Dalla letteratura

words - Le parole dell’innovazione in sanità

Roma, 11 maggio 2023, Centro congressi Roma Eventi

Le pagine del numero estivo della rubrica “Dalla letteratura” di Recenti Progressi in Medicina sono dedicate, come ogni anno, a un rapido resoconto degli interventi dei relatori che, da punti di vista diversi, hanno approfondito il significato e la complessità delle parole chiave discusse alla sesta riunione annuale “4words - Le parole dell’innovazione in sanità”. Gli argomenti dell’edizione del 2023 sono stati: invisibili, competenze, ripresa/resilienza, clima. Ci auguriamo così di tenere aperto il confronto e sollecitare fra i lettori la discussione sulla sanità che sta cambiando. www.forward.recentiprogressi.it




Ioana Cristea
Gli zombie trial sono tra noi

Di “zombie trial”, esordisce Ioana Cristea (Dipartimento di Psicologia generale, Università di Padova), ha cominciato a parlare John Carlisle, editor in chief della rivista Anaesthesia. Per anni aveva constatato che tra le submission e gli articoli che riceveva come editor ce n’erano alcuni che sembravano avere qualche problema, con risultati che non tornavano. Nel suo primo lavoro sul tema del 2020 aveva cominciato a chiedere i dati dei pazienti individuali ma soltanto di alcuni articoli che destavano particolare sospetto. I criteri erano, per esempio, se in passato gli autori di uno studio o autori dello stesso istituto avevano fatto ricerche con dati che si erano in seguito rivelati falsi o incoerenti rispetto al protocollo che era stato registrato o con il contenuto copiato da altri lavori dello stesso gruppo (a volte intere parti identiche), oppure con risultati troppo favorevoli. Gli studi esaminati risalivano fino al 2017, ma è dal 2019 che, da editor, Carlisle ha cominciato a richiedere anche i dati dei pazienti individuali, soprattutto nel caso dei Paesi che sottomettevano più lavori, come Egitto, Cina, India, Iran, Giappone, Corea del Sud e Turchia. Nell’articolo del 2020 definiva “dati falsi” la duplicazione di figure e tabelle, la duplicazione dei dati nelle spreadsheet che riceveva, valori impossibili o calcoli non corretti. In sostanza, nella sua definizione, uno zombie trial era uno studio in cui non soltanto vengono identificati dati falsi di quel tipo, ma in quantità tale che se lo studio fosse pubblicato sarebbe poi probabilmente ritirato.




Cristea prosegue analizzando una delle più famose ritrattazioni dell’epidemiologia nutrizionale dallo studio PREDIMED sulla dieta mediterranea. Gli editor del New England Journal of Medicine in quel caso avevano replicato l’analisi scoprendo un problema abbastanza semplice: gli autori avevano riportato le deviazioni standard come errori standard. Una volta chiesti i dati individuali, il problema, anzi, i problemi sono apparsi decisamente più rilevanti. Ne è seguita, da parte della rivista, una cosiddetta retraction with repubblication, cioè è stato chiesto agli autori di correggere gli errori. Da questa revisione è emerso un pattern: valori di significatività statistica impossibili per le variabili di baseline. L’audit ha anche scoperto però che i partecipanti non erano stati realmente randomizzati. Nello studio si prendevano in considerazione membri della stessa casa e della stessa famiglia, un errore clamoroso che comprometteva praticamente tutta la randomizzazione. Nel complesso, gli errori, almeno quelli verificati, riguardavano il 21% del campione. A questo punto non si trattava di più uno studio clinico randomizzato, quindi quei pazienti sono stati eliminati ed è stato analizzato come uno studio non randomizzato e ripubblicato con risultati molto simili.

Ci sono tanti modi di commettere la frode, riflette Cristea, e non c’è una spia universale per scoprirli in mancanza dei dati individuali. Si va dal fabbricare una parte dei dati al riutilizzarli, dal non somministrare interventi al selezionare i pazienti per convenienza (come pare sia accaduto nello studio PREDIMED), fino a usare male la statistica.

E quindi cosa si può fare? si chiede Cristea. Una possibilità è controllare i database di registrazione in cui persone della comunità scientifica fanno una specie di revisione post-pubblicazione. Non si può fare a meno poi di considerare quanto siano in generale plausibili i dati: incongruenze nell’articolo, testo uguale in più articoli, ecc.

Recentemente sono stati sviluppati anche dei veri e propri tool per aiutare a valutare se un articolo rientri nel novero dei casi sospetti. Si torna spesso al criterio della plausibilità, spiega Cristea.

In questa prospettiva, sempre più spesso si ascoltano interventi che chiedono che il lavoro di “correzione” della letteratura venga valutato come un vero lavoro accademico e quindi “premiato”, considerando il tempo che richiede e l’ostilità che attira da parte dei colleghi un’attività del genere.

In assenza dei dati dei pazienti individuali (tra l’altro difficili da ottenere) come si può riuscire a identificare gli zombie trial? E poi, anche in presenza di quei dati, che metodo validato usare per considerarli probabilmente falsi? E poi qual è la prevalenza di questo genere di studi e il loro impatto? Sono domande con risposte non scontate, tanto che ci sono stati ricercatori che hanno perfino messo in dubbio il punto di vista dello stesso Carlisle, visto che l’anestesia è un settore noto per il numero di ritrattazioni e potrebbe forse essere intrinsecamente più esposto di altri.

La proposta per avviare una soluzione, conclude Cristea, è un repository aperto e centralizzato di potenziali zombie trial, a cui potrebbe contribuire chiunque della comunità scientifica, ma soprattutto le persone coinvolte in meta-analisi e revisioni sistematiche che devono comunque impiegare parecchio del loro tempo nel cercare di capire gli studi, caratterizzarli ed estrarne informazioni. Cristea cita tutti gli studi problematici identificati nelle review Cochrane, tutti studi che vengono catalogati con un rating di high risk bias e gli studi identificati da Papyrus come problematici. Ogni sottomissione a questo registro sarebbe accompagnata da un report realizzato, se possibile, seguendo specifiche guideline e, una volta inserito, si richiederebbero i dati dei pazienti individuali.

Potrebbe essere d’aiuto, secondo Cristea, anche un sistema a semaforo. Sarebbero classificati come “verdi” i trial non zombie che verrebbero rimossi dal repository. In giallo andrebbero gli studi su cui c’è incertezza. E infine risulterebbero “rossi” quelli probabilmente zombie che così rimarrebbero in una risorsa centralizzata sempre consultabile.

