la difficoltà di dare un ordine ai vari punti di vista. In fondo, essendo l’incertezza una parte centrale dell’esperienza di malattia, è comprensibile che sia stata studiata da molte prospettive e si riferisca a differenti fenomeni16.

Seguendo le indicazioni tassonomiche proposte da Han et al.15 e quelle presenti in altri studi17, la figura 1 è una rappresentazione tridimensionale dell’incertezza: nell’asse dell’ascisse è rappresentata la natura dell’incertezza, natura che può essere di ordine scientifico, pratico o personale. Nell’asse delle ordinate sono rappresentate le fonti dell’incertezza. Tra queste, distinguiamo una fonte di bassa incertezza nell’informazione di natura probabilistica, una di media incertezza nell’informazione ambigua e una di alta incertezza nell’informazione complessa.




Di seguito prenderemo in esame analiticamente le tre dimensioni della natura dell’incertezza, per poi dedicarci a un ulteriore elemento: l’attore dell’incertezza.

Natura dell’incertezza

L’incertezza di ordine scientifico

Nella pratica, i clinici, per prendere decisioni, si confrontano giornalmente con informazioni di natura probabilistica: stime di sopravvivenza libera da malattia in ambito oncologico, valutazione del rischio cardiovascolare, probabilità di un’eziologia batterica o virale nel caso di un’infezione delle vie respiratorie, solo per citare alcuni esempi. L’incertezza che ne deriva è relativa all’indeterminatezza degli eventi futuri che viene spesso espressa in termini di percentuali di probabilità, ed è quindi misurabile e utile guida al decisore, ma al tempo stesso non eliminabile, perché rimane comunque una previsione probabilistica e non deterministica. Il medico non accorto può sentirsi – falsamente – certo, ma in realtà è solo meno incerto nella decisione. Tale tipo di incertezza è simile alla situazione che incontreremmo se per orientarci avessimo a disposizione una mappa in scala di gran lunga inferiore a quella necessaria per camminare in sicurezza, anche se sufficiente per orientarsi. I nostri passi sarebbero incerti anche se la direzione fosse chiara.

Ma l’incertezza della decisione può aumentare se le informazioni utilizzate per prenderla sono, oltre che di natura probabilistica, anche ambigue. Un’informazione è ambigua quando imprecisa (la probabilità è espressa come un ampio intervallo di valori), quando inaffidabile (la stima di probabilità deriva da strumenti o metodi inaffidabili), o quando sono disponibili informazioni non univoche. Tale tipo di incertezza è simile alla situazione che incontreremmo se per orientarci avessimo a disposizione una mappa che, oltre a essere in scala inferiore a quella necessaria, fosse anche imprecisa. I nostri passi sarebbero incerti e potrebbero incontrare ostacoli non previsti per errori cartografici.

Infine, l’incertezza della decisione può aumentare ulteriormente se le informazioni utilizzate sono complesse, ovvero quando sono presenti molteplici fattori causali, molteplici stati di eventi, molteplici esiti o molteplici interpretazioni possibili, quando i confini tra eventi sono vaghi o essi stessi sono di difficile descrizione. Tale tipo di incertezza è simile alla situazione che incontreremmo se per orientarci dovessimo riferirci a molte mappe diverse, di cui tenere conto contemporaneamente. I nostri passi sarebbero incerti, potrebbero incontrare ostacoli per errori cartografici e, inoltre, sarebbero rallentati dai molteplici fattori da tenere in considerazione.

L’incertezza di ordine pratico-organizzativo

La seconda area è quella relativa all’incertezza pratico-organizzativa. Qualsiasi intervento diagnostico o terapeutico non può prescindere dalle reti del sistema sanitario in cui è inserito. È perciò dovere dei professionisti avere attenzione all’incertezza insita nel sistema. In questo ambito esistono informazioni incerte perché probabilistiche, in Italia un buon esempio è il Programma Nazionale Esiti (PNE), ma, a ben guardare l’esempio citato, le informazioni ivi rinvenibili sono incerte anche perché ambigue, fatto ben rappresentato dalla variabilità delle stime intervallari che accompagnano ogni misurazione puntuale. Infine, nonostante l’esistenza di strumenti di valutazione della qualità dell’assistenza come il PNE appena citato, esiste tuttavia una quota di incertezza irriducibile del sistema, data, appunto, dalla sua complessità.

L’incertezza di ordine personale

Infine, esiste un’area ineludibile da indagare, che è l’incertezza di ordine personale, la quale deriva dal paziente quale erogatore di informazioni su sé stesso, sul suo ambiente sociale, e sulla sua rete di assistenza. Nel processo di raccolta delle informazioni si deve indagare la loro affidabilità. Non solo, vanno prese in considerazione anche idee, paure e aspettative che la persona può avere rispetto alla malattia e all’assistenza, per arrivare infine a conoscere la sua posizione esistenziale. Sono aspetti che emergono talvolta con chiarezza, talvolta con ambiguità, ma che emergono sempre dalla complessità del Sé, il Sé di una persona altra dal medico. Il paziente, da questo punto di vista, presenta informazioni generate nella complessità e, quindi, ad alta incertezza. Ciò è particolarmente rilevante nelle cure primarie, dove pressoché tutti gli interventi prendono le mosse dalla soggettività del paziente.

L’insegnamento che viene da questa trattazione tassonomica è che se i professionisti vogliono agire sull’incertezza devono tenere conto di tutte queste aree senza rinchiudersi nella sola disquisizione sulla qualità delle informazioni scientifiche scotomizzando l’incertezza insita in altre aree, ovvero quella insita nel sistema e quella relativa alle informazioni fornite dal paziente.

