Recensioni

“Una medicina che penalizza le donne”

Nicole Ticchi




Sarà forse per il fatto che le donne perseguono stili di vita più sani, o perché possiedono un sistema immunitario più reattivo, che storicamente sono state meno considerate quando si tratta di valutare gli effetti dei farmaci o approfondire i sintomi di una condizione patologica? La pandemia di covid-19 che stiamo attraversando ha avuto il merito di sollevare l’attenzione anche del mondo non medico sulle disparità di genere, mettendo in luce le mancanze culturali e le tecniche di una medicina che opera ancora sulla base di una visione incompleta.

Sono numerose e tutte esplorate minuziosamente in questo libro – curato da Rita Banzi e da Silvio Garattini, con la collaborazione di esperti dell’Istituto Mario Negri – le aree della salute in cui le differenze di genere hanno un’importanza cruciale e sulle quali la ricerca è stata generalista per troppo tempo. Con abbondanza di dati ed esempi, si parte dall’inclusione all’interno degli studi clinici, allo studio dell’esposizione a sostanze nocive, fino alle differenze nell’incidenza delle patologie, tutte situazioni in cui le donne hanno sperimentato per molto tempo una bassissima considerazione nella pratica medica, venendo assimilate a una copia più minuta e leggera di un modello di maschio bianco di 75 kg, eletto come simbolo di normalità. Uno stereotipo che ha sicuramente facilitato molte operazioni nella quotidianità degli addetti ai lavori, ma che non ha tenuto conto delle enormi perdite che sul lungo termine si sono verificate sia dal punto di vista sociale sia da quello economico.

Eppure, molte delle criticità derivano proprio da una delle differenze principali e sotto gli occhi di tutti: gli ormoni sessuali, che giocano infatti un ruolo chiave in diversi ambiti nella fisiologia di tutti noi. Gli effetti sul cervello, sul sistema cardiocircolatorio e sul metabolismo, per citarne alcuni, rispecchiano perfettamente quella dimensione di diversità che già dovremmo abituarci a notare anche all’interno di uno stesso genere, e di cui sembrerebbe paradossale non tenere conto quando si hanno davanti uomini e donne. Per non parlare del fatto che molte donne in gravidanza o in allattamento non hanno ancora accesso a conoscenze specifiche sul profilo di tossicità di alcuni farmaci di cui devono fare uso, o perché in fase di sperimentazione questi aspetti non sono stati approfonditi o perché non c’è da parte dei medici un’adeguata conoscenza dei dati, anche quando disponibili in letteratura.

Donne e uomini si ammalano diversamente, è risaputo. Hanno suscettibilità diverse alle patologie, anche a causa dei livelli ormonali e di come questi variano nel corso della vita; nella donna, per esempio, la menopausa rappresenta un fattore di rischio per malattie cardiovascolari e neurodegenerative. I sintomi stessi, inoltre, differiscono tra i due generi e rendono difficile prestare soccorso in tempi celeri, se le conoscenze sulla loro manifestazione sono inadeguate.

Non solo. Le donne consumano più farmaci, ma sono molto meno coinvolte negli studi clinici finalizzati a decretarne la sicurezza, con percentuali variabili – a seconda dell’ambito – che non raggiungono quasi mai il 50%: come è possibile, quindi, affermare con sicurezza l’efficacia di una sostanza se una parte integrante della popolazione è stata esclusa?

Sono numerose le evidenze, oggi, che parlano di una disparità di considerazione nel campo medico e farmacologico, al punto che nel 2018 in Italia è stata approvata e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale una legge che richiedeva la predisposizione di «un Piano volto alla diffusione della medicina di genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale in modo omogeneo sul territorio nazionale». Questo notevole passo in avanti, che rende il nostro Paese orgoglioso per un primato su una tematica così importante, dovrà necessariamente spingere la ricerca in primis, come motore alla base del progresso medico, a rivedere le metodologie per la raccolta di dati e la loro stratificazione sulla base del genere, con la consapevolezza che le conoscenze sulla diversa fisiologia non possono più essere ignorate ma vanno integrate nella pratica quotidiana di ogni studio. Un’istanza portata avanti anche dalla Commissione europea, che con il nuovo quadro di finanziamenti pone forte l’accento sulla rilevanza di una medicina più aperta alla dimensione del genere.

L’importanza di questo aspetto risiede anche e soprattutto nella necessità di una medicina più sostenibile e di una ricerca più efficiente, dal punto di vista economico, ambientale e sociale, affinché le terapie possano essere il più possibile efficaci e ottimizzate per i pazienti e le pazienti; un obiettivo che risulta difficile da raggiungere se non si hanno dati sulle diverse modalità con cui una malattia si manifesta ed evolve. Come nel caso del morbo di Parkinson e nel morbo di Alzheimer, due malattie neurodegenerative che vedono una prevalenza, profilo clinico e una sintomatologia diversi nei due sessi. Tenerne conto è necessario anche per progettare interventi di prevenzione, di cura e di assistenza più efficaci e focalizzati.

