Ritratto di Carlo Saitto:
la salute pubblica al centro della professione




Lavoro e formazione professionale

Quali persone hanno più influenzato il tuo modo di fare il medico?

Non so bene che razza di medico sia stato o sia diventato dall’ormai lontano 1973, e mi risulta perciò difficile riconoscere le persone che mi hanno influenzato. Dovrei attribuire meriti ma questo presupporrebbe un giudizio positivo su un’esperienza professionale verso la quale nutro invece molti dubbi e d’altra parte non mi sembra onesto imputare ad altri i miei limiti e i miei errori.

Posso forse trasformare la domanda originale e chiedermi quali siano alcuni dei medici che ricordo, che ho considerato degli esempi positivi o negativi, talvolta contemporaneamente, anche se li ho persi per strada, se la loro strada era probabilmente impercorribile e se non riesco a valutare quanto di loro mi sia rimasto addosso.

Credo che, più spesso di quanto vorremmo ammettere, ci capiti di essere il risultato inconsapevole di esperienze, di incidenti, di una molteplicità di incontri fortuiti, abbiamo tutti, credo, una grande quantità di maestri di cui non sappiamo e che non ci riconoscerebbero mai come loro allievi.

Ricordo dunque, anzitutto, il primario (si diceva così allora) del mio primo lavoro vero in un ospedale della Provincia di Roma. Un’intransigenza assoluta, arcigna, un rigore senza indulgenze, non era straordinariamente colto o aggiornato ma era straordinariamente presente e attento, un vestito inamidato intorno all’affetto per i suoi collaboratori, per i malati, per l’ospedale un po’scalcagnato del quale era, o mi sembrava, l’anima e il pilota. «Non ci sono i pazienti, diceva, ma c’è sempre un solo paziente ed è quello che hai davanti. Questa unicità non può essere oggettiva ma deve essere soggettiva e assoluta, per te nel momento in cui lo o la incontri e per lui/lei che deve pensare a quei minuti come una sua completa proprietà nella quale non ci siano problemi se non i suoi, rumori se non quelli che ascolta, ansie diverse da quelle che vive». Un monito radicale che mi ha perseguitato fino a quando ho smesso, dopo molti anni, di fare l’anestesista.

Il tuo primo approccio con il mondo della ricerca?

Il rapporto con il rigore scientifico ha invece preceduto la laurea e seguito altre vie, non solo italiane, le vie curiose di quella che era allora una specialità di nicchia, la Gastroenterologia. In uno scantinato della Clinica Medica fui esposto, senza esserne granché consapevole, al peso corrosivo della ricerca. In quel luogo quasi clandestino, un professore faceva della sua disciplina complementare uno stato sovrano in cui imporre regole inappellabili e usava l’esame come una specie di spada fiammeggiante per condannare gli studenti che, da avventurosi miscredenti, comparivano in sua presenza senza avere letto tutto il Clinical Gastroenrology di Avery Jones e almeno gli ultimi numeri di Gut. Niente era scontato e ogni affermazione richiedeva il conforto della bibliografia. Ho fatto alla fine cose diverse, ma non senza aver trascorso tre straordinari mesi al Central Middlesex Hospital di Londra, aver radicalmente rispolverato il mio inglese e scoperto che la Gastroenterologia non era solo una scienza e poteva diventare una carriera.

Quando si comincia a ricordare è difficile smettere, ma soprattutto non posso farlo senza raccontare come due anni in Africa, il caso e l’arrivo improvviso in Italia dei primi migranti albanesi mi abbiano spinto ad abbandonare l’anestesia e a incrociare il mio percorso con quello di chi è stato, per molti anni, il “capo” dell’Osservatorio Epidemiologico Regionale e, ahimè per pochi, il Direttore dell’Agenzia di Sanità Pubblica del Lazio. Un’intelligenza straordinaria e piena di pregiudizi, passionale e cinico, distaccato nella freddezza dei metodi ma provvisto di una aggressività viscerale. Ho scoperto la salute pubblica, le politiche sanitarie e la politica delle istituzioni. È lì che sono cominciati vent’anni nel frullatore, o forse in un ottovolante, ed è da lì che non riesco neppure adesso ad allontanarmi.

Come è cambiata la Medicina dai tempi in cui tu scegliesti questa professione?
O, meglio: qual è il cambiamento (o i cambiamenti) più radicale?