L’attore dell’incertezza

Come più sopra affermato, l’incertezza esiste non solo nel medico ma anche nel paziente, ed essendo costruita socialmente si basa sulla capacità informativa e comunicativa del medico, sulla fiducia reciproca che si crea e su altri fattori relazionali di grande complessità. Se per esempio il medico è consapevole dell’incertezza, è meta-ignorante, ma non la comunica al paziente, che viene lasciato nell’ignoranza, oltre a essere un’azione discutibile sul piano deontologico, è anche metodologicamente errata, perché può togliere al paziente un elemento di conoscenza importante per prendere le decisioni delle quali è direttamente responsabile, decisioni corollario delle decisioni cliniche condivise con il medico.

Per una buona gestione dell’incertezza

Se incertezza è meta-cognizione di ignoranza, essa andrebbe considerata come un segnale di cui tenere conto – e non come una spiacevole sensazione da negare –, segnale di cui indagare la fonte, ovvero l’area in cui si situa l’assenza di conoscenze precise.

Nonostante le indicazioni precedenti possano dare l’impressone di essere di difficile applicazione in un setting clinico, in pratica possono essere seguite agevolmente se veicolate da una serie di domande che i medici possono formulare a sé stessi (tabella 1).




L’incertezza “segnale” può essere anche percepita come alta o bassa, sulla base delle misurazioni dei vari aspetti sopra esposti, e questa dimensione, il grado di incertezza, è fondamentale ancora una volta per scegliere la strategia clinica e comunicativa. I professionisti sono abituati a valutare la gravità della situazione e della patologia, il rischio di un esito negativo se gli interventi sanitari vengono omessi, e il rischio degli stessi. Per queste importanti valutazioni, il clinico si basa su misure di probabilità. Tuttavia, queste misure in molti ambiti clinici perdono d’importanza o, semplicemente, non esistono. Per esempio, la valutazione di un paziente anziano pluripatologico, con un deficit cognitivo, una rete assistenziale deficitaria e più di sette farmaci in terapia non è una valutazione che possa basarsi semplicemente su misure di rischio, dato che non esistono studi interamente generalizzabili a tali complessità18,19. In questo contesto è utile riferirsi, oltre al termine di rischio noto20, utilizzato dall’economista Frank Knight nel 1921 con una definizione valida a tutt’oggi, al termine di rischio sconosciuto, in cui la conoscenza probabilistica del verificarsi di un evento è parziale o quasi assente20. Questa situazione è quella del mondo reale, dove, per prendere la decisione, la logica e gli strumenti statistici spesso non bastano.

Le situazioni cliniche possono, quindi, essere rappresentate come costituite da un nucleo di rischio conosciuto, aggredibile dalla conoscenza probabilistica, avvolto da una nube di incertezza (figura 2)21.




Sappiamo anche che la nube di incertezza può essere, se analizzata onestamente, molto fitta o esigua, configurando situazioni molto diverse dal punto di vista clinico-pratico (figura 3).




A nostro vedere, la gestione dell’incertezza in medicina non può ridursi a una sua ricognizione anamnestica, ma deve essere un aspetto-chiave del metodo clinico e, come tale, incorporata in tutti gli aspetti del percorso decisionale dei professionisti sanitari, elemento necessario per mettere in atto azioni appropriate. Ciò che nel processo di decisione clinica talvolta non si considera, infatti, è che l’incertezza influenza la probabilità del verificarsi, o del non verificarsi, di un evento. Riconoscere l’incertezza permette, quindi, di comunicarla, di prendere decisioni più consapevoli e, in ultima analisi, di praticare una medicina più prudente e meno onnipotente.

Esplorare il rischio conosciuto

Nel processo decisionale la precedenza logica è data all’esplorazione del rischio conosciuto, vale a dire delle informazioni certe e di qualità, considerato il fatto che dal punto di vista deontologico la professione medica deve in primis riferirsi a esse.

Queste informazioni di qualità sono sia quelle derivate dall’esplorazione della soggettività del paziente e dell’obiettività clinica, sia quelle derivate dalla conoscenza delle clinical prediction rules. Questo è tutto ciò che abbiamo in mano di “certo”, secondo i nostri criteri, anche se probabilistico e non “certo” per il singolo paziente.

Non è detto che questo atteggiamento possa essere risolutivo. In ambienti complessi come quello della medicina sul territorio, per esempio, questi strumenti sono poco utili se utilizzati senza tenere conto delle varie dimensioni dell’incertezza3. Già nel 1990 Feinstein e poi Shinkins nel 201322 hanno evidenziato la scarsa attendibilità nell’escludere o confermare un determinato stato di salute di test diagnostici costruiti su esiti binari, specie in medicina generale. Nelle molte situazioni di incertezza clinica (diagnostica in questo caso), questi autori propongono lo sviluppo di test diagnostici che utilizzino esiti non binari bensì a tre, se non a più, categorie. In tal modo, tali test introducono una o più categorie incerte oltre ai due estremi binari.

C’è da notare che nel 1984 Eddy5 invocava la possibilità di tenere in considerazione l’incertezza per poterla ridurre, a fronte della grande ignoranza che la medicina aveva rispetto ai propri interventi. Oggi siamo nella condizione di aver vinto tantissime battaglie di quella guerra, di riuscire ad avere informazioni su tantissimi quadri, interventi e processi diagnostici. È per questo che dobbiamo spingerci oltre ed esplorare sempre la nube di incertezza5.