«In questo modo cominceremmo ad avere un unico strumento che dia anche un’idea di quanto è prevalente il problema. Questo non vuol dire stigmatizzare, dire “sicuramente se il tuo trial è stato sottomesso c’è un problema”. Però è vero che se lavoriamo in modo separato uno dall’altro per cui io sulle mie meta-analisi ho un’idea di quali sono i trial problematici, ma tu, se magari lavori su un argomento simile, non arrivi alle mie conoscenze, non possiamo pensare di risolvere il problema», conclude Cristea.




Per approfondire

Ioannidis JPA. Hundreds of thousands of zombie randomised trials circulate among us. Anaesthesia 2021; 76: 444-7.

Bero L. Stamp out fake clinical data by working together. Nature 2022; 601: 167.

Alessio Malta

Giorgio Tamburlini
I bisogni invisibili del bambino

«I bisogni invisibili sono quelli della mente e dello sviluppo, soprattutto nei primi anni». Apre così il suo intervento a “4words - Le parole dell’innovazione in sanità” Giorgio Tamburlini, medico pediatra e presidente del Centro per la salute del bambino (Csb) onlus che promuove in Italia i programmi Nati per leggere e Nati per la musica. E sebbene il problema della sopravvivenza e della prevenzione della mortalità infantile sia di assoluta importanza, «non basta sopravvivere, bisogna vivere possibilmente nella piena potenzialità dei propri mezzi».

I bambini devono tornare a essere una priorità per la nostra società, essi «hanno tutto il diritto di essere rimessi “in testa”… Il primo, fondamentale, passo per ottenere questo è che “in testa” ai genitori vi sia, accanto alla preoccupazione di proteggere l’integrità fisica e la salute dei loro figli, il desiderio di nutrire la loro mente e di dare spazio al loro grande potenziale di sviluppo», dichiara Tamburlini.

D’altronde i dati a livello globale sulle conseguenze di un sottoutilizzo del proprio potenziale biologico di sviluppo sono drammatici, con una quota che supera in alcuni casi il 50% di bambini coinvolti i quali manifestano ritardi in una o più competenze.

In particolare ciò avviene nei Paesi poveri dove le risorse sono poche e di conseguenza lo sono le possibilità. Ma anche in Italia un sano sviluppo psichico e il benessere mentale dei più giovani sono motivo di seria preoccupazione. Basti guardare ai dati sulla prevalenza di problemi di natura psicopatologica in bambini e adolescenti sia nel periodo prepandemico (18,6%), sia – drammaticamente peggiori – durante e nel post-pandemia (dal 30% al 100% di aumento): dai disturbi del comportamento alimentare al ritiro sociale, dai tentativi suicidari al suicidio agito, i giovani manifestano una sofferenza che va ben al di là della salute e dell’integrità fisiche.

I primi 1000 giorni – ci dice Tamburlini – rappresentano un periodo cruciale per lo sviluppo del potenziale di ciascun bambino, poiché è in questa fase che i neuroni entrano in contatto gli uni con gli altri creando le sinapsi che a loro volta generano le reti neurali, ossia «l’architettura neurobiologica su cui poggiano e si sviluppano le nostre competenze». Lo sviluppo di queste reti viene ostacolato se il bambino è privato di apporti essenziali – la nutrizione come pure le interazioni significative – e/o viene esposto a “stress tossico”, in particolare, appunto, nei primi anni di vita. Accanto a una giusta alimentazione, alle proteine, ai grassi e ai nutrienti, però, è parimenti indispensabile quel nutrimento fatto di stimolo relazionale e di interazione.

Un’indagine di Save the Children, del 2019 (Indagine IDELA)1, ha utilizzato uno strumento internazionale, un indice di sviluppo generale, che misura le competenze motorie e cognitive classiche, dimostrando chiaramente che i livelli di competenza in bambini di 36-54 mesi, in tutti gli ambiti, sono – sì – in relazione con alcuni determinanti sociali noti, quali il livello di istruzione e l’occupazione dei genitori o la frequenza al nido, ma anche con altri fattori come la pratica della lettura precoce in famiglia. Questo ci dice molto sul fatto che attitudini, abitudini e comportamenti in famiglia hanno fortemente a che fare con lo sviluppo. Che il rapporto tra povertà e sviluppo sia mediato dai comportamenti genitoriali è una buona notizia, sottolinea il presidente del Csb, poiché tali comportamenti «sono aggredibili più di quanto non lo sia la povertà che richiede ovviamente tempi più lunghi» di attenuazione e risoluzione. Ci sono pertanto margine e spazio per un intervento che agisca sull’ambiente familiare che è per il bambino, né più né meno, «sempre un ambiente di apprendimento», il luogo privilegiato di quell’interazione precoce che modella lo sviluppo.

E cosa accade quando manca questa interazione? «Se il potenziale biologico del bambino è intatto, comporta un ritardo di sviluppo più globale» prosegue Tamburlini, «se invece il potenziale è già compromesso, tale mancanza agisce come comorbilità, aggravando la situazione e facendo emergere quei problemi che non sono determinati dalla biologia ma dall’ambiente».

Ma purtroppo tutt’oggi sono molti i genitori che ancora non hanno le conoscenze e le competenze giuste per capire quali siano i bisogni di una mente in via di sviluppo e che pertanto non sanno come rispondere a bisogni prioritari che rimangono disattesi.

È del 2018 un documento fondamentale prodotto dall’Organizzazione mondiale della sanità, Unicef, Banca Mondiale e altre associazioni2 e tradotto in italiano dal Csb. In esso si esplicita come i pilastri di uno sviluppo infantile precoce non siano solo quelli tradizionali (salute, nutrizione, educazione precoce, sicurezza), ma anche la genitorialità responsiva sulla quale è necessario lavorare e investire.

Ci sono diverse buone pratiche per lo sviluppo che rappresentano vettori di genitorialità responsiva: il canto, la parola e il massaggio prenatale e postnatale, le condizioni del parto facilitanti il bonding, l’allattamento al seno e l’alimentazione responsiva, la lettura, l’esperienza sonora e il gioco condivisi, la frequenza precoce al nido e un utilizzo appropriato dei device digitali.

La genitoralità responsiva va imparata e supportata attraverso interventi che riescano ad accompagnare i neogenitori in questo compito specifico, interventi che devono prima di tutto «coinvolgere attivamente i genitori ai quali non servono le prediche, ma serve la pratica, serve imparare facendo, mettersi sul tappetino assieme ai propri figli, impegnandosi in attività di qualità come il gioco, la lettura, ecc.» afferma ancora Tamburlini. Si tratta di investire con decisione in un “sistema 0-6” anni attraverso un insieme di interventi articolati e specifici.