È cambiata la medicina è cambiato il mondo che la contiene e non possiamo certo definirci osservatori neutrali di questi cambiamenti. Credo infatti si sia modificato nel tempo anche il nostro punto di vista e rischiamo oggi di valutare quello che è accaduto secondo coordinate che sono distanti, qualche volta molto distanti, da quelle con cui misuravamo allora i nostri giudizi e le nostre aspettative. Allora la medicina era un’idea poi è diventata una professione e non di rado una frustrazione, quasi non riconosco quell’io che scelse di fare il medico e certamente non condivido oggi i perché di quella scelta. Se adesso mi interrogo penso infatti di essermi laureato con il fastidio per l’immagine della medicina che mi era stata presentata, con coerente insistenza, durante gli anni dell’università, una medicina magniloquente, paternalistica, un esercizio pretenzioso e già esausto di autorità e di gerarchie. L’intenzione preparandomi a fare davvero il medico era quella di smontare questo meccanismo, di neutralizzare il potere magico della professione impadronendomi di una tecnica e mettendola al servizio di un interesse generale. Guardando indietro mi sembra questa la ragione per la quale decisi di prendere una specializzazione in anestesia e poi una in tossicologia. Non lo sapevo, ma stavo cavalcando l’onda lunga di una trasformazione appena avviata della medicina, una trasformazione all’insegna della tecnologia che sostituiva le prestazioni alle relazioni, la dimensione individuale del trattamento a quella collettiva della clinica e della tutela, l’efficienza operativa all’efficacia, la libertà di cura al diritto alla salute.

È stata la parabola della mia vita professionale che ha seguito quella del servizio sanitario nazionale, nato nel 1978 come sistema di tutela e diventato soprattutto un sistema di produzione, come le vicende della pandemia hanno messo drammaticamente in evidenza.

Si sono in una certa misura realizzati i miei involontari auspici e, contro le mie intenzioni, l’esito mi sembra deludente.

Domanda ovvia, a questo punto: rifaresti le stesse scelte?

A parte la scelta originaria di fare il medico che è la mia vita e che non riesco a immaginare diversa, le scelte su tutto quello che è venuto dopo sono stati incidenti sostanzialmente irrilevanti. Il problema vero per me è stato ogni volta non cosa fare, perché quello capitava, ma come farlo con serietà, con onestà, con dignità e con affetto. Non sono mai riuscito a farlo in modo davvero soddisfacente, anche se posso dire in mia difesa di avere continuato a provarci.

“Dietro ogni caso clinico c’è una storia”: sei d’accordo?

Dietro ogni caso clinico c’è una persona e dentro ogni persona ci sono molte storie: è un regalo e un privilegio ascoltarle e diventarne parte con discrezione e con rispetto. Il paziente non è la sua diagnosi ma la sua storia, anzi le sue storie.

Quanto è importante per il medico saper cogliere, comprendere e raccontare queste storie?

È certamente banale e forse retorico ricordarlo ma la terapia e la guarigione riguardano la malattia mentre la cura riguarda le persone. Credo che assistere le persone voglia dire provare a essere parte delle loro storie, stabilire una relazione e provare a costruirla come una relazione di cura. Sarebbe necessaria una grande umiltà, rimpicciolirsi e far assumere all’interlocutore la dimensione che gli spetta. È un compito improbo perché la storia che ne dovrebbe venir fuori non è la nostra ma la sua.

Qual è la parte del tuo lavoro più gratificante? E quella più noiosa?

Tante parti del mio lavoro, dei miei lavori, si sono rivelate faticose, esasperanti, frustranti, inutili, ma nessuna davvero noiosa. Confesso che fare il medico da clinico, da ricercatore, da amministratore è stata sempre un’avventura intellettuale esaltante.

Qual è stato il tuo primo “esame”, non intendendo con questo gli impegni scolastici?

Da medico l’incontro con la morte di una paziente di 18 anni. Vorrei provare a spiegare meglio ma è stato un evento cataclismatico, tutto salta in aria e le certezze che avevi non si ricostruiscono più.

Qual è il tuo più grande rammarico?

Non aver avuto in molte occasioni abbastanza coraggio, avere rinunciato alla discussione non avere difeso a sufficienza i miei torti. Non considerare abbastanza il valore dell’opposizione.

Quale forma di aggiornamento ti sembra più utile?

Se devo scegliere, scelgo le riviste, ma la forma di aggiornamento che ritengo più utile è il confronto, è fare del lavoro un’occasione di discussione, formale o informale, fare domande e provare a formulare risposte, magari sbagliate. Litigare? Sì, anche litigare.

Lettura e scrittura

Qual è la tua rivista scientifica preferita?

La mia rivista preferita rimane il New England Journal of Medicine, è una preferenza piuttosto popolare di cui riconosco i limiti ma di cui non mi pento a distanza di 43 anni dal primo abbonamento.

Meglio articoli brevi con molti rimandi esterni e ricca bibliografia?

Credo dipenda dagli obiettivi della lettura, in molti casi i materiali e i metodi e anche le appendici sono la parte più interessante di un articolo non sempre però vale pena di fare la cosa più interessante considerato il tempo che si ha a disposizione e l’espansione talvolta spaventosa delle pubblicazioni scientifiche.