Esplorare la nube di incertezza

La presa d’atto dell’incertezza implica la presa d’atto che non sono disponibili indicazioni esterne certe sulla decisione da prendere: si hanno informazioni aneddotiche e non affidabili, dati vaghi e imprecisi, si affrontano per la prima volta situazioni difficili, si ha una bassa conoscenza della malattia “nuova” e così via. È la situazione toccata con mano in epoca covid-19, che ha però radici molto lontane nella storia della medicina.

Per addentrarsi in questo terreno il primo passo è chiedersi il grado di incertezza e se e quanto la nube di incertezza possa essere ridotta e a che prezzo.

È molto diverso per il sistema sanitario, per il medico e per il paziente ridurre l’incertezza arrivando a una diagnosi di maggiore certezza, agendo sulla situazione reale, sulle capacità professionali e sulle conoscenze – ma anche aumentando gli esami diagnostici –, oppure al contrario tollerarla con strategie point-of-care, utilizzando il tempo come test23.

Ma una terza possibilità è avere, in certe situazioni, l’onestà di ammettere, da un certo punto in poi, l’irriducibilità dell’incertezza. In questa situazione l’incertezza deve essere semplicemente tollerata dai sanitari, dal paziente e da chi se ne prende cura, nella consapevolezza dolorosa che l’incertezza è costitutiva del mondo reale.

Con quale atteggiamento?

Può essere utile allargare lo sguardo dalla malattia al paziente e dal paziente al suo contesto. In questo caso si applica quella che è efficacemente chiamata razionalità ecologica, vale a dire si applica un pensiero che è irrazionale rispetto alle regole interne della logica formale, ma che è perfettamente razionale rispetto all’ambiente esterno e agli obiettivi che il decisore si dà, e che sta alla base di un atteggiamento, appunto, ecologico: non esiste solo la malattia, ma anche il paziente e il suo contesto, i determinanti sociali e psicologici della salute e della malattia24. Qui può venire in aiuto il modello biopsicosociale25 o il ricorso ad atteggiamenti orientati al paziente26. È stato dimostrato come i medici che utilizzano un modello biopsicosociale di malattia presentino minori reazioni da stress all’incertezza di quelli che utilizzano un modello puramente biomedico27. Dobbiamo, inoltre, considerare come, in alcuni contesti, i medici considerino una molteplicità di aspetti e saperi relativi al paziente, ulteriori rispetto a quelli puramente clinici, per prendere migliori decisioni nell’incertezza, come per esempio è stato messo in evidenza nel caso delle persone con broncopneumopatia cronico-ostruttiva28.

Con quali strategie e con quali strumenti?

Quali possono essere le migliori strategie e i migliori strumenti con cui il medico riesce a decidere al meglio nella nube di incertezza?

Innanzitutto il ragionamento clinico rimane lo strumento cardine in medicina per affrontare qualsiasi situazione clinica. Oggi si riconosce che l’approccio del medico alla situazione clinica è basato non solo e non tanto su modelli analitici, consci e controllati dal ragionamento, ma anche su modelli non analitici, inconsci e intuitivi, al punto che l’insegnamento del metodo clinico raccomandato è quello che comprende queste due tipologie29,30. Vorremmo qui illustrare due modelli interessanti perché utili nel campo dell’incertezza: quello delle strategie euristiche e quello delle sensazioni istintive (gut feelings).

Strategie euristiche e gut feelings

L’euristica identifica poche informazioni importanti, le pesa e si ferma nella ricerca quando giudica che le informazioni sono sufficienti per una decisione adeguata agli obiettivi. Tuttavia, non bisogna credere che tali strategie decisionali fast and frugal siano sempre puramente intuitive mentre quelle analitiche siano le uniche nutrite di solide basi statistico-epidemiologiche: un buon esempio di strategie decisionali fast and frugal ma allo stesso tempo basate su evidenze sono le cosiddette clinical decision rules o clinical prediction rules, in cui pochi segni e sintomi ed eventualmente esami point-of-care (cioè eseguiti al momento della visita) possono essere utilizzati per prendere rapidamente una decisione clinica31-34. Allo stesso tempo, l’euristica è utilizzata dai medici molto spesso senza l’aiuto statistico, per decidere “a braccio” nelle situazioni incerte, prendendo in considerazione anche elementi di contesto, secondo i principi della razionalità ecologica24.

Le sensazioni istintive (gut feelings) sono state studiate sin dagli anni Ottanta prevalentemente in ambito infermieristico35, e hanno fatto ingresso nella letteratura più prettamente medica soprattutto a partire dagli anni 200036. Nelle sue ricerche, Stolper et al. hanno operazionalizzato il concetto nelle situazioni cliniche incerte in medicina generale, definendolo come composto da due sensazioni: da una parte, la sensazione del “C’è qualcosa che non torna”, dall’altra quella del “Tutto torna”. Le due sensazioni sono due facce della stessa medaglia, ovvero della gestione intuitiva di una situazione clinica, utilizzata come utile aiuto alla generazione di ulteriori ipotesi diagnostiche o alla scelta dei test da effettuare o non effettuare37-40. Van Weel41, recentemente, ha auspicato l’ingresso a pieno titolo delle sensazioni istintive nei curricula formativi dei medici di medicina generale presenti e futuri, ritenendo il ragionamento clinico basato anche su tali gut feelings, elemento distintivo della pratica della medicina generale, caratterizzata costitutivamente da situazioni ad alta incertezza.

