Dalla letteratura

Chi decide cosa è falso in medicina?

Il governo californiano ha approvato un disegno di legge che consentirà all’Ordine dei medici di prendere provvedimenti nei confronti degli iscritti che fanno disinformazione sul covid-19. La legge considera “condotta non professionale” la diffusione di informazioni errate relative al coronavirus Sars-CoV-2 o sulla malattia: sulla natura e sui rischi del virus, sulla prevenzione e sul trattamento, nonché sullo sviluppo, la sicurezza e l’efficacia dei vaccini covid-19. Il disegno di legge non specifica la natura dell’azione disciplinare, ma si ritiene che possa arrivare alla sospensione o alla revoca della licenza. La normativa introdotta in California lascia perplessi: chi può decidere senza avere dei dubbi sul merito di un’informazione falsa, fuorviante o non veritiera?

Se lo è chiesto John Mandrola in un post recentissimo: «Procedure come la chiusura percutanea dell’auricola sinistra, l’ipotermia per i sopravvissuti all’arresto cardiaco, la riparazione della valvola mitrale con la tecnica edge-to-edge, la riserva frazionale di flusso per la valutazione delle arterie coronariche e la protezione embolica cerebrale dopo l’impianto della valvola aortica transcatetere – per non parlare di farmaci come la niacina, i fibrati, le vitamine A, C, E e D e i folati – sono degli esempi di come talvolta il consenso raggiunto era errato o continua a essere discusso»1. E questo solo in cardiologia.

«Il problema è che la pratica medica è raramente in bianco e nero. Il più delle volte, le raccomandazioni generali sono destinate a essere adattate al singolo paziente» ha osservato Leana S. Wen sul Washington Post2. «Prendiamo ad esempio le recenti linee guida sui richiami delle vaccinazioni per covid. I Centers for disease control and prevention hanno raccomandato che tutti i soggetti di età superiore ai 12 anni ricevano un richiamo aggiornato. La maggior parte dei medici sarebbe probabilmente d’accordo sul fatto che gli anziani dovrebbero ricevere subito il nuovo richiamo. Ma molti potrebbero consigliare, come farei io, che per alcuni pazienti va bene rimandare il richiamo in prossimità delle vacanze invernali. Alcuni medici potrebbero sconsigliare il richiamo a bambini e adolescenti, soprattutto se hanno già contratto il coronavirus. Si tratterebbe di azioni contrarie alle linee guida federali. La legge californiana, portata all’estremo, potrebbe mettere a rischio molti medici. Ma è davvero giusto che i medici siano minacciati di sospensione o revoca della licenza per aver offerto indicazioni non definitive su questioni complesse ancora non risolte dal punto di vista scientifico? Un’altra lezione di Covid è che la scienza è in continua evoluzione. In un’emergenza di salute pubblica, le linee guida ufficiali sono spesso in ritardo rispetto alle ricerche più avanzate. Si pensi a quanto tempo ci è voluto al CDC per riconoscere che il coronavirus si trasmette per via aerea. I medici avrebbero dovuto essere censurati per aver raccomandato le mascherine N95 prima che fossero accettate come metodo efficace per ridurre la trasmissione del virus?».




Bibliografia

1. Mandrola J. Who decides what is medical disinformation? Medscape 2022; 13 ottobre.

2. Wen LS. California’s anti-misinformation bill is well intentioned. But is a bad idea. Washington Post 2022; 12 settembre.