«Potremmo avere un mondo significativamente migliore se solo si sapesse tradurre in azioni concrete quanto decenni di ricerca in varie e diverse discipline – dalle neuroscienze alla psicologia dell’età evolutiva, dall’economia dello sviluppo alle scienze sociali – ci hanno fatto comprendere sullo sviluppo del bambino nei primi anni, sui fattori che lo influenzano e in particolare sul ruolo svolto dall’ambiente familiare». È un processo che ha bisogno dell’impegno di tutti: legislatori, amministratori, operatori dei servizi che si prendono cura dei bambini e delle loro famiglie, docenti a cui è affidata la loro formazione, enti del terzo settore impegnati sui temi dell’infanzia, aziende che hanno a cuore le comunità e i loro giovani dipendenti. Perché bambine e bambini tutti abbiano «le migliori opportunità per partire bene nella vita».

Bibliografia

1. Save the children. Il miglior inizio. Disuguaglianze e opportunità nei primi anni di vita.

2. World Health Organization, United Nations Children’s Fund, World Bank Group. Nurturing care for early childhood development: a framework for helping children survive and thrive to transform health and human potential. Geneva: World Health, 2018. Versione italiana a cura del Centro per la salute del bambino.

Per approfondire

Tamburlini G. I bambini in testa. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023.

Tamburlini, G. Interventi precoci per lo sviluppo del bambino: razionale, evidenze, buone pratiche. Medico e bambino 2014; 33: 232-9.

Manuela Baroncini

Shaila Cavatorti e Davide Sari Competenze infermieristiche:
investire oggi per costruire il domani

“Come possiamo da infermieri mantenere e incrementare le nostre competenze in modo che siano coerenti con quello che servirà in futuro anche in risposta ai cambiamenti repentini che dobbiamo essere pronti ad affrontare nello svolgimento della nostra attività, come la pandemia ci ha insegnato?” È la domanda alla base del progetto avviato nel Canton Ticino proprio per comprendere su quali competenze infermieristiche sia indispensabile investire da subito per rispondere alle esigenze di domani e descritto da Shaila Cavatorti e Davide Sari, direttori infermieristici rispettivamente dell’Ospedale regionale di Bellinzona e dell’Istituto oncologico della Svizzera italiana, nel loro intervento in occasione di “4words - Le parole dell’innovazione in sanità”, la sesta riunione annuale del progetto Forward.

L’analisi del contesto sanitario è stata il punto di partenza dello studio, avviato prima della pandemia e ripreso subito dopo, che coinvolge gli otto ospedali pubblici per acuti del Canton Ticino, gli istituti oncologico, cardiologico e pediatrico, e una clinica di riabilitazione. E questo contesto è rappresentato sia dai pazienti con i loro bisogni clinici e relazionali, che riguardano anche i familiari e i caregiver, sia dai professionisti con i quali l’infermiere si interfaccia nella dimensione quotidiana del proprio lavoro. La capacità di gestire la complessità dei bisogni dei pazienti in un ambito di relazioni interprofessionali è quindi un aspetto essenziale dell’agire dell’infermiere perché la presa in carico dell’assistito sia davvero efficace.

Ecco quindi, spiegano Cavatorti e Sari, che il mantenimento e il miglioramento delle competenze infermieristiche prendono la forma di un intervento complesso, per attuare il quale è necessario muoversi seguendo quattro percorsi principali, quello della clinica, della ricerca, del management e della formazione, che non devono essere interpretati come compartimenti stagni ma come un continuum entro il quale indirizzare le specifiche competenze.

Partendo dalla competenza clinica, due sono le figure introdotte nel contesto del Canton Ticino per garantire una pratica infermieristica sempre più basata sulle evidenze: una è quella dell’infermiere specialista clinico, più datata, che agisce insieme al proprio caporeparto (il coordinatore infermieristico in Italia) in uno specifico contesto (quello del reparto o del servizio al quale afferisce); l’altra, più recente, è quella dell’infermiere di pratica clinica avanzata, che ha il titolo di master e che agisce in modo più trasversale, occupandosi di una popolazione specifica di pazienti come, per esempio, quella oncologica.




Per garantire il mantenimento delle loro competenze questi professionisti in Svizzera sono iscritti a un’associazione di categoria nazionale, che prevede il rilascio di una certificazione annuale e una valutazione quinquennale per decidere – sulla base dell’esperienza pratica maturata – se confermare o togliere all’iscritto il titolo acquisito.

E il core competence che questi professionisti devono dimostrare di avere, sottolineano Cavatorti e Sari, non riguarda solo le competenze tecniche, ma anche le cosiddette soft skill, che consentono a questi infermieri di svolgere attività di coaching con i propri colleghi, fare educazione terapeutica ai pazienti e ai loro caregiver, sviluppare un pensiero critico rispetto al proprio agire e prendere decisioni etiche.

Il secondo ambito che il progetto descrittoci da Cavatorti e Sari ha deciso di implementare è quello della ricerca infermieristica. L’obiettivo è quello di consolidare gli accordi di collaborazione con le università e di creare in ogni ospedale e istituto un ufficio di ricerca infermieristica, con ricercatori formati in grado di dare risposte basate sulle evidenze ai quesiti che sorgono nell’ambito clinico, proprio a dimostrazione di quel continuum sinergico tra i diversi ambiti di competenze al quale si accennava all’inizio.

La formazione è la terza competenza che deve essere potenziata in vista delle sfide del futuro. Anche se non può essere considerata la panacea di tutti i mali, è però fondamentale secondo Cavatorti e Sari che accompagni il percorso di crescita degli infermieri fin dall’inizio della loro carriera. Per questo nelle strutture svizzere sono state inserite le figure dei consulenti o tutor, con una loro funzione specifica e un riconoscimento salariale adeguato, il cui compito è quello di affiancare gli infermieri alle prime armi. Il tutto senza trascurare l’importanza dell’aggiornamento continuo, che avviene a livello cantonale con l’erogazione di corsi di carattere interdisciplinare e interprofessionale.

Affinché tutti questi professionisti siano messi in grado di svolgere bene e con serenità il loro lavoro è fondamentale, e qui veniamo al quarto ambito sul quale il progetto svizzero è incentrato, che chi ha il compito di coordinare tutte queste figure, in qualità di caporeparto, coordinatore infermieristico o capodipartimento, maturi anche competenze di leadership e management efficaci e adeguate a gestire team più o meno grandi in funzione delle dimensioni dell’organizzazione di appartenenza.