Gigerenzer42,43 mostra come nella situazione di rischio conosciuto/noto i sistemi di decisione basati sull’analisi delle probabilità diano il meglio, mentre nelle situazioni di incertezza le strategie euristiche sobrie e veloci dei professionisti abbiano maggiore successo. In medicina, quindi, in molti casi, le strategie sobrie e veloci possono essere più efficaci di quelle in cui le decisioni sono basate sul metodo analitico: per esempio nel caso della selezione dei pazienti da ammettere all’unità coronarica e nel processo decisionale sulla diagnosi delle vertigini eseguito in pronto soccorso44. Utilizzare le strategie euristiche evita di aumentare le indagini diagnostiche nelle situazioni di incertezza45.

Con questo non vogliamo affermare la superiorità del modello intuitivo rispetto al modello analitico di ragionamento clinico e non si tratta di dissuadere i medici a usare un modello o l’altro tout court. Conosciamo, infatti, da tempo gli errori e i tranelli insiti nelle strategie euristiche sobrie e veloci46. Ciò che proponiamo è che un professionista sia libero di scegliere la strategia più confacente alla situazione che è chiamato ad affrontare, utilizzando quella che è stata efficacemente definita da Gigerenzer una “cassetta degli attrezzi adattiva”42.

Il safety netting e il test del tempo

Uno strumento di gestione dell’incertezza che merita una trattazione a parte è la rete protettiva o rete di sicurezza (safety net)47,48. Esso è universalmente utilizzato inconsapevolmente dai medici di medicina generale, nonostante sia stato descritto per la prima volta già nel 1987 da Roger Neighbour, che ne ha messo in luce la sua complessità49. Per capire di cosa si tratta, ipotizziamo una situazione molto comune: quella di una donna di 30 anni che presenta moderati sintomi di un’infezione delle vie urinarie non complicata dal giorno precedente. Seguendo le linee guida, non sbaglieremmo ad adottare un ragionamento algoritmico e a prescrivere immediatamente un antibiotico50. La paziente chiede se è proprio necessario prendere questo antibiotico, il medico al quale era precedentemente iscritta glielo aveva prescritto diverse volte per il mal di gola e lei ogni volta aveva avuto dei sintomi intestinali molto fastidiosi che duravano molti giorni. Le indicazioni delle linee guida sembrano inequivocabili, però: una infezione delle vie urinarie va trattata proprio con un antibiotico, per evitare complicanze temibili. Provando ad adottare un ragionamento meno algoritmico e più complesso, a ben vedere la paziente è giovane e non ha fattori di rischio particolari. Inoltre, il rischio di evoluzione verso una forma grave è molto basso e, da dati presenti in letteratura, la nostra paziente ha il 50% di probabilità di guarire anche senza terapia51. Alla luce delle sue preferenze espresse, decidiamo, quindi, di costruire una rete protettiva (safety net), adottando una strategia di attesa: prescriviamo un sintomatico52, informando però la persona in maniera strutturata sui sintomi di allarme che potrebbero presentarsi (red flags), nonché dei tempi e delle modalità con cui cercare aiuto medico nel caso in cui questi sintomi si presentassero o semplicemente nel caso in cui non dovesse stare meglio nell’arco di un tempo prestabilito. Idealmente tali informazioni devono essere date per iscritto, dopo un processo di decisione condivisa.

La rete protettiva può essere utilizzata anche come test diagnostico. È il cosiddetto “test del tempo”, una delle strategie di diagnosi più peculiari della medicina generale53. Esistono situazioni in cui la diagnosi è incerta e la diagnosi alternativa potrebbe essere una malattia grave a progressione rapida. In questo caso si può utilizzare il tempo come test, alla stregua di un esame ematico o strumentale. Anche in questo caso, cerchiamo di capire di cosa si tratta utilizzando un esempio clinico frequente. Immaginiamo una persona di genere maschile di 20 anni, altrimenti sano, che presenta una eccessiva stanchezza da qualche settimana e, da qualche giorno, una lieve febbricola. L’approccio biomedico tradizionale, quello che in genere si adotta nei reparti ospedalieri internistici per intenderci, sarebbe quello di procedere con diagnosi strumentali per step, dove ogni step ha l’obiettivo di escludere diagnosi ritenute possibili o probabili, fino a raggiungere una diagnosi di certezza. Utilizzando il test del tempo, invece, il punto di vista è rovesciato: nel caso specifico porremmo una diagnosi di lavoro di mononucleosi infettiva, prescriveremmo un test antigenico e attenderemmo che il tempo, poche settimane, ci porti a una diagnosi di maggiore certezza. Con ogni probabilità, il giovane paziente, al successivo contatto, non presenterà più i sintomi e potremmo confermare la nostra diagnosi di lavoro. Tuttavia, la presenza della rete di sicurezza, dell’esplicitazione di sintomi di allarme e delle modalità di ricontatto con il professionista sanitario rendono l’approccio sicuro per il paziente. Infatti, l’attesa del verificarsi (o meno) di un evento che possa diminuire l’incertezza esistente e portare il ragionamento del medico in un’area di maggiore certezza, rendendo appropriato un invio al secondo livello di cure o l’esecuzione di ulteriori esami diagnostici, deve essere attentamente monitorata. Tale monitoraggio attento e continuo nella strategia del safety netting viene eseguito dal paziente o da un suo familiare, in quanto punto informativo attendibile sul territorio.

E qui entra anche l’aspetto comunicativo della strategia. Innanzitutto, il medico deve creare una buona relazione di fiducia e partenariato con il paziente, in modo che possa recepire chiaramente le istruzioni. Poi il paziente deve aver compreso che esiste l’incertezza diagnostica, a quali segni e sintomi prestare attenzione e per quanto tempo, e come cercare aiuto. Infine, è fondamentale l’aspetto organizzativo: il medico e il suo team devono avere accesso alle informazioni sulla decisione presa con il paziente in ogni momento e deve esistere un sistema di recezione della chiamata agile che preveda una risposta immediata.

