Recensioni




Quanta informazione è “troppa”? Se lo chiede uno dei più famosi economisti comportamentali e autore – col premio Nobel Richard Thaler – anche di un conosciutissimo libro sul nudging. La prospettiva di Sunstein è originale e interessante: in anni durante i quali la rivendicazione del diritto a essere informati è ribadita in qualsiasi contesto, il docente di Harvard ricorda che molte informazioni non ci sono gradite e – in breve – preferiamo non averle: cerchiamo quelle che ci fanno stare bene, percepiamo come utili e ci gratificano, evitiamo o ritardiamo di conoscere ciò che ci disturba o ci spaventa (una persona su due non vuole conoscere l’opinione che gli amici hanno su di lei…). «Dal mio punto di vista – spiega Sunstein – lo scopo dell’obbligo alla trasparenza dev’essere legato alla necessità di mettere le persone nelle condizioni di fare scelte informate». Una domanda centrale – di cui l’autore è ovviamente cosciente – è quali informazioni possono realmente aiutare a scegliere in modo consapevole ed è un interrogativo tutt’altro che banale perché “popolazioni” diverse per reddito, literacy, titolo di studio o condizione sociale possono porsi in maniera diversa nei confronti della conoscenza. Un altro elemento rende in molte occasioni il quadro ancora più complesso: fin tanto che non conosciamo il contenuto dell’informazione non possiamo valutare il nostro interesse a conoscerla.

Gli studi dell’autore sulle politiche regolatorie su prodotti di largo consumo sono molto interessanti. Spiegano, per esempio, che non sempre l’indicazione trasparente degli effetti o della composizione di un prodotto hanno l’effetto desiderato: «Nelle comunità povere molti pensano che i pochi soldi che si possiedono debbano essere spesi per i prodotti più calorici, e le etichette sui contenuti dei cibi possono determinare un aumento dell’obesità». Quando c’è di mezzo la salute, poi, le cose si complicano ulteriormente. Per esempio, la valutazione del rischio individuale è quasi sempre molto approssimativa: si tende a sovradimensionare i benefici degli screening oncologici così come i danni del fumo.

Quel che è certo è che la misura dell’informazione è essenziale: per esempio, qualsiasi disclosure di conflitti d’interesse funziona se è breve e comprensibile. Altrimenti non solo non raggiunge l’effetto desiderato ma complica le cose. La stessa regola vale per le etichette sui prodotti alimentari. Però, «la semplificazione è in linea di principio una buona cosa esattamente come semplificare un’informazione è una cosa tutt’altro che semplice». Allora, che fare?

L’epilogo del libro è, di fatto, un finale aperto: occorre farsi guidare dalla convinzione che una maggiore informazione non rappresenta un valore di per sé: occorre capire a quali persone la completa trasparenza può essere utile e chi invece può esserne danneggiato.




Recensire questo libro dopo averlo letto può intimidire chiunque: qualsiasi commento sarebbe troppo lungo. La scelta ideale è quella di riportare la frase di Arianna Huffington che leggiamo in prima di copertina: «Se diffondere in profondità ciò che vuoi dire è il tuo obiettivo, questo è il modo per riuscirci». Volendo spiegare di che libro stiamo parlando, partiremo dall’evidenza che si scrive troppo, si parla troppo, si presenta troppo a convegni, si comunica troppo sui social media e soprattutto si scrivono troppe mail ed eccessivamente lunghe. Difficile dar torto agli autori che segnalano questi problemi e che propongono la soluzione che hanno adottato, prima costruendo uno dei più riusciti progetti di informazione – politico.com/ – poi perfezionandolo con axios.com/.

Perché leggere questo libro? Perché nessuno resiste alla tentazione di dire e scrivere cose inutili. E proprio queste cose superflue sono quelle che creano un rumore di fondo che ci impedisce di ascoltare e leggere con chiarezza le cose più importanti. Perché non leggerlo? Perché pensare che accorciando testi e discorsi si possa riuscire a governare più facilmente la complessità del mondo contemporaneo è un’illusione: è questo il punto di vista di Clare Malone che lo ha recensito per The New Yorker (difficile pensare a un media più lontano dal pragmatismo degli autori): «Ciò che viene liquidato come parole extra sono da diversi punti di vista i dettagli capaci di contestualizzare questioni o argomenti complessi». In conclusione – scrive Malone – «in questo momento di tumulto e cambiamento – con due controverse elezioni che ci stanno addosso – è un po’ snervante che il modello di giornalismo […] sia quello dedicato a semplificare ciò che in realtà non può essere semplificato. I lettori possono desiderare brevità, ma i tempi richiedono sfumature»1.

Bibliografia

1. Malone C. The Dubious Wisdom of “Smart Brevity”. The New Yorker 2022; 19 settembre.