Diventare cardiologo è meno attraente di un tempo

Nonostante tra gli iscritti alle facoltà di Medicina negli Stati Uniti più del 50% siano donne, nel 2020 solo il 25% degli specializzandi in Cardiologia erano donne, la percentuale più bassa di tutte le specialità di Medicina interna. Per comprendere meglio le scelte dei giovani medici, nel 2010 un sondaggio tra gli specializzandi aveva concluso che i fattori determinanti della scelta erano (in ordine decrescente di influenza) i seguenti: orari stabili, ambiente amichevole, ambiente adatto alle donne e modelli di ruolo positivi. Questi fattori non si riflettevano nelle impressioni che i partecipanti avevano della Cardiologia, disciplina che sembrava essere caratterizzata da condizioni lavorative complicate, forte interferenza con la vita familiare e con la possibilità di avere figli e scarsa inclusività. Sebbene questo gap tra le preferenze di carriera e le percezioni delle caratteristiche della disciplina sia valida sia per gli specializzandi maschi sia per le femmine, la continua difficoltà a motivare le donne a iscriversi alla specializzazione in Cardiologia è un motivo di preoccupazione. Per questo, da diversi autori affiliati a differenti centri universitari statunitensi è stato promosso un nuovo sondaggio per capire se ci siano stati cambiamenti nel tempo, con l’intento di comprendere meglio le resistenze che ancora trattengono le donne dal diventare cardiologhe. I risultati sono stati pubblicati su JAMA Cardiology e anticipati online lo scorso ottobre.

Quali sono stati i principali risultati? Gli specializzandi di entrambi i generi hanno riconosciuto un valore maggiore a tutti gli aspetti che riguardano l’equilibrio tra lavoro e vita privata, compresa la stabilità dell’orario, la compatibilità tra lavoro e famiglia e l’avere modelli di ruolo che mostrano proprio questo equilibrio. La priorità di questi valori nei maschi è aumentata nel tempo. Gli specializzandi di oggi è anche più probabile che segnalino aspetti negativi della cardiologia rispetto ai loro predecessori (troppe telefonate durante la notte o nel fine settimana, difficoltà ad avere figli durante la specializzazione e ambiente poco inclusivo e attento alle diversità).

Una delle autrici dello studio – Meghan York, del Beth Israel Deaconness Medical Center di Boston – ha spiegato i risultati in un thread esaustivo su Twitter, sottolineando quali siano a suo giudizio i punti chiave: i modelli di ruolo positivi che mostrano come sia la soddisfazione professionale sia quella personale siano molto importanti nella scelta della carriera ed essere stati incoraggiati a scegliere la cardiologia.




Bibliografia

1. York M, Douglas PS, Damp JB, et al. Professional preferences and perceptions of cardiology among internal medicine residents: temporal trends over the past decade. JAMA Cardiol 2022; 12 ottobre.

Fabio Ambrosino
In collaborazione con Cardioinfo.it

Scompenso cardiaco acuto:
è davvero utile ridurre il consumo di sale?

Sebbene estremamente diffusa, la riduzione del consumo di sale al fine di diminuire il sovraccarico di volume nei pazienti con scompenso cardiaco congestizio acuto sottoposti a un trattamento intensivo con diuretici potrebbe non avere benefici rilevanti. È quanto emerge dai risultati di uno studio, presentato nel corso dell’ultimo congresso dell’Heart Failure Society of America (HFSA), che ha valutato gli effetti associati alla somministrazione di cloruro di sodio in aggiunta ai pasti a basso contenuto di sale forniti dagli ospedali ai pazienti ricoverati per un evento acuto di scompenso cardiaco.

Lo studio OSPREY-AHF, randomizzato controllato, ha valutato gli effetti associati alla somministrazione quotidiana di 6 g di cloruro di sodio o di un placebo in 65 pazienti sottoposti a un trattamento diuretico intensivo (furosemide ad almeno 10 mg per ora) per uno scompenso cardiaco congestizio acuto, in assenza di ipernatriemia o di grave iponatriemia e con un filtrato glomerulare stimato di almeno 15 mL/min/1,73 m2. Di questi, 34 sono stati assegnati al gruppo sottoposto all’integrazione di sale (tre pastiglie da 2 g di cloruro di sale al giorno) e 31 al gruppo di controllo.

A 96 ore dall’ospedalizzazione non sono emerse differenze tra i due gruppi in termini di variazioni dei livelli di creatinina o di peso, endpoint primari dello studio, né dell’output urinario o del tasso di filtrazione glomerulare stimato. Sia i livelli di sodio nel sangue sia quelli di urea sono invece risultati significativamente più bassi nei soggetti sottoposti al placebo. Anche se lo studio non aveva le caratteristiche necessarie per misurare variazioni negli outcome clinici, poi, non sono emerse differenze tra i due gruppi in termini di durata dell’ospedalizzazione, uso di terapia renale sostitutiva a 90 giorni e tempo trascorso in terapia intensiva durante il ricovero.