Ci sono evidenze che indicano che questa pratica è utile? Almond et al.54, in un articolo di rivisitazione del concetto, non ne hanno trovate molte: sicuramente è utile nel trauma cranico, e infatti è utilizzata negli stampati dei pronto soccorso; sicuramente non comunicare l’incertezza può avere effetti sfavorevoli sulla sopravvivenza dei pazienti, ma in generale i risultati non sono chiari, e quindi gli autori invitano i medici a essere prudenti, a utilizzare la rete protettiva, a insegnarla nel training della medicina generale in attesa di maggiori risultati sull’efficacia di questa pratica.

Ma lo strumento più potente per aiutare il medico a decidere nell’incertezza è la condivisione del processo decisionale con il paziente o con chi se ne prende cura. Di seguito prenderemo in esame come il processo della condivisione delle decisioni cliniche possa aiutare professionisti e pazienti a gestire l’incertezza insita in molte situazioni contingenti.

Il percorso di condivisione della decisione

Nel 1997 compare per la prima volta in letteratura la concettualizzazione del processo di condivisione della decisione (shared decision making - SDM) da parte di Kathy Charles et al.55, che ne indicano le caratteristiche: per affermare che è in atto un processo di condivisione della decisione in medicina devono essere presenti almeno un professionista e un paziente che condividano le informazioni nell’intento di costruire un consenso su un percorso diagnostico o terapeutico, e riescano infine nello scopo. A tutt’oggi si contano più di sessanta definizioni di SDM ed entrare nel merito di ciascuna di esse va al di là degli intenti del presente articolo. Tuttavia, ciò che è rilevante è che la definizione di decisione condivisa è molto ampia e descrittiva e non normativa, e non dice quanta parte di responsabilità nella decisione possa o debba avere il paziente. Può esistere, quindi, una ripartizione del contributo nella decisione in cui il paziente ha solo una minima parte di responsabilità, ma questa minima parte ci autorizza a chiamare il processo decisionale una “decisione condivisa”. Kon56 afferma che la decisione condivisa è posta su un continuum che vede alle sue due estremità, da una parte il modello paternalistico (physician driven), dall’altra il modello informativo (patient driven), al centro del quale esiste la decisione condivisa (equal partners) in cui il contributo di medico e paziente è del 50% ciascuno. Secondo Kon, chi stabilisce il punto di condivisione è il paziente, che deve esprimere se e quanto vuole essere coinvolto nella decisione, e ciò risulta anche da una ricerca sulle preferenze dei pazienti che conclude di non dare per scontato il fatto che il paziente voglia partecipare, ma si deve valutare la preferenza individuale del paziente e adattare il processo decisionale in maniera sartoriale57.

Ci si trova quindi a descrivere un’ampia variabilità di situazioni derivanti da tanti fattori in cui la decisione condivisa ha come protagonista il paziente in misura maggiore o minore, come illustrato nella figura 4.




I medici orientano e modulano tale configurazione decisionale tenendo conto dei desideri e delle preferenze del paziente nella condivisione ma anche della situazione clinica in cui si vengono a trovare.

Vale a questo punto la pena chiedersi quale sia la situazione clinica in cui viene richiesto al paziente di essere maggiormente protagonista. Questa situazione clinica è la situazione di incertezza. È questa una situazione, infatti, del tutto opposta a quella in cui esiste un’opzione certamente migliore, e nella quale il rapporto costi/benefici è certo. Si tratta, invece, di un contesto in cui quella da prendere è una decisione che deve essere sensibile alle preferenze del paziente, vale a dire, non essendoci ben definiti rapporti tra costi e benefici, le preferenze e i valori del paziente divengono maggiormente importanti58,59. Maggiore è l’incertezza maggiore sarà la necessità di un parere del paziente, commisurato alle sue conoscenze e capacità. Non solo preferenze, ma anche un vero e proprio contributo sull’intervento60. Bisogna fare attenzione a distinguere dalla decisione condivisa il semplice consenso informato: in quest’ultimo procedimento c’è un flusso informativo unidirezionale, che va dal medico al paziente, dovuto dal punto di vista sia etico sia giuridico, ma non necessario alla decisione che il medico ha già preso in autonomia e che quindi nulla ha di condiviso. Nel caso in cui la condivisione sia presente, avviene invece uno scambio di idee tra medico e paziente, una interazione collaborativa che sfocia in una decisione. Il paziente è consulente nella decisione, e lo scopo del medico è di farsi aiutare dal paziente stesso, processo a ben vedere molto diverso da quello puramente informativo.

La nostra proposta, in linea con la letteratura internazionale, è che in medicina si adottino sempre di più stili e tecniche di condivisione della decisione clinica, questo specialmente in tutte quelle situazioni di incertezza, in cui il rapporto rischi/benefici non è così netto da permettere al medico di prendere una decisione senza una condivisione di responsabilità con il paziente.

Condivisione dell’incertezza
tra operatori e tra operatore e paziente
e chi se ne prende cura

Per Babrow et al.16 una delle dimensioni dell’incertezza che ne giustificano la varietà di significati è l’epistemologia alla base delle credenze dell’individuo: incertezza può avere diversi significati in relazione alle visioni (più o meno consce) che un individuo ha rispetto alla conoscenza. Chi segue un paradigma deterministico pensa diversamente da chi segue un paradigma probabilistico. Ed è plausibile che il paziente tenda ad aggrapparsi più a un paradigma deterministico che non probabilistico, in altre parole che preferisca la certezza all’incertezza. Quindi la condivisione dell’incertezza deve tener conto di questi atteggiamenti diversi tra individui e ruoli.

