Dalla letteratura

Ammalarsi di Covid-19 è ancora più pericoloso che ammalarsi di influenza

Anche se la mortalità conseguente a Covid è diminuita rispetto all’inizio della pandemia, è una patologia ancora più pericolosa dell’influenza. È quanto emerge dall’analisi di 11.000 ricoveri dovuti a Covid e influenza: il 5,97% dei pazienti ricoverati affetti da Covid-19 è deceduto entro 30 giorni dall’ingresso in ospedale contro il 3,75% dei pazienti affetti da influenza1. In altri termini, secondo questa analisi – che teneva conto dell’età, del sesso, di contagi precedenti e di una serie di altri fattori – la differenza si è tradotta in un rischio di morte più elevato del 61% nel gruppo con Covid. Inoltre, Covid-19 è all’origine della maggior parte dei ricoveri ospedalieri durante il periodo di studio (8996 contro 2403 per influenza) e ha causato un numero di decessi oltre sette volte superiore (538 contro 76).

Da sottolineare però che nel 2020 i tassi di mortalità per i pazienti Covid ricoverati in ospedale variavano dal 17% al 21% a seconda dello studio, mentre nei ricoveri per influenza i tassi di mortalità sono rimasti praticamente invariati (3,8% nel 2020). «Il calo dei tassi di mortalità tra le persone ricoverate per Covid può essere dovuto a cambiamenti nelle varianti della SARS-CoV-2, all’aumento dei livelli di immunità (dovuti a vaccinazioni e infezioni precedenti) e al miglioramento delle cure cliniche», hanno dichiarato gli autori.

L’aumento del rischio di morte per influenza è stato maggiore tra gli individui non vaccinati contro la Covid (8,75% vs 3,86%) e il rischio è diminuito significativamente con il numero di vaccinazioni contro Covid-19. Prevedibilmente, gli over 65 malati di Covid presentavano un rischio maggiore di morte per influenza e – e questo è un dato meno scontato – se non ricevevano alcun trattamento ambulatoriale, per esempio nirmatrelvir-ritonavir, molnupiravir o remdesivir.

Come molti studi condotti sui database della Veteran Administration, la popolazione studiata aveva caratteristiche non facilmente generalizzabili: i pazienti avevano un’età media di 73 anni, il 71% era bianco e il 95% era di sesso maschile. Circa il 63% era fumatore o ex fumatore. Per quanto riguarda l’anamnesi vaccinale, poco meno di due terzi avevano ricevuto il vaccino antinfluenzale e tre quarti avevano ricevuto almeno due dosi di vaccino Covid, con il 55% che aveva ricevuto anche un richiamo.




Bibliografia

1. Xie Y, Choi T, Al-Aly Z. Risk of death in patients hospitalized for Covid-19 vs seasonal influenza in fall-winter 2022-2023. JAMA 2023: e235348.

Vaccino contro Covid-19: più effetti avversi per chi li aspettava

Le aspettative vuoi positive vuoi negative prima della vaccinazione Covid-19 sono associate al manifestarsi di effetti avversi nelle persone che ricevono la seconda dose di vaccino contro ­Covid-19? È l’interrogativo che ha motivato gli autori di uno studio da poco pubblicato1.

Forse è superfluo ricordare come le preoccupazioni per i potenziali effetti avversi della vaccinazione siano considerate un importante determinante del problema dell’esitazione vaccinale2. Prima di quest’ultimo lavoro uscito su una delle riviste dell’American Medical Association, i dati degli studi sui vaccini Covid-19 riportavano che gli effetti avversi nei gruppi placebo si sovrapponevano per il 76% (prima dose) e il 52% (seconda dose) a quelli dei gruppi che avevano ricevuto il vaccino3.

Lo studio prospettico di coorte da poco pubblicato ha analizzato l’associazione tra i benefici e i rischi attesi della vaccinazione, gli effetti avversi dopo la prima vaccinazione e gli effetti avversi osservati nei contatti stretti con la gravità degli effetti avversi sistemici tra gli adulti che hanno ricevuto una seconda dose di vaccini mRNA tra il 16 e il 28 agosto 20211. In Germania, presso un centro di vaccinazione statale di Amburgo, 7771 persone che hanno ricevuto la seconda dose sono state invitate a partecipare allo studio; di questo totale, 5370 non hanno risposto, 535 hanno fornito informazioni incomplete e 188 sono state escluse retrospettivamente.