Anche se lo studio era di piccole dimensioni e il campione selezionato sulla base di criteri di inclusione piuttosto rigidi (terapia diuretica continua e a dosi elevate), i risultati suggeriscono che l’importanza del sale nella gestione del sovraccarico di volume dei pazienti con scompenso cardiaco acuto potrebbe essere stata sovrastimata. Ciò è particolarmente rilevante in quanto l’aderenza a una dieta povera di sale è spesso uno dei punti di partenza della gestione di questi pazienti, anche se un approccio di questo tipo è potenzialmente in grado di determinare una riduzione dell’apporto calorico e della qualità della nutrizione o di innescare un’aumentata attivazione neuro-ormonale a livello renale.

I risultati del trial OSPREY-AHF, i quali dovranno essere replicati su campioni di studio più ampi prima di poter guidare decisioni cliniche, sono in linea con quelli di altre analisi realizzate negli ultimi anni. Lo studio randomizzato SODIUM-HF, per esempio, presentato nel corso del meeting 2022 dell’American College of Cardiology, aveva analizzato gli effetti di una dieta a basso consumo di sale su ospedalizzazioni e mortalità per scompenso cardiaco, non individuando un effetto positivo1. Una revisione sistematica del 2018 poi, relativa a 9 studi randomizzati sull’argomento, aveva concluso che le evidenze alla base dell’indicazione ad adottare una dieta a basso contenuto di sale non erano sufficientemente robuste per trarre conclusioni definitive2.




Bibliografia

1. Ezekowitz JA, Colin-Ramirez E, Ross H, et al. Reduction of dietary sodium to less than 100 mmol in heart failure (SODIUM-HF): an international, open-label, randomised, controlled trial. Lancet 2022; 399: 1391-400.

2. Mahtani KR, Heneghan C, Onakpoya I, et al. Reduced salt intake for heart failure. A systematic review. JAMA Intern Med 2018; 178: 1693-700.

Fabio Ambrosino
In collaborazione con Cardioinfo.it

Latti artificiali: ancora troppa pubblicità

Nel 2019 il gruppo editoriale del BMJ ha deciso di porre fine alla pubblicità dei sostituti del latte materno (breast milk substitutes - BMS) nelle proprie riviste. La decisione si è basata sulle molte prove disponibili dei danni alla salute causati dalla promozione aggressiva del latte artificiale, oltre che sul desiderio di sostenere il codice di condotta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che regola il marketing di questi prodotti.

Ma il codice non si limita a regolare la pubblicità sulle riviste. Riconosce anche che i professionisti sanitari e le società scientifiche sono bersaglio del marketing e vengono utilizzati come tramite dall’industria dei BMS. L’obiettivo del codice di porre fine alle relazioni finanziarie tra l’industria e la professione sanitaria è diventato sempre più esplicito nelle risoluzioni dell’Assemblea Mondiale della Sanità nel corso degli anni. Ma la sponsorizzazione è ancora molto comune tra i collegi e le associazioni, tanto che l’OMS e l’Unicef stanno sviluppando una nuova guida per le associazioni specificamente incentrata sulle conferenze1, la forma più comune di sponsorizzazione dei BMS.

La sponsorizzazione è troppo spesso definita in modo restrittivo come un finanziamento diretto che va all’associazione, «per esempio, uno sponsor d’oro o uno sponsor di platino che fa una donazione globale all’ente organizzatore della conferenza». Ma contano anche le donazioni in natura, come la sponsorizzazione di pranzi, pause, applicazioni o di una sala per l’allattamento per dimostrare il legame dell’azienda con l’allattamento al seno. «Non c’è un vero e proprio scambio di denaro, ma sostenendo le varie attività si fa conoscere il proprio nome», spiega il commento. «A volte possono fornire borse di studio per le persone che si recano alla riunione, finanziamenti per i premi o altro».