Anche la percezione che il medico ha della tolleranza di un paziente all’incertezza influenza l’atteggiamento del medico: si è visto, per esempio, che la probabilità che i medici adottino un atteggiamento di condivisione della decisione scende quando percepiscono difficoltà da parte dei pazienti nell’accettare la comunicazione di incertezza3,61. Ma anche l’atteggiamento comunicativo del medico influenza il processo: medici più estroversi e aperti comunicano di più l’incertezza e sono meno ansiosi verso di essa62. Cooke et al.63, in una ricerca svolta sugli specializzandi di medicina generale, notano come la difficoltà a condividere incertezza con il paziente sia associata al burnout. Anche Griffiths et al.64 mostrano come sia difficile la comunicazione dell’incertezza da parte dei professionisti, proponendo però anche le strategie utilizzabili nel processo comunicativo, all’interno del dilemma tra creare il mito della certezza all’interno di ciò che è intrinsecamente incerto e il comunicare una certezza provvisoria. In conclusione, se l’impostazione di una buona relazione con il paziente, il rispetto dei confini professionali, il riconoscimento della fiducia reciproca e l’allineamento delle aspettative delle due parti favoriscono la migliore gestione dell’incertezza65, riteniamo che sia vero anche l’opposto: una migliore comunicazione delle situazioni di incertezza da parte del medico, e una conseguente migliore gestione di tali situazioni, favoriscono la costruzione e il mantenimento di una buona relazione medico-paziente basata su responsabilità, fiducia e rispetto.

Conclusioni

Il termine incertezza è un aspecifico. In conclusione a questa rassegna ci appare utile distinguere tra due situazioni, entrambe incerte ma in maniera diversa. Da una parte vi sono le situazioni cliniche ad alta incertezza, ovvero tutte quelle situazioni di coesistenza di plurime patologie complesse in cui gli effetti a breve e lungo termine dei molteplici farmaci che la persona assume non sono completamente noti66. Dall’altra vi sono quelle situazioni meno incerte, di rischio noto, nelle quali tuttavia esiste sempre una quota residua di incertezza, irriducibile che, a ben vedere, è sempre presente in tutte le azioni umane.

Questa distinzione tra situazioni ad alta e bassa incertezza può aiutare il professionista nel modulare atteggiamenti e comportamenti molto diversi tra di loro a seconda della situazione. Se l’incertezza è molto bassa, il medico è chiamato a essere molto incisivo nella decisione informando il paziente e chiedendo il consenso ma non necessariamente coinvolgendolo; se l’incertezza è alta, il medico è chiamato a coinvolgere invece il paziente. Si deve però osservare che, se si è di fronte all’incertezza irriducibile della vita, è situazione che chiama ben altre e più complesse azioni che non la ricerca di nuove informazioni mediante, per esempio, esami diagnostici15. La distinzione tra incertezza irriducibile e riducibile può essere utile sia sul piano metodologico clinico per evitare percorsi diagnostici e terapeutici accaniti, con tutto ciò che possono comportare, sia sul piano comunicativo e relazionale, nell’ottica di una medicina centrata sul paziente, per costruire una relazione di fiducia e lealtà tra medico e paziente, nel rispetto dei principi deontologici.

Se si ha consapevolezza delle situazioni ad alta incertezza ma anche dell’incertezza residua, irriducibile, insita nelle cose umane, si può finalmente accettare una visione della medicina e della gestione della sanità pubblica realistica, in cui le decisioni in genere sono sì, dicotomiche (prescrivo o non prescrivo? Implemento le attività di un certo servizio o no?), ma molto raramente si tratta di decisioni tra il bianco (certamente giusto) e il nero (certamente sbagliato). L’attività del medico, ma anche del decisore in sanità pubblica, si svolge in un mondo in cui la certezza è un’illusione e in cui ci si deve orientare in una scala di grigi, anche se fino a oggi ha prevalso di gran lunga la tendenza a restituire una visione in bianco e nero della realtà8,9.

Al di là delle scelte di campo manichee, in cui si contrappone la visione dell’incertezza come qualcosa da combattere alla visione dell’incertezza come qualcosa da accettare, si è proposta in questo articolo una visione pragmatica, in cui l’incertezza è un segnale utile a suggerire la corretta strategia metodologica clinica e comunicativa.


Take home messages.

L’incertezza non è una spiacevole eccezione, ma nella pratica clinica è la regola. Tenendo conto di ciò, possono essere scelte le strategie cliniche e comunicative più efficaci nel processo decisionale.

Si deve utilizzare un atteggiamento “ecologico”, allargando le proprie prospettive dalla malattia al paziente e dal paziente al suo contesto, potendo utilizzare sia modelli decisionali analitici che più intuitivi, quali quelli euristici sobri e veloci e quelli che utilizzano in modo complementare le sensazioni istintive (gut feelings).

Si può utilizzare lo strumento metodologico-organizzativo della rete protettiva e quello della condivisione del processo decisionale con il paziente o con chi se ne prende cura.

Decisione condivisa: maggiore è l’incertezza, maggiore è l’importanza di coinvolgere i pazienti nel processo di decisione clinica.