Sono state raccolte 10.447 osservazioni da 1678 individui che hanno ricevuto vaccinazioni (BNT162b2 [Pfizer BioNTech] in 1297 dei casi [77,3%] e mRNA-1273 [Moderna] in 381 [22,7%]). L’età mediana dei partecipanti era di 34 anni (IQR, 27-44) e 862 (51,4%) erano donne. Il rischio di effetti avversi più gravi era maggiore per le persone che si aspettavano un beneficio minore dalla vaccinazione o che si aspettavano effetti avversi più elevati dalla vaccinazione, tra chi aveva sperimentato un carico di sintomi più elevato alla prima vaccinazione. La gravità degli effetti avversi sistemici è stata associata non solo alla reattogenicità specifica del vaccino, ma anche a esperienze precedenti più negative con effetti avversi in occasione della prima vaccinazione Covid-19, ad aspettative più negative riguardo alla vaccinazione e alla tendenza ad avere pensieri negativi invece di considerare tutto sommato accettabili dei sintomi lievi.




In conclusione, anche questo studio – su un campione non particolarmente ampio di cittadini e in una singola comunità territoriale – conferma che l’adesione alla vaccinazione contro il Covid-19 e soprattutto le reazioni successive alla vaccinazione sono fortemente influenzate da pregiudizi talvolta radicati e da una generale preoccupazione sui possibili effetti avversi.




Bibliografia

1. Schäfer I, Oltrogge JH, Nestoriuc Y, et al. Expectations and prior experiences associated with adverse effects of COVID-19 vaccination. JAMA Netw Open 2023; 6: e234732.

2. Rief W. Fear of adverse effects and COVID-19 vaccine hesitancy: recommendations of the Treatment Expectation Expert Group. JAMA Health Forum 2021; 2: e210804.

3. Haas JW, Bender FL, Ballou S, et al. Frequency of adverse events in the placebo arms of COVID-19 vaccine trials: a systematic review and meta-analysis. JAMA Netw Open 2022; 5: e2143955.

Il coaching aiuta il cardiologo a comunicare col malato?

È dimostrato che una comunicazione efficace influisce sui risultati ottenuti sui pazienti, tra cui l’adesione, la soddisfazione e le cause per negligenza, nonché sulla soddisfazione dei medici, risultato che può ridurre gli errori medici e l’abbandono del lavoro1-3.

Obiettivo di un nuovo studio uscito su JAMA Internal Medicine era valutare l’effetto di un intervento di coaching comunicativo per insegnare ai cardiologi abilità comunicative basate sull’evidenza4. Si tratta di uno studio clinico randomizzato a due bracci e condotto presso gli ambulatori di cardiologia di un centro medico universitario di Durham in North Carolina e gli ambulatori territoriali collegati. Da febbraio 2019 a marzo 2020 sono stati coinvolti 40 cardiologi e sono stati audioregistrati 161 pazienti nella fase pre-intervento e 240 nella fase post-intervento. L’analisi dei dati è stata eseguita da marzo 2022 a gennaio 2023. Metà dei cardiologi è stata randomizzata a ricevere un intervento di coaching che prevedeva tre sessioni, due delle quali includevano un feedback sugli incontri audioregistrati. I coach esperti di comunicazione hanno insegnato 5 abilità derivate dal colloquio motivazionale: 1) sedersi e stabilire un contatto visivo con tutti i presenti, 2) domande aperte, 3) affermazioni riflessive, 4) affermazioni empatiche e 5) “Quali domande avete?”.

I codificatori, ignari del braccio di studio, hanno codificato questi comportamenti negli incontri audio registrati prima e dopo l’intervento (comunicazione oggettiva). I pazienti hanno compilato un sondaggio dopo la visita per riferire la percezione della qualità della comunicazione (comunicazione soggettiva).




L’analisi ha incluso 40 cardiologi (età media 47 anni; 7 donne e 33 uomini) e 240 pazienti nella fase post-intervento (età media 58 anni; 122 donne, 118 uomini). Controllando i comportamenti precedenti all’intervento, i cardiologi nel braccio di intervento rispetto a quello di controllo avevano maggiori probabilità di fare affermazioni empatiche e di rispondere con empatia quando i pazienti esprimevano emozioni negative. Questi effetti non variavano in base all’etnia o al sesso del paziente o del cardiologo. Non si sono riscontrate differenze tra i due bracci per quanto riguarda le domande a risposta aperta o le affermazioni riflessive.

Interessante anche la reazione dei medici coinvolti, che hanno valutato positivamente l’intervento di coaching. La maggior parte lo ha ritenuto molto utile per migliorare le proprie competenze (punteggi compresi tra il 70% e l’80%): comunicazione empatica, porre domande aperte, fare affermazioni riflessive suscitando domande. Dei 20 cardiologi nel braccio di intervento, 20 (95%) hanno dichiarato di aver cambiato la loro pratica clinica dopo il coaching e 16 (80%) hanno ritenuto di essere diventati comunicatori più efficaci. La maggior parte (16 [80%]) ritiene che sia valsa la pena di dedicargli del tempo e 17 (85%) lo raccomanderebbero a un collega.