Un’area che ha suscitato molte discussioni è lo spazio espositivo, poiché il codice dell’OMS consente alle aziende di condividere informazioni purché siano scientifiche e concrete. Grummer-Strawn afferma: «Non si può parlare di sponsorizzazione. Ma a volte si vedono esposizioni massicce di aziende produttrici di formule al centro della sala espositiva, con tappeti eleganti e luci sfarzose dappertutto». Aggiunge che lo spazio espositivo non dovrebbe essere un’occasione per distribuire regali o campioni.

Van Tulleken afferma che la gestione di questi problemi è fondamentale per spezzare i legami che uniscono la professione sanitaria all’industria dei BMS. «Anche come esperti, siamo vulnerabili al potere e all’influenza del marketing», afferma. «La ricerca mostra anche che pochi di noi capiscono quanto siamo vulnerabili. L’industria delle formule sa che il marketing funziona. Funziona sui pazienti e funziona su di noi. Ecco perché ogni anno spende il doppio del budget operativo annuale dell’OMS – quasi 3 miliardi di dollari [2,67 miliardi di sterline; 3,08 miliardi di euro] – per fare marketing».




Bibliografia

1. Coombes R. Formula milk: why WHO has taken a hard stance on sponsorship BMJ 2022; 379: o2470.

Screening per il cancro del colon retto:
invitare gli asintomatici è probabilmente inutile

«Lo studio NordICC ha suscitato un intenso dibattito nella comunità medica sul ruolo della colonscopia nello screening del cancro colorettale (CRC)1. Ma forse, più di ogni altra cosa, il dibattito ha messo in luce un fraintendimento del vero scopo dello studio NordICC. Il dibattito ha anche rivelato che in medicina i punti di vista sono diventati ampiamente polarizzati e soggettivi, piuttosto che sfumati e oggettivi». L’analisi di Bishal Gyawali pubblicata su Medscape è molto utile per inquadrare obiettivi e risultati di uno studio che ha avuto un’eco importante nelle ultime settimane.

Ecco come Gyawali spiega metodi e risultati dello studio. «NordICC è uno studio pragmatico randomizzato e controllato che ha coinvolto persone asintomatiche di età compresa tra i 55 e i 64 anni prelevate dai registri di popolazione di Polonia, Norvegia, Svezia e Paesi Bassi tra il 2009 e il 2014. I partecipanti sono stati randomizzati in un rapporto 1:2 a ricevere un invito per una singola colonscopia di screening o a non ricevere alcun invito. Dei 28.220 invitati, 11.843 (42%) hanno accettato l’invito e si sono sottoposti allo screening. A 10 anni di follow-up, il rischio di CRC nell’intera popolazione intention-to-screen – noto anche come intention-to-treat negli studi di trattamento – è stato dello 0,98% rispetto all’1,2% nel braccio di controllo, mostrando un rischio relativo significativamente inferiore del 18%. Il rischio di morte correlata al CRC è stato dello 0,28% nella popolazione intention-to-screen contro lo 0,31% nel braccio di controllo, una differenza non statisticamente significativa. Il rischio di morte per tutte le cause era simile nei due bracci. Infine, nell’analisi per-protocollo, che ha incluso solo gli 11.843 pazienti che hanno ricevuto una colonscopia, il rischio di morte correlata a CRC è stato dello 0,15% contro lo 0,30% – un rischio relativo inferiore del 50%; tuttavia, il rischio di morte per tutte le cause non è stato fornito».

Successivamente alla pubblicazione anticipata dello studio sul New England Journal of Medicine, è nato un dibattito intenso e in molti hanno colto l’occasione per riaffermare la relativa utilità dello screening per il cancro del colon retto. A ben vedere, però, lo studio non era stato progettato per valutare l’efficacia dello screening con colonscopia ma per verificare se l’invito a sottoporsi a una colonscopia riducesse effettivamente il rischio di ammalarsi e morire per un CRC. La conclusione “vera” del NordICC dovrebbe essere che l’invito a sottoporsi a una singola colonscopia non è in realtà molto efficace, e certamente è meno efficace di quanto ci si possa aspettare.