Comunicazione dell’incertezza: esplicitare l’incertezza nella consultazione può favorire un rapporto medico-paziente basato su responsabilità, fiducia e rispetto.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Stone L. General practice, COVID-19 and living with uncertainty. Aust J Gen Pract 2020; 49.

2. West AF, West RR. Clinical decision-making: coping with uncertainty. Postgrad Med J 2002; 78: 319.

3. Alam R, Cheraghi-Sohi S, Panagioti M, Esmail A, Campbell S, Panagopoulou E. Managing diagnostic uncertainty in primary care: a systematic critical review. BMC Fam Pract 2017; 18: 79.

4. Platts-Mills TF, Nagurney JM, Melnick ER. Tolerance of uncertainty and the practice of emergency medicine. Ann Emerg Med 2020; 75: 715-20.

5. Eddy DM. Variations in physician practice: the role of uncertainty. Health Affairs 1984; 3: 74-89.

6. Matthews RA. The origins of the treatment of uncertainty in clinical medicine. Part 1: ancient roots, familiar disputes. J R Soc Med 2020; 113: 193-6.

7. Matthews RA. The origins of the treatment of uncertainty in clinical medicine - Part 2: the emergence of probability theory and its limitations. J R Soc Med 2020; 113: 225-9.

8. Simpkin AL, Schwartzstein RM. Tolerating uncertainty. The next medical revolution? N Engl J Med 2016; 375: 1713-5.

9. Greenhalgh T, Howick J, Maskrey N. Evidence Based Medicine Renaissance Group. Evidence based medicine: a movement in crisis? BMJ 2014; 348: g3725.

10. Marshall M. Redefining quality: valuing the role of the GP in managing uncertainty. Br J Gen Pract 2016; 66: e146-8.

11. Hillen MA, Gutheil CM, Strout TD, Smets EMA, Han PKJ. Tolerance of uncertainty: Conceptual analysis, integrative model, and implications for healthcare. Soc Sci Med 2017; 180: 62-75.

12. Saposnik G, Redelmeier D, Ruff CC, Tobler PN. Cognitive biases associated with medical decisions: a systematic review. BMC Med Inform Decis Mak 2016; 16: 138.

13. Cortellazzo M, Zolli P, DELI - Dizionario Etimologico della Lingua Italiana. Cortellazzo M, Cortellazzo MA (a cura di), edizione minore. Bologna: Zanichelli, 2004.

14. Pianigiani O. Dizionario Etimologico della Lingua Italiana. Versione online, https://www.etimo.it/?pag=hom

15. Han PK, Klein WM, Arora NK. Varieties of uncertainty in health care: a conceptual taxonomy. Med Decis Making 2011; 31: 828-38.

16. Babrow AS, Kasch CR, Ford LA. The many meanings of uncertainty in illness: toward a systematic accounting. Health Commun 1998; 10: 1-23.

17. Kirkegaard P, Risør MB, Edwards A, Junge AG, Thomsen JL. Speaking of risk, managing uncertainty: decision-making about cholesterol-reducing treatment in general practice. Qual Prim Care 2012; 20: 245-52.

18. Kastner M, Hayden L, Wong G, et al. Underlying mechanisms of complex interventions addressing the care of older adults with multimorbidity: a realist review. BMJ Open 2019; 9: e025009.

19. Muth C, van den Akker M, Blom JW, et al. The Ariadne principles: how to handle multimorbidity in primary care consultations. BMC Medicine 2014; 12: 223.

20. Gandolfi A. Decidere nell’incertezza. Bellinzona: Casagrande, 2012.

21. Parisi G, Pasolli L. Clinica, relazione, decisione. Milano: Franco Angeli, 2016.

22. Shinkins B, Perera R. Diagnostic uncertainty: dichotomies are not the answer. Br J Gen Pract 2013; 63: 122-3.

23. Schneider A, Lowe B, Barie S, Joos S, Engeser P, Szecsenyi J. How do primary care doctors deal with uncertainty in making diagnostic decisions? The development of the ‘Dealing with Uncertainty Questionnaire’ (DUQ). J Eval Clin Pract 2010; 16: 431-7.

24. Gigerenzer G, Gray JAM. Better doctors, better patients, better decisions: envisioning Health Care 2020. Cambridge, MA: MIT Press, 2011.

25. Engel GL. The need for a new medical model: a challenge for biomedicine. Science 1977; 196: 129-36.

26. McWhinney IR. A textbook of family medicine. Oxford, UK: Oxford University Press, 1997.

27. Evans L, Trotter DR. Epistemology and uncertainty in primary care: an exploratory study. Fam Med 2009; 41: 319-26.

28. Laue J, Melbye H, Halvorsen PA, et al. How do general practitioners implement decision-making regarding COPD patients with exacerbations? An international focus group study. Int J Chron Obstruct Pulmon Dis 2016; 11: 3109-19.

29. Eva KW. What every teacher needs to know about clinical reasoning. Med Educ 2005; 39: 98-106.

30. Elstein AS, Schwartz A. Clinical problem solving and diagnostic decision making: selective review of the cognitive literature. BMJ 2002; 324: 729-32.

31. McIsaac WJ, Moineddin R, Gágyor I, Mazzulli T. External validation study of a clinical decision aid to reduce unnecessary antibiotic prescriptions in women with acute cystitis. BMC Fam Pract 2017; 18: 89.

32. McIsaac WJ, Kellner JD, Aufricht P, Vanjaka A, Low DE. Empirical validation of guidelines for the management of pharyngitis in children and adults. JAMA 2004; 291: 1587-95.

33. Fine AM, Nizet V, Mandl KD. Large-scale validation of the Centor and McIsaac scores to predict group A streptococcal pharyngitis. Arch Int Med 2012; 172: 847-52.