Le rassegne hanno ancora una loro utilità?

È difficile non trovare un posto per le rassegne nel proprio orizzonte di letture, anche se le revisioni sistematiche restano lo standard per consolidare le conoscenze.

Condividi il primato delle revisioni sistematiche come riferimento essenziale?

L’aumento esponenziale nel numero degli articoli è ormai una tendenza inarrestabile come pure l’affiorare ciclico di mode, talvolta comprensibili e giustificate. Ho l’impressione che la qualità media delle pubblicazioni sia aumentata con il loro numero anche se rimangono rare quelle che davvero ti costringono a ripensare i tuoi pregiudizi.

Come potrebbe cambiare in meglio la letteratura scientifica?

Mi colpisce, ma mi avventuro in un campo davvero non familiare, la crescita delle riviste dedicate alla sintesi delle conoscenze che interessa tutti i grandi gruppi editoriali e che mi sembra corrispondere ad un bisogno legittimo di orientamento.

Ti capita ancora di sfogliare l’edizione cartacea di una rivista o consulti la letteratura solo su internet?

La carta rimane ancora il mezzo su cui studio meglio, ma stampo spesso da internet che è diventato il mio canale principale anche per molti abbonamenti.

Sei scritto a newsletter di riviste come Lancet o BMJ?

Sì e molte altre, forse troppe, la mia sottoscrizione più recente è quella a Journal Storage (JSTOR): è una biblioteca digitale statunitense fondata nel 1995 che è stata per me una vera scoperta.

Leggi articoli scientifici sullo smartphone?

Anche.

La medicina basata sulle evidenze è ancora viva?

La medicina basata sulle evidenze è antidogmatica e credo che questo metta spesso in difficoltà l’accademia. I limiti della Ebm sono i limiti della ricerca scientifica dei suoi assunti e dei suoi strumenti e comportano l’accettazione di un’incertezza che credo venga a torto considerata un ostacolo alla trasmissione delle conoscenze.

Cosa rende difficile che sia la base della didattica nelle facoltà di medicina?

All’apertura di un anno accademico ho sentito un professore affermare che lo scopo dell’università era quello di cercare la verità ed educare alla verità. L’Ebm credo sia un’educazione all’incertezza, al valore di una discussione che continui a mantenere aperto il dubbio sui criteri, sulle logiche e sui contenuti del sapere scientifico.

Chi è un “esperto” in campo medico?

Propongo come definizione di esperto: una persona in grado di organizzare le conoscenze e dare loro un senso.

Internet e la disponibilità di mille e intelligenti pareri mette in crisi l’utilità degli “esperti”?

Sulla base di questa definizione “internet e la disponibilità di mille intelligenti pareri” hanno enormemente bisogno di esperti.

Passioni e tempo libero

Puoi dirci una cosa che ti appassiona veramente?

Leggere (a parte la Roma intendo).

In cucina preferisci stare ai fornelli o a tavola?

Ai fornelli, meglio omicida che vittima.

Quale ricetta suggeriresti ai nostri lettori?

Pasta al forno con mozzarella, provola affumicata e salsiccia (un piatto lieve ed equilibrato).

Qual è il tuo romanzo preferito?

Middlemarch di George Eliot.

Quali libri hai sul comodino?

Robert Frost, Fuoco e Ghiaccio. Chiara Giorgi, Storia dello stato sociale in Italia. Marc D. Baer, The Ottomans. Maurice Sartre, La nave di Palmira. David Graeber e David Wengrow, The Dawn of Everything. Andrea Wulf, Comparative Health Systems.

Leggi e-book?

Sì.

Qual è l’ultimo libro che hai regalato?

Enter the Aardvark di Jessica Anthony.

Scegli tre libri “classici” della Medicina…

Harrison’s Principles of Internal Medicine.

Goodman and Gilman’s: The Pharmacological Basis of Therapeutics.

Michael E. Porter and Elizabeth Olmsted Teisberg, Redefining Health Care.

Curiosità

Usi WhatsApp anche come mezzo per comunicazione di lavoro?

Sì.

Frequenti i social network come Facebook o Twitter?

No.

Col computer hai un rapporto complice o conflittuale?

Diffidente neutralità.

Qual è l’ultimo film che hai visto?

Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh.

Se dovessi scegliere un romanzo e un film che un giovane medico dovrebbe sicuramente conoscere, quali sarebbero?

Il male oscuro di Giuseppe Berto e The Loneliness of the Long Distance Runner (Gioventù, Amore e Rabbia) di Tony Richardson.

Qual è la città italiana dove vai più volentieri?

Trieste.