In questo studio clinico randomizzato, un intervento di coaching comunicativo ha migliorato due comportamenti comunicativi chiave: esprimere empatia e la capacità di porre domande. La comunicazione empatica è un’abilità di livello più difficile che può migliorare l’esperienza del paziente e la comprensione delle informazioni. Il lavoro futuro dovrebbe esplorare il modo migliore per valutare l’effetto del coaching comunicativo sulla percezione dell’assistenza da parte dei pazienti e sugli esiti clinici e determinare la sua efficacia in campioni più ampi e diversificati di cardiologi.




Bibliografia

1. Bertakis KD, Roter D, Putnam SM. The relationship of physician medical interview style to patient satisfaction. J Fam Pract 1991; 32: 175-81.

2. Boissy A, Windover AK, Bokar D, et al. Communication skills training for physicians improves patient satisfaction. J Gen Intern Med 2016; 31: 755-61.

3. Levinson W, Roter DL, Mullooly JP, et al. Physician-patient communication: the relationship with malpractice claims among primary care physicians and surgeons. JAMA 1997; 277: 553-9.

4. Pollak KI, Olsen MK, Yang H, et al. Effect of a coaching intervention to improve cardiologist communication: a randomized clinical trial. JAMA Intern Med 2023; 10 aprile.

Le mega-riviste sono una buona o una cattiva notizia?

In primo luogo, chiariamo di cosa stiamo parlando: le mega-riviste sono i periodici che prevedono la peer-review e che consentono l’accesso aperto a qualsiasi utente/lettore perché a sostenerle sono gli autori che pagano per la pubblicazione. La caratteristica che però le definisce “mega” è che pubblicano più di 2000 articoli in un anno solare. Ciò premesso, le mega-riviste aumentano di numero, soprattutto in biomedicina: lo spiega un articolo di Ioannidis, Pezzullo e Boccia uscito sul JAMA nel marzo 20231, molto ripreso e commentato dai media internazionali.

«Se nel 2015 undici riviste indicizzate da Scopus hanno pubblicato più di 2000 articoli in campo biomedico – spiegano gli autori – rappresentando il 6% della letteratura di quell’anno, nel 2022 erano 55 le riviste che pubblicavano più di 2000 articoli, per un totale di oltre 300.000 articoli (quasi un quarto della letteratura biomedica di quell’anno). Nel 2015, due riviste di ricerca biomedica (PLoS One e Scientific Reports) hanno pubblicato più di 3500 articoli. Nel 2022, le riviste così prolifiche saranno 26. L’accelerazione della crescita delle mega-riviste crea sia minacce sia opportunità per la scienza biomedica». Minacce e opportunità: su questo spartiacque si muove costantemente il punto di vista degli autori.

L’analisi dello studio che ha visto associati il coordinatore del Metrics di Stanford e i ricercatori della Università Cattolica di Roma è puntuale: «Le due mega-riviste lanciate per prime, PLoS One e Scientific Reports, erano anche caratterizzate da una portata editoriale molto ampia, che copriva argomenti scientifici di interesse assai generale. La maggior parte delle mega-riviste del 2022 sembra aver avuto obiettivi editoriali più mirati». Questo tipo di periodico, nonostante il numero di articoli pubblicati, riesce a ottenere un fattore di impatto rispettabile che rende le riviste appetibili (con buona pace di chi si augura che l’impact factor cessi di essere un indicatore dii qualità della ricerca)2, nonostante sia abbastanza diffusa la pratica dell’autocitazione (che può esporre i periodici a dei richiami da parte dei gestori dei database bibliografici).

Nonostante le riserve degli autori, «sarebbe tuttavia ingiusto liquidare le mega-riviste come uno sviluppo semplicemente negativo» scrivono. «Diverse loro caratteristiche potrebbero essere allineate anche a pratiche scientifiche auspicabili. In primo luogo, l’accesso aperto è un buon punto di partenza e può essere abbinato a una maggiore trasparenza. Se queste riviste adottano abitualmente pratiche di ricerca trasparenti, come la condivisione di dati, codici, protocolli e piani di analisi statistica, possono avere un effetto di trasformazione, data la loro grande produzione. Diverse mega-riviste di vecchia data e di ampio respiro (per es., PLoS One, Royal Society Open Science) hanno già sostenuto tali sforzi. È fondamentale che le mega-riviste disciplinari facciano lo stesso. In secondo luogo, la pubblicazione di lavori scientifici tecnicamente validi, indipendentemente dalla natura dei risultati, è estremamente lodevole. Offre l’opportunità di frenare i bias di pubblicazione». Gli autori sostengono che sulla spinta di questi progetti possa essere trasformata l’editoria scientifica.