34. Olesen JB, Lip GY, Hansen ML, et al. Validation of risk stratification schemes for predicting stroke and thromboembolism in patients with atrial fibrillation: nationwide cohort study. BMJ 2011; 342: d124.

35. Rew L, Barrow EM, Jr. State of the science: intuition in nursing, a generation of studying the phenomenon. ANS Adv Nurs Sci 2007; 30: E15-25.

36. Greenhalgh T. Intuition and evidence: uneasy bedfellows? Br J Gen Pract 2002; 52: 395-400.

37. Hull F. Decision making in general practice. New York: Macmilan, 1985.

38. Stolper E, van Bokhoven M, Houben P, et al. The diagnostic role of gut feelings in general practice. A focus group study of the concept and its determinants. BMC Fam Pract 2009; 10: 17.

39. Stolper E, Van Royen P, Van de Wiel M, et al. Consensus on gut feelings in general practice. BMC Fam Pract 2009; 10: 66.

40. Stolper E, Van de Wiel M, Van Royen P, Van Bokhoven M, Van der Weijden T, Dinant GJ. Gut feelings as a third track in general practitioners’ diagnostic reasoning. J Gen Intern Med 2011; 26: 197-203.

41. van Weel C. The extraordinary diagnostic sensitivity of family physicians. Fam Pract 2020; 37: 431-3.

42. Gigerenzer G. Imparare a rischiare. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2015.

43. Gigerenzer G. Fast and frugal heuristics: the tools of bounded rationality. Blackwell handbook of judgment and decision making. Malden: Blackwell Publishing, 2004 [pp. 62-88].

44. Marewski JN, Gigerenzer G. Heuristic decision making in medicine. Dialogues Clin Neurosci 2012; 14: 77-89.

45. Allison JJ, Kiefe CI, Cook EF, Gerrity MS, Orav EJ, Centor R. The association of physician attitudes about uncertainty and risk taking with resource use in a Medicare HMO. Med Decis Making 1998; 18: 320-9.

46. Motterlini M, Crupi V. Decisioni mediche. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2005.

47. Jones D, Dunn L, Watt I, Macleod U. Safety netting for primary care: evidence from a literature review. Br J Gen Pract 2019; 69: e70.

48. Almond S, Mant D, Thompson M. Diagnostic safety-netting. Br J Gen Pract 2009; 59: 872-4.

49. Neighbour R. The inner consultation. Oxford: Radcliffe Publishing, 2004.

50. National Institute for Health and Care Excellence (NICE). Urinary tract infection (lower): antimicrobial prescribing; NICE Guideline [NG109]. 2018.

51. Hoffmann T, Peiris R, Mar CD, Cleo G, Glasziou P. Natural history of uncomplicated urinary tract infection without antibiotics: a systematic review. Br J Gen Pract 2020; 70: e714.

52. Gágyor I, Bleidorn J, Kochen MM, Schmiemann G, Wegscheider K, Hummers-Pradier E. Ibuprofen versus fosfomycin for uncomplicated urinary tract infection in women: randomised controlled trial. BMJ 2015; 351: h6544.

53. Heneghan C, Glasziou P, Thompson M, et al. Diagnostic strategies used in primary care. BMJ 2009; 338: b946.

54. Almond S, Mant D, Thompson M. Diagnostic safety-netting. Br J Gen Pract 2009; 59: 872-4; discussion 4.

55. Charles C, Gafni A, Whelan T. Shared decision-making in the medical encounter: what does it mean? (or it takes at least two to tango). Soc Sci Med 1997; 44: 681-92.

56. Kon AA. The shared decision-making continuum. JAMA 2010; 304: 903-4.

57. Levinson W, Kao A, Kuby A, Thisted RA. Not all patients want to participate in decision making. A national study of public preferences. J Gen Intern Med 2005; 20: 531-5.

58. Maffei RM, Dunn K, Zhang J, Hsu CE, Holmes JH. Understanding behavioral intent to participate in shared decision-making in medically uncertain situations. Methods Inf Med 2012; 51: 301-8.

59. Stiggelbout AM, Pieterse AH, De Haes JC. Shared decision making: concepts, evidence, and practice. Patient Educ Couns 2015; 98: 1172-9.

60. Parisi G. Le basi concettuali e teoriche della formazione alla decisione condivisa con il paziente. Tutor 2020; 19: 6-24.

61. Portnoy DB, Han PKJ, Ferrer RA, Klein WMP, Clauser SB. Physicians’ attitudes about communicating and managing scientific uncertainty differ by perceived ambiguity aversion of their patients. Health Expect 2013; 16: 362-72.

62. Schneider A, Wübken M, Linde K, Bühner M. Communicating and dealing with uncertainty in general practice: the association with neuroticism. PLoS One 2014; 9: e102780.

63. Cooke GPE, Doust JA, Steele MC. A survey of resilience, burnout, and tolerance of uncertainty in Australian general practice registrars. BMC Med Educ 2013; 13: 2.

64. Griffiths F, Green E, Tsouroufli M. The nature of medical evidence and its inherent uncertainty for the clinical consultation: qualitative study. BMJ 2005; 330: 511.

65. Sommers LS, Morgan L, Johnson L, Yatabe K. Practice inquiry: clinical uncertainty as a focus for small-group learning and practice improvement. J Gen Intern Med 2007; 22: 246-52.

66. Farrell B, Mangin D. Deprescribing is an essential part of good prescribing. Am Fam Physician 2019; 99: 7-9.