Sono necessarie quindi più donne tra chi viene studiato ed esaminato, ma anche più donne tra chi studia ed esamina, altro tasto dolente della tradizione medica come di tanti altri ambiti scientifici. Oggi, infatti, a fronte di un numero discreto di donne che operano nell’ambito della salute e che è in continuo aumento stando ai dati Istat, i ruoli decisionali ne risultano ancora poveri, con la conseguenza che il design della ricerca, le linee di sviluppo e la progettazione degli studi clinici risentono ancora di pregiudizi che non considerano abbastanza la diversità di genere. Il tema degli stereotipi è fondamentale in questo caso, perché affligge il trattamento delle donne in campo medico sia come pazienti sia come professioniste, limitando da un lato le opportunità di essere curate adeguatamente e dall’altro l’affermazione professionale. Il rischio è di alimentare – come dicono le autrici – un circolo vizioso in cui la mancanza di donne nelle posizioni apicali crea disparità anche nella partecipazione agli studi clinici, con una conseguente incapacità di individuare cure efficaci e sicure per le donne stesse. A ragion veduta, infatti, una buona parte del volume è dedicata alla professionalità nella ricerca farmacologica, perché la visione sulla medicina non può certo cambiare se non accompagnata da una rivoluzione anche nel riconoscimento delle competenze e nell’abbattimento delle barriere culturali che renda possibile una leadership inclusiva.

A partire dalle sempre più numerose conoscenze disponibili a oggi, molte delle quali sono state egregiamente raccolte in questo volume scritto a più mani da professionisti e professioniste, l’Italia e il suo rinomato ecosistema della ricerca hanno la possibilità di percorrere una nuova strada per una medicina più equa e sostenibile. Senza dimenticare che, soprattutto nella salute, riconoscere le differenze esistenti tra i generi non significa creare divisione e discriminazione, ma garantire conoscenza, inclusione e pari opportunità di cura, assistenza e qualità della vita.

“Uguaglianza di opportunità”




L’uguaglianza di opportunità è alla base di una democrazia avanzata: ma cosa intendiamo esattamente con questa espressione? Cosa vuol dire uguaglianza di opportunità? I libri più recenti di Elena Granaglia hanno nel titolo o nel sottotitolo un punto di domanda. E ogni pagina continua a interrogarci, obbligandoci con argomentazioni quasi sempre sfidanti a una costante riflessione.

Una buona istruzione soprattutto nei primi anni di vita e l’assenza di barriere nell’accesso al mercato sono considerati i fattori essenziali che favoriscono l’equità, ma siamo sicuri che siano i soli determinanti di disuguaglianza? Chi avesse qualche incertezza sarebbe sulla stessa lunghezza d’onda dell’autrice: sebbene certamente importanti, non sono sufficienti per esempio ad annullare i condizionamenti dovuti all’origine familiare, al contesto sociale nel quale si cresce o si vive, o al genere. «L’opportunità di partecipare al mercato è una delle opportunità che contano per gli individui», scrive l’autrice. «Vi sono opportunità che il mercato potrebbe offrire solo in presenza di determinate politiche, e comunque solo in parte, e opportunità che il mercato è del tutto incapace di offrire».

L’analisi di Granaglia alterna riferimenti teorici e osservazioni estremamente concrete. Un esempio: «Lo stress familiare causato dalla povertà può ostacolare la capacità di concentrarsi nello studio e abbassare le aspettative e, con esse, la capacità di aspirare. La mancanza di denaro può comportare diete squilibrate, non accesso a farmaci e prestazioni sanitarie, inadeguatezza nello spazio domestico e, pure in presenza di gratuità dell’istruzione, nelle dotazioni di beni complementari allo studio, quali libri, computer e accesso alla rete, come messo in evidenza dall’esperienza recente della didattica a distanza».

Assicurare una “buona” istruzione non è una garanzia di reddito sufficiente. Allo stesso modo, non sembra esserlo livellare il terreno di gioco della competizione per l’occupazione. Un’equità basata su un’uguale offerta di mezzi rischia di essere – per così dire – insensibile alle variabili che comunque influenzano il percorso di vita individuale. Variabili che sono direttamente dipendenti dai rapporti sociali, dal contesto e dai rapporti di potere che determinano la vita delle persone e dei gruppi sociali.

Un libro che analizza finalmente un tema di cui si parla ma raramente è stato oggetto di approfondimento: pagine che suggeriscono risposte, lasciando comunque la porta aperta al confronto e alla discussione.