Gyawali ritiene che lo studio sia ben disegnato e molto utile: «Ci permette di verificare se gli inviti allo screening colonscopico a livello di popolazione funzionano e di rispondere a un’importante domanda di politica sanitaria: i governi dovrebbero investire nello screening colonscopico a livello di popolazione? La risposta, sulla base di questi risultati, è che invitare le persone asintomatiche e a rischio medio a sottoporsi a colonscopia di screening ha un impatto limitato sul rischio di morire per cancro del colon-retto o per qualsiasi altra causa. Tuttavia, lo studio NordICC non ci dice che tutti gli screening colorettali sono inefficaci. Inoltre, non ci dice se voi, individui, dovreste sottoporvi a uno screening colonscopico».

Bibliografia

1. Bretthauer M, Løberg M, Wieszczy P, et al. Effect of colonoscopy screening on risks of colorectal cancer and related death. N Engl J Med 2022; 9 ottobre.

2. Gyawali B. A controversial trial: exposing misunderstandings of NordICC. Medscape 2022; 14 ottobre.

Le e-cig non aiutano a smettere di fumare

Le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato non aiutano i fumatori a smettere di fumare e, al contrario, possono portare chi non aveva un’abitudine al fumo a iniziare a fumare sigarette. È quanto emerge da uno studio di coorte prospettico, il primo di questo tipo in Europa, coordinato dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS e realizzato in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, l’Università di Pavia e l’Istituto per lo studio, la prevenzione e la rete oncologica (ISPRO) di Firenze. I risultati, relativi ai primi mesi dell’emergenza covid-19, sono stati pubblicati sulla rivista Tobacco Control1.

Sono stati inclusi nell’analisi 3.185 soggetti di età compresa tra 18 e 74 anni, i quali hanno fornito informazioni sul loro status di fumatori e sull’utilizzo di sigarette elettroniche e prodotti a tabacco riscaldato in due diversi momenti: ad aprile-maggio del 2020 (baseline) e a novembre-dicembre (follow-up). I ricercatori sono quindi andati a valutare i cambiamenti nell’abitudine al fumo in relazione all’uso di sigarette elettroniche e prodotti a tabacco riscaldato.

I risultati hanno messo in evidenza come i non fumatori che usavano sigarette elettroniche alla baseline avessero una probabilità maggiore di risultare fumatori di sigarette al follow-up rispetto a chi non usava questi dispositivi (RR 8,78; 95% CI: da 5,65 a 13,65) e chi usava prodotti a tabacco riscaldato (RR 5,80; 95% CI: da 3,65 a 9,20).

Allo stesso modo, chi risultava essere fumatore alla baseline e aveva iniziato a usare sigarette elettroniche (RR 1,10; 95% CI: da 1,02 a 1,19) o prodotti a tabacco riscaldato (RR 1,17; 95% CI: da 1,10 a 1,23) aveva una probabilità maggiore, rispetto ai non utilizzatori, di essere ancora un fumatore al follow-up. Tra gli ex-fumatori, poi, quelli risultati associati a una maggiore probabilità di ricadute al follow-up erano coloro i quali fumavano sigarette elettroniche (RR 4,25; 95% CI: da 2,40 a 7,52) e prodotti a tabacco riscaldato (RR 3,32; 95% CI: da 2,05 a 5,37).

«Il sospetto che questi nuovi prodotti non aiutassero a ridurre la dipendenza da tabacco era già diffuso – ha spiegato Alessandra Lugo dell’Istituto Mario Negri – tuttavia mancavano le conferme di studi prospettici, ovvero studi in grado di indagare gli effetti di questi dispositivi nel tempo. Lo studio appena pubblicato ha proprio questa caratteristica, e ci ha permesso di rilevare come sono cambiati i comportamenti di oltre 3.000 italiani nell’arco di sette mesi».




Bibliografia

1. Gallus S, Stival C, McKee M, et al. Impact of electronic cigarette and heated tobacco product on conventional smoking: an Italian prospective cohort study conducted during the COVID-19 pandemic. Tob Control 2022; 2022 Oct 7; tobaccocontrol-2022-057368.

Fabio Ambrosino
In collaborazione con Cardioinfo.it