Per sviluppare tali competenze Cavatorti e Sari hanno spiegato di essere ricorsi nel loro progetto alla letteratura scientifica, così da individuare quali potessero essere i comportamenti attesi da parte di chi svolge funzioni dirigenziali in particolare nell’ambito delle soft-skill, e quindi delle relazioni interpersonali, della consapevolezza di sé, della comunicazione, dello sviluppo della qualità e della sicurezza delle cure, supportati da evidenze scientifiche. Questi comportamenti sono stati poi condivisi con i quadri intermedi in occasione di workshop o riunioni plenarie per avere anche la loro opinione. A questi comportamenti attesi è stato quindi associato un percorso formativo di massima, seguito da una valutazione, alla quale ogni professionista può riferirsi per colmare le lacune individuate con il proprio responsabile.

Il viaggio per costruire le competenze dell’infermiere del futuro passa quindi attraverso la clinica, la ricerca, la formazione e il management ma non può prescindere, affermano Cavatorti e Sari in chiusura del loro intervento, dalla qualità più importante sulla quale lavorare, l’intelligenza emotiva. Perché è questa intelligenza, forse più di ogni altra cosa, quella che fa sì che chi ha il compito di coordinare il lavoro di altre persone, che svolgono un ruolo di assistenza così importante e delicato, sia in grado di creare un ambiente di lavoro sereno nel quale ognuno abbia la possibilità di esprimere le proprie competenze e realizzare la propria professionalità.




Per approfondire

Bonetti L, Barello S, Franzoso-Sartorio C, et al. Protocol for a pilot and feasibility study evaluating a complex nurse-led patient education intervention to promote cancer patient engagement in healthy lifestyle (O-PHE programme). BMJ Open 2022; 12: e066163.

Cavatorti S, Pezzoli G, Righetti P, et al. Quali sono i bisogni dei caregiver di persone che vivono una condizione di cronicità: ricerca qualitativa. Professioni Infermieristiche 2021; 74: 81-8.

Mara Losi

Riccardo Falcinelli
Il dettaglio nelle immagini

Sorprende che l’argomento dell’ultimo intervento della sessione mattutina di Forward 2023, dedicata alla parola “competenza”, si concentri sulla capacità di guardare correttamente le immagini. Ma basta pensare quanto tutti, quotidianamente e in vari modi, abbiamo a che fare con le immagini, in ogni ambito, compreso quello sanitario, che il senso di straniamento è subito fugato. Perché dunque è così importante saper guardare, osservare, distinguere le immagini? Quali competenze è necessario sviluppare per porsi correttamente di fronte alle immagini, riconoscerne la tipologia, usarle e fruirne consapevolmente? Lo spiega con dovizia di particolari, in un affascinante percorso storico-artistico, Riccardo Falcinelli, uno dei più apprezzati visual designer italiani, i cui ambiti di studio, di ricerca e professionali, come dichiara egli stesso, «non hanno a che vedere con la verità, ma con quello che le persone credono e con le idee che le persone si fanno, in maniera spesso superficiale, attraverso le immagini». Anche se non ha a che vedere con la “verità”, quanto Falcinelli racconta a Forward contribuisce allo smascheramento di una serie di luoghi comuni sulle immagini, a partire da quello che attribuisce loro una potenza comunicativa di gran lunga superiore a quella delle parole, del testo scritto, e la capacità di dire molto più di quanto è possibile fare con altri sistemi. Per Falcinelli non è così. Le immagini hanno il potere di attirare l’attenzione in maniera veloce e superficiale; il rapporto che instauriamo con loro è di immediata seduzione, coinvolgimento, ma solo raramente ci si sofferma per capire cosa effettivamente stiamo guardando. Le immagini, infatti, spiega Falcinelli, funzionano su associazioni, a loro volta basate su enormi pregiudizi: per tutta una serie di ragioni evolutive, il nostro occhio si è specializzato per fare valutazioni grossolane di quello che ci circonda, non per capire (il che spiega anche il successo della pubblicità) e ciò rischia di rendere le immagini fuorvianti. Anche per tale motivo, rispetto alla massiccia esposizione alle immagini che sperimentiamo in questo momento storico, secondo Falcinelli sarebbe necessario alfabetizzare, insegnare fin dalle scuole primarie come guardare le immagini, e non necessariamente opere d’arte, che corrispondono solo a una piccola parte di tutte le immagini con cui abbiamo a che fare e che usiamo. Ecco, usare è un verbo chiave nell’analisi di Falcinelli, perché, egli sostiene, «ancor prima di essere cose che guardiamo, le immagini sono cose che usiamo e, a seconda dell’uso che ne facciamo, funzionano in maniera diversa e vanno guardate in maniera diversa»: gli acquarelli con cui Galilei rappresenta le macchie sulla superficie della luna, ad esempio, dimostrano come la sua competenza figurativa (Galilei sapeva disegnare e fare uso della tecnica del chiaroscuro) gli abbia permesso di dedurre che quelle macchie corrispondevano a montagne; ma quei dipinti non hanno nulla a che fare con l’espressività e con l’arte, erano il suo modo di costruire un rapporto con ciò che stava vedendo. Un altro esempio di come si possono usare le immagini riguarda il primo disegno del Dna riportato nel famoso articolo di Crick e Watson pubblicato su Nature nel 1953: era una “graficizzazione”, un simbolo dei doppi nastri dell’elica, ma nel tempo è stato trasformato in una rappresentazione che, resa in maniera tridimensionale grazie all’uso di tecniche pittoriche chiaroscurali, quasi fosse un cartone animato della Pixar, non ha più nulla di documentale, e trasmette in maniera distorta nell’immaginario culturale collettivo l’idea che si tratti di qualcosa di esistente che è possibile fotografare.