Può essere, ma non è detto che questo cambiamento sia in una direzione positiva. Le mega-riviste stanno sovvertendo il significato stesso dei periodici scientifici, pensati sin dalla loro origine come strumento di approfondimento a vantaggio dei lettori e non di chi scrive3. È esemplare come in questi periodici gli articoli siano pubblicati quotidianamente e non siano quasi mai contestualizzati attraverso la pubblicazione contemporanea di editoriali o commentaries. Di fatto, sono dei contenitori di tutto e di più, sia in termini di argomenti trattati sia di qualità dei contenuti.




Bibliografia

1. Ioannidis JPA, Pezzullo AM, Boccia S. The rapid growth of mega-journals: threats and opportunities. JAMA 2023; 20 marzo.

2. Declaration on Research Assessment (DORA). https://sfdora.org/

3. Booth CC. Medical communication: the old and new. The development of medical journals in Britain. BMJ 1982; 285: 105-8.

ChatGPT e le reazioni isteriche delle riviste scientifiche

Nascono come funghi, questi strumenti di intelligenza artificiale e machine learning. Anzi di più, considerando la penuria del raccolto di porcini degli ultimi anni. Anche seguendo da lontano queste novità, è difficile non farsi delle domande sul ruolo dei ricercatori e sulla funzione che l’attività di scrivere e pubblicare riveste nel loro lavoro. In altre parole, fino a che punto dovrebbe interessarci che gli autori scrivano ogni parola della loro ricerca?

È questa la domanda che si pone Avi Staiman in un post uscito su The Scholarly Kitchen a fine marzo 20231. «Almeno nel contesto della comunicazione medico-scientifica – scrive Staiman  – il processo di scrittura è un mezzo per raggiungere il fine di trasmettere risultati importanti in modo chiaro e coerente. Se possiamo farlo in modo più rapido ed economico, allora forse dovremmo soffermarci a considerare i potenziali benefici». A supporto di questa convinzione, il fondatore della Academic Language Experts chiede al lettore cosa sarebbe accaduto se, nel bel mezzo della pandemia, ci fossimo fermati a ragionare su queste questioni ritardando il flusso di dati, documenti e articoli essenziali per mettere a fuoco l’assistenza ai pazienti. «Posso giustificare politiche più severe nei casi in cui l’atto di scrivere costituisce una parte essenziale della ricerca o negli studi etnografici e qualitativi in cui il ruolo dell’autore influisce sulla natura dello studio. Ma è necessario riflettere ulteriormente sul modo in cui legiferiamo sull’uso degli strumenti di intelligenza artificiale e su un livello più granulare».

Staiman si rivolge al lettore ponendo domande dirette. Una – centrale – riguarda il concetto di plagio, riguardo il quale esiste una ricca letteratura ma ciononostante sarebbe utile trovare un’intesa. «Se intendiamo per plagio l’uso di materiali che gli autori non scrivono a proprio nome, allora la scrittura assistita dall’intelligenza artificiale dovrebbe essere considerata un plagio. Tuttavia, se per plagio si intende prendere idee da altri e spacciarle per proprie, allora l’uso di un GPT potrebbe non essere assimilato a un plagio, in quanto questi testi sono nuovi e non estrapolati dal lavoro di qualcun altro. La scrittura accademica prevede necessariamente l’utilizzo del lavoro precedente attorno alla quale il ricercatore può aggiungere novità».

Altro interrogativo è quello su quanto in fondo sia diverso ChatGPT da altri strumenti a cui ricorrono molto spesso tanti autori. «Strumenti come Grammarly, Writeful e persino il controllo grammaticale di Microsoft sono molto utilizzati dagli autori. Se un autore utilizza GPT per scopi linguistici, perché questo dovrebbe essere dichiarato e altri strumenti no? I ricercatori di molti settori utilizzano software e strumenti per raccogliere, organizzare e analizzare i dati senza che nessuno batta ciglio».

I direttori delle riviste dovrebbero avere uno sguardo meno ottuso e incoraggiare i ricercatori a utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per rendere non solo il loro lavoro più accessibile ma anche capace di avere un impatto maggiore, continuando a educare i ricercatori su come trovare, esaminare e verificare le informazioni. «Allo stesso tempo, gli editor delle riviste devono accelerare un cambiamento della peer review, per essere pronti a gestire i confini ancora più torbidi tra fatti e finzione».




Bibliografia

1. Staiman A. Academic publishers are missing the point on ChatGPT. The Scholarly Kitchen 2023; 31 marzo.