Completamente differente è l’esperienza di guardare un’immagine di tipo strettamente artistico (spesso il più difficile da decifrare) quale, ad esempio, una natura morta. Normalmente, ricorda Falcinelli, per entrare dentro un’immagine sfruttiamo le competenze che già abbiamo: di fronte a “La zattera della Medusa” di Géricault, in cui riconosciamo un’azione, dei personaggi che si agitano, una tempesta, ci poniamo come se guardassimo un film. Di fronte a un tavolino con tre bottiglie e un bicchiere, come dobbiamo porci, cosa dobbiamo guardare? Le nature morte, ci dice Falcinelli, vanno guardate in tutt’altra maniera, perché non sono rappresentazioni, ma assomigliano a dei diagrammi, a degli spartiti. Le diverse configurazioni di questo genere di immagine da un punto di vista della rappresentazione potrebbero risultare irrilevanti, mentre diventano rilevanti solo se le trattiamo come “composizioni”, pezzi musicali. Guardando alla natura morta come a una composizione, potremmo provare addirittura a “cantarla”: non dovremmo chiederci che cosa racconta, ma come funziona, come suona. Se di fronte a quel tipo di immagine ci domandassimo che cosa rappresenta, non vedremmo niente, perché il vero soggetto del dipinto non sono le bottiglie ma è lo sguardo dell’artista. Le innumerevoli ripetizioni di soggetti quasi identici, nelle nature morte di Cézanne o di Morandi che il relatore ci mostra, in termini filosofici vanno considerate pertanto delle “variazioni” sul guardare, quindi non la realtà ma la relazione dell’artista con la realtà espressa nel modo per lui più ragionevole possibile da un punto di vista emotivo. Non sempre, infatti, quello che guardiamo ha un rapporto con la realtà, come le immagini digitali tridimensionali che mimano in maniera illusionistica il nostro modo di guardare il visibile vorrebbero farci credere: la presenza di una piccola pennellata pura, un tocco di colore al crocevia delle diagonali della bellissima Natura morta con pesche, calice d’argento, uva e noci di Chardin (1759), che Falcinelli ci mostra in chiusura del suo intervento, ad esempio, non sembra avere un rapporto con la realtà, ma è un elemento di inestimabile e insostituibile valore compositivo, non valutabile con altri sistemi se non quelli pittorici o musicali.

E quindi come si realizza la competenza di fronte alle immagini? Falcinelli risponde che la prima competenza è rendersi conto di che cosa stiamo guardando, cioè se quel tipo di rappresentazione che ci viene presentata è una fiction, un dipinto, un documento, una rappresentazione, un simbolo, un diagramma, una metafora… Una volta, i confini tra questi elementi erano più chiari e definiti, ora sono molto più labili e la tecnologia aggiunge altre categorie, come le immagini statistiche prodotte da algoritmi generativi: sembrano fotografie e, poiché generate in base alla quantità (sempre molto disuguale) di dati reperibili in rete, possono rivelarsi molto pericolose da un punto di vista politico e sociale. Per questo oggi è tanto più necessario insegnare alle persone che cosa significa guardare un’immagine e, di fronte a un’immagine, chiedersi sempre: che cosa stiamo guardando?




Per approfondire

Falcinelli R. Figure. Torino: Einaudi, 2020.

Falcinelli R. Cromorama. Torino: Einaudi, 2017.

Silvana Guida

Michael Marmot e Rodolfo Saracci
Ripartire dal bene comune

Rilanciare con forza i sistemi sanitari nazionali, garantendo massicci investimenti e puntando finalmente anche a prestazioni di altissima qualità, oppure arrendersi alla visione di chi teorizza una “debolezza intrinseca” della Sanità pubblica e rassegnarsi a una collaborazione sempre più alla pari tra pubblico e privato? Mai come oggi – dopo la pandemia di Covid-19 e nel pieno del Pnrr – questo dilemma strategico è centrale nell’agenda politica. E Sir Michael Marmot, professore di Epidemiologia all’University College of London e direttore dell’Ucl Institute of health equity, ha voluto mandare un videomessaggio ai partecipanti al meeting “4words - Le parole dell’innovazione in sanità” proprio per prendere una posizione netta in questo dibattito.

«Sono stato recentemente intervistato alla radio da un giornalista che mi ha chiesto del sistema sanitario britannico e allora ho risposto: “Se stai ipotizzando che il governo stia cercando di distruggere il Nhs, secondo me tutte le prove sono coerenti con quell’ipotesi. Il mancato finanziamento per aumentare i posti di lavoro vacanti, l’aumento del numero di persone in attesa di cure, la scarsa disponibilità dei medici di base, i tempi di attesa in caso di emergenza. E penso che tutto questo faccia parte di una strategia di ‘svuotamento’ del settore pubblico. È il segno di una perdita di fiducia nel settore pubblico”. Nel suo libro “The rise and fall of the neoliberal order” Gary Gerstel parla sì in particolare degli Stati Uniti, ma fornisce un’analisi molto lucida di questa tendenza storica generale. In buona sostanza, dall’elezione di Franklin Delano Roosevelt nel 1933 all’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca nel 1980, le politiche statunitensi sono state essenzialmente quelle tracciate con il New Deal: ma Reagan invece ha istituito un ordine neoliberista. Ebbene, Gary Gerstel sostiene che oggi stiamo assistendo alla caduta dell’ordine neoliberista, ma esito di questo processo è anche il depotenziamento del settore pubblico. Lasciare tutto al mercato. Ci dovrebbero essere servizi privati, non servizi pubblici, questa è la linea generale», ha spiegato Marmot.

Il professore però avverte: «Ora, tutte le prove suggeriscono che il mercato non è il modo per ottenere un’allocazione ottimale dell’assistenza sanitaria. Perché i fornitori privati di servizi dovrebbero voler affrontare casi complicati? Sono molto costosi, quindi lasciamoli stare. Sì, potrebbero esserci fornitori privati, ma i fornitori privati sono lì a scopo di lucro. Quello che vogliamo fare, direi, è invece creare le condizioni per tirare fuori il meglio dalle persone. Le persone che lavorano nel Servizio sanitario nazionale in generale sono motivate dalla spinta a fare del loro meglio. Non sono motivati dal profitto, sono motivati dal migliorare la salute delle persone che assistono». Eppure, le scelte politiche di questi anni sembrano voler favorire l’aumento del peso del privato nell’assistenza sanitaria: «In Gran Bretagna i finanziamenti per la sanità pubblica sono stati ridotti drasticamente. E anche i finanziamenti per i principali determinanti sociali della salute sono stati attaccati. Quindi abbiamo assistito a un aumento della povertà infantile. Abbiamo avuto tagli alle amministrazioni locali e perciò subito un aumento della povertà delle persone bisognose di welfare. E tutto ciò contribuirà al peggioramento della salute e all’aumento delle disuguaglianze sanitarie nella popolazione. È tempo di riscoprire il senso e lo scopo del servizio pubblico. Ricordo la frase di John Kenneth Galbraith, che suonava più o meno “Ricchezza privata in mezzo a squallore pubblico”. È ora di rovesciare questo concetto. Vogliamo un settore privato vivace, ovviamente, ma abbiamo bisogno di un settore pubblico sano e vivace. E il sistema sanitario ne è una parte importante. È tempo di riscoprire il bene pubblico. E l’importanza di un settore pubblico vivo che sia in grado in primo luogo di prendere le decisioni strategiche di cui abbiamo bisogno in quanto società complesse e in secondo luogo di fornire i servizi di cui abbiamo bisogno. La sanità e la sanità pubblica dovrebbero essere in prima linea in questa riscoperta».
A commentare in sala le parole di Marmot è Rodolfo Saracci, ex presidente della International epidemiological association, già direttore dell’Unità di epidemiologia analitica dell’International agency for research on cancer di Lione e direttore di ricerca in epidemiologia presso l’Istituto di fisiologia clinica del Cnr a Pisa. «Il mio amico Michael Marmot ha citato Reagan, ma secondo me la figura storica più decisiva nel processo di conversione al neoliberismo in cui siamo ancora invischiati è stata Margaret Thatcher, la quale meglio di chiunque altro ha sintetizzato un modo di vedere il mondo quando disse “There is no such thing as society”. L’unica cosa che esiste sono gli individui e il legame di sangue all’interno della famiglia. Non c’è una società nella visione della Thatcher, ma solo la dinamica delle forze economiche lasciate libere di agire. Marmot delinea una parabola di caduta del neoliberismo e alla fine ci mette la rinascita del servizio sanitario pubblico, che è piuttosto secondo me un nuovo inizio».




Saracci ha poi aggiunto: «La situazione in cui ci troviamo, con la necessità di riscoprire il bene comune, mi suggerisce due riflessioni. La prima è l’intrinseca difficoltà di questa riscoperta: considerare il bene comune più importante di quello individuale di per sé non è una garanzia, è un’impostazione ideologica che – riflette su questo anche una pièce teatrale intitolata “Good” che è in scena a Londra – era anche tipica del Terzo Reich. Il problema non è così semplice e lo è ancora meno nel momento in cui la nostra società viene da decenni di neoliberismo che hanno inciso profondamente purtroppo a livello culturale e sociale. E anche l’uscita dall’ordine neoliberista in cui lavoriamo, dove va a parare? I sistemi sanitari nazionali vengono “svuotati dall’interno” e assistiamo – a un livello politico più generale – non alla rinascita del pubblico, ma a una ibridazione tra neoliberismo e autocrazia abbastanza inquietante. Ormai, del resto, nel mondo praticamente nessun Paese è fuori dal sistema capitalistico, quindi non sentiamo più critiche al capitalismo ma genericamente “all’Occidente”. La seconda riflessione si riferisce più specificatamente al settore sanitario: la pandemia di Covid-19 ci ha insegnato quanto la popolazione sia disponibile – e disponibile nel tempo – ad apportare cambiamenti anche radicali ai comportamenti. Dentro ai dati sulla pandemia ci sono molti insegnamenti, spero che nei prossimi anni venga portata avanti una profonda riflessione in merito, invece di processi su questioni che non hanno molto senso».

Per approfondire

Marmot M. La salute disuguale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2016.

Milanovic B. Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro. Laterza: Bari/Roma 2022.

Carra L, Vineis P. Il capitale biologico. Le conseguenze sulla salute delle diseguaglianze sociali. Torino: Codice Edizioni, 2022.

D’Abbiero M. Affetti privati, pubbliche virtù. La psiche come fattore politico. Roma: Castelvecchi Editore, 2020.

David Frati

Ginevra Bersani Franceschetti Ripartire da valori e modelli nuovi

La necessità di contribuire alla ripresa economica, culturale e sociale del nostro Paese è la premessa da cui parte Ginevra Bersani Franceschetti per approdare alla promozione di un modello totalmente nuovo di comportamento.

Il percorso compiuto enfatizza un punto di vista inedito, che parte dalla constatazione che l’immensa maggioranza dei comportamenti violenti, delinquenziali o rischiosi nella nostra società è compiuta da uomini. E questo è vero indipendentemente dalla fascia d’età, dall’origine geografica, dalla provenienza sociale, dal livello di istruzione. In qualsiasi variabile si cerchi ci sarà sempre questa proporzione: circa 80% di responsabilità maschile e 20% di responsabilità femminile. Secondo dati Istat, in Italia infatti gli uomini rappresentano il 93% degli imputati per omicidio volontario, l’83% degli autori di incidenti stradali mortali, l’87% degli imputati per abuso su minore, l’87% degli imputati per rissa, il 95% degli imputati per associazione mafiosa, il 91% per rapina e il 76% per furto. Sono il 92% degli evasori fiscali. L’89% degli usurai. Il 93% degli spacciatori. E il 96% della popolazione carceraria. In poche parole le nostre istituzioni, i nostri governi, i nostri ministeri, le nostre carceri funzionano per gli uomini.

Questo non significa ovviamente, argomenta Ginevra Bersani Franceschetti, che tutti gli uomini siano delinquenti e criminali. Ma non è più accettabile che non ci si fermi a riflettere sulla portata di queste cifre. E sul fatto che, contrariamente alle idee preconcette, non c’è nulla nella biologia, nella fisiologia degli uomini che ne giustifichi la maggiore aggressività rispetto alle donne. Sono le scienze dell’educazione e le analisi sociali che ci forniscono delle risposte e ci dicono che esiste una vera e propria acculturazione degli uomini alla violenza, al non rispetto delle regole.

Il concetto principale al centro di questa acculturazione, al centro di questa educazione, è quello della “virilità”. Un concetto che riunisce caratteristiche di forza, di potere, sia fisico che morale, e che si esprime con comportamenti di dominio, di violenza, di discriminazione, di rifiuto, di non rispetto delle regole.




E questo a discapito della società di diritto nella quale viviamo, a discapito delle donne, a discapito anche degli stessi uomini. E il problema è che ancora oggi educhiamo i maschi a questo valore della virilità, in modo consapevole o, e soprattutto, molto più spesso inconsapevole, perché di fatto noi stessi siamo stati educati ed educate attraverso questi schemi e li trasmettiamo senza volerlo.

Sono diversi gli esempi che si possono fare: gli adulti, genitori, famiglia o in generale l’entourage di un bambino, apprezzano molto di più la forza fisica di un figlio maschio che di una figlia femmina, esprimono più raramente i propri sentimenti con il figlio maschio, che viene spinto a essere forte, dominante. Ancora oggi nei libri e nei film la stragrande maggioranza degli eroi è rappresentata da maschi; uomini che praticano violenza, spesso legittimata dal fatto di compiere atti eroici e salvifici.

E anche se questi modelli sono messi in discussione molto più di quanto non si facesse anche pochi decenni fa, la cultura espressa dalle istituzioni, dalla scuola, nelle famiglie non sta cambiando a sufficienza.

Di questa educazione alla virilità, prosegue Ginevra Bersani Franceschetti, siamo tutti vittime. Innanzitutto le donne, attraverso una violenza sistemica che fa sì che oggi in Italia muoia una donna ogni 2,5 giorni sotto i colpi del suo partner o ex partner. Ma anche gli uomini pagano un prezzo alto. A 14 anni i maschi hanno il 70% di probabilità in più delle femmine di morire in un incidente. L’85% dei decessi per incidenti stradali in Italia riguarda gli uomini. La maggioranza dei casi di tumori legati alla dipendenza da tabacco e da alcol è costituita da uomini. Se prendiamo l’intera popolazione maschile è da 2 a 3 volte più probabile che gli uomini muoiano prematuramente, cioè prima dei 65 anni, per una morte evitabile, cioè legata a un comportamento a rischio.

La virilità ha quindi un costo sulla salute e sulla vita degli uomini. La spesa in euro che è sostenuta ogni anno dallo Stato e dalla società italiana per far fronte ai comportamenti antisociali degli uomini è stata definita “il costo della virilità” e non è altro che una semplicissima differenza matematica tra quello che lo Stato spende per i comportamenti antisociali degli uomini e quello che spende per i comportamenti antisociali delle donne. Non è più possibile, sottolinea Bersani Franceschetti, non considerare l’importanza della cifra che lo Stato italiano risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne.

Si parla di una cifra intorno ai 98 miliardi di euro all’anno. Nello specifico abbastanza soldi per finanziare un po’ meno della metà del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Se educassimo i maschi come già educhiamo metà della popolazione avremmo la possibilità di costruire una società più ricca e più pacifica. Grazie a un’educazione non “virilista” degli uomini risparmieremmo almeno 100 miliardi di euro all’anno che potremmo investire nel sistema pensionistico, negli ospedali, nella ricerca, nella cultura in generale. Ci sarebbero cambiamenti notevoli per la vita dei cittadini, perché i livelli di delinquenza si abbasserebbero drasticamente. Stupri, furti, aggressioni verrebbero radicalmente ridotti e l’insicurezza non sarebbe più un problema. L’auspicio conclusivo di Bersani Franceschetti è che l’abbandono del modello “virilista” dell’educazione possa porre le basi di una società non solo più pacifica, ma anche più ricca.




Per approfondire

Bersani G, Peytavin L. Il costo della virilità. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023.

Martina Teodoli

Paola Mercogliano
Tutto come previsto: è l’ora di consapevolezza e mitigazione

Sembrerà contraddittorio, ma non è chi si occupa di clima a dover parlare di cambiamento climatico. «Il cambiamento climatico è un problema che dovrebbero affrontare i sociologi» dal momento che è l’aspetto comunicativo quello più rilevante, «noi climatologi abbiamo fatto tanto, non siamo in grado di raccontare la crisi che stiamo vivendo». È con questo appello che si apre la sessione sul clima del sesto appuntamento annuale del progetto Forward – “4words - Le parole dell’innovazione in sanità” –, affidata a Paola Mercogliano, responsabile della divisione di ricerca Rehmi (Modelli regionali e impatti geo-idrologici) della Fondazione Cmcc, e membro del Consiglio della Società italiana di climatologia. Due i punti chiave su cui Mercogliano si sofferma: il cambiamento climatico è un fenomeno globale ma non è uguale per tutti. Oggi, infatti, è diverso a seconda della zona che si osserva. Per esempio, il Mediterraneo rappresenta un’area particolarmente colpita: si sta riscaldando più velocemente rispetto al resto del mondo, l’innalzamento del livello del mare sta dando luogo a fenomeni estremi, come cicloni simil-tropicali, i cosiddetti “medicane” (mediterranean hurricane). Ma cosa significa nella vita di tutti i giorni? Quale è l’impatto del cambiamento climatico su città come Milano, Roma o Palermo? Quale, invece, quello sulle infrastrutture su scala locale? Per rispondere occorre far riferimento a «una scienza nuova che fa passi da gigante e ci permette di cambiare un po’ la narrazione del cambiamento climatico». Una narrazione diversa che ne parli non attraverso le temperature o le precipitazioni, ma attraverso l’agricoltura, le infrastrutture, il turismo sulle Alpi, le alluvioni o la siccità». Insomma, attraverso gli impatti. Analizzando questi scenari – realizzati per ipotizzare come potrebbe evolvere la nostra società in termini di crescita demografica, utilizzo del suolo o dell’energia – è possibile valutare quanto le nostre abitudini contribuiscano a emettere gas climalteranti in atmosfera. Sulla base di questi modelli riusciamo a ipotizzare come cambierà il clima. Pertanto, «sta a noi decidere quali di questi scenari potremmo adottare». La buona notizia quindi, afferma la climatologa, «è che siamo ancora in tempo». La cattiva è che occorre tenere in considerazione una certa inerzia del sistema, quindi anche se, ipoteticamente, da domani mattina iniziassimo a non emettere più gas in atmosfera gli scenari non cambierebbero almeno per i prossimi vent’anni.

«Stiamo andando incontro a un aumento generalizzato delle ondate di calore, del pericolo incendi soprattutto sulle Alpi e sugli Appennini, un incremento del numero di episodi di siccità» e su questo forse la realtà sta andando più veloce delle previsioni. «Due settimane fa parlai di siccità a Faenza» prosegue la climatologa, «e il giorno dopo ci fu un’alluvione». Ebbene, «queste dinamiche opposte fanno parte del cambiamento climatico perché il fatto che la temperatura sia più elevata fa sì che l’atmosfera abbia una maggiore capacità di immagazzinare umidità, e questo provoca un cambiamento nel regime di pioggia, come periodi molto prolungati di siccità. Quando arriva una perturbazione, la quantità di acqua precipitabile è maggiore ed è così che si verificano eventi fortemente impattanti. Queste dinamiche alternate, soprattutto sul Nord Italia, non solo sono molto frequenti ma aumenteranno». Un altro fenomeno atteso, oltre all’aumento del livello del mare, è quello delle mareggiate estreme soprattutto nell’alto Adriatico, nel Mar Ligure e nell’alto Tirreno, mettendo ovviamente a rischio tutte le infrastrutture costiere.

Gli impatti sono sotto gli occhi di tutti: ridotta disponibilità d’acqua, aumento della siccità, perdita di biodiversità, incendi boschivi in aumento, turismo ridotto, aumento degli effetti sulla salute delle ondate di calore, riduzione dell’energia idroelettrica e delle aree agricole, espansione degli habitat per i vettori di malattie. Sulla base delle analisi fatte, gli impatti maggiori si avranno sulle infrastrutture, «perché non siamo pronti a gestire il clima che cambia e non lo saremo neanche dopo gli interventi previsti dal Pnrr, perché i costi per mettere in sicurezza tutte le infrastrutture, come dighe o aeroporti, sono eccessivamente elevati. Non per ultimo, il cambiamento climatico andrà a incidere sull’aumento delle diseguaglianze, fra chi può rispondere e chi non può rispondere all’emergenza. «È vero che il clima, come detto prima, è diverso a seconda della città che noi consideriamo, ma è vero anche che il cambiamento climatico si modula tantissimo sulla vulnerabilità. Infatti le misure che vengono intraprese per ridurre l’impatto del cambiamento climatico, in realtà, non vengono decise sulla base di quanto cambiano le precipitazioni o le temperature, ma sulla base dell’effetto che quel cambiamento provoca su quella popolazione su quella zona, modulandola sulla sua vulnerabilità, cioè sulla sua propensione a reagire in maniera negativa a quel cambiamento. Il cambiamento climatico è un fatto, altro fatto è che ci sono zone d’Italia che hanno una vulnerabilità maggiore rispetto ad altre. Su questo sicuramente si può lavorare cercando di ridurre il rischio». E, come nell’incipit del suo intervento, Mercogliano si rivolge al pubblico con un appello: «Abbiamo fatto un grandissimo passo in avanti ma adesso bisogna passare all’azione e questo coinvolge tutti, giornalisti, scienziati, medici, veterinari, economisti, chi legifera, mi sento di dire che nessuno si può chiamare fuori da questa problematica e quindi vi invito all’azione».




Per approfondire

Fondazione Cmcc. Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in sei città italiane. 2021. https://www.cmcc.it/rischio-clima-citta-2021

Fondazione Cmcc. Analisi del rischio. I cambiamenti climatici in Italia. 2020. https://www.cmcc.it/it/analisi-del-rischio-i-cambiamenti-climatici-in-italia

Giada Savini

Paolo Vineis
Investire nel futuro: l’ambiente viene prima del profitto

L’Antropocene, come ormai si tende a chiamare la nostra epoca, ha visto registrare molti importanti passi in avanti per l’umanità, ma il risvolto della medaglia è che i ragguardevoli traguardi raggiunti hanno comportato una compromissione dell’ambiente. È possibile frenare lo sfruttamento incontrollato delle risorse e governare in modo più virtuoso il cambiamento? Ne parla in conclusione del meeting “4words - Le parole dell’innovazione in sanità” Paolo Vines, che insegna epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e fa parte del comitato scientifico della Regenerative Society Foundation.

«Finora, con un certo ottimismo, abbiamo assistito a un miglioramento di molti degli indicatori sanitari, a un aumento della speranza di vita e una diminuzione della povertà a livello globale, con poche eccezioni nel pianeta. Purtroppo, però, il raggiungimento di questi obiettivi sembra essersi verificato producendo fenomeni negativi quali il cambiamento climatico, l’aumento del livello del mare, la progressiva scomparsa delle specie, che hanno implicazioni profonde per la salute umana. Se è vero che già ora si stanno patendo gli effetti di questi fenomeni, è ovvio che tali effetti saranno moltiplicati per le generazioni future» esordisce Vineis, che prosegue affrontando in rapida successione i temi su cui appuntare l’attenzione per cercare di investire nel futuro.

«Il primo drammatico fenomeno è stata la perdita di biodiversità: anche se molte delle stime, come per il cambiamento climatico, sono affette da incertezze, si parla di una perdita del 70% dell’indice di biodiversità tra il 1970 e il 2018. Al di là delle cifre, è innegabile che si tratti di un fenomeno con importanti ricadute a livelli molto diversi: per esempio riguarda anche il microbioma, che ha un effetto diretto sulla salute umana». E prosegue: «Altro fenomeno ben conosciuto è quello della deforestazione, con relativa urbanizzazione e costruzione di strade: la progressiva intrusione della specie umana all’interno della cosiddetta “wilderness”. Qualcuno ha coniato un’espressione efficace e cioè che la specie umana è l’unica che ha fatto dell’intero pianeta la propria nicchia ecologica. Con una certa irresponsabilità, aggiungerei, perché si ha una perdita di specie non solo in assoluto, ma anche in termini relativi. Per esempio, nelle foreste pluviali soggette a deforestazione sopravvivono soprattutto i roditori di piccola taglia e spariscono più facilmente le specie di taglia più grande. E le specie più resilienti, appunto i roditori e i famigerati pipistrelli, sono anche quelle che trasmettono più facilmente malattie infettive. Altro fenomeno è quello della migrazione delle specie: venendo meno il loro habitat, alcune specie migrano altrove e si verificano commistioni impreviste. E questo porta a uno scambio di agenti patogeni, fondamentalmente virus».

A proposito delle commistioni tra specie che non avevano mai interagito prima, Vineis sottolinea: «Anche i commerci internazionali legati all’utilizzo delle risorse dei Paesi a basso reddito lasciano un’impronta sotto forma di “importazione” di zoonosi che sono endemiche nei Paesi poveri o in via di sviluppo, anche se questo non è l’unico impatto. Una curiosità: gli scambi di agenti infettivi tra specie animali si verificano anche al Polo Nord, dove lo scioglimento dei ghiacci provoca una migrazione delle foche che vengono a contatto con le lontre e trasmettono loro il virus del cimurro. Non è un virus che si trasmette all’uomo, però dà un’idea degli scambi che si possono verificare tra specie». Non è invece una curiosità, afferma Vineis, l’impatto della perdita degli impollinatori sulla salute umana: «È difficile stabilire una gerarchia tra i problemi emergenti, ma questo è sicuramente molto grave e, se si verifica in modo radicale, può avere un impatto sulla nostra stessa sopravvivenza».

Altro problema rilevante è la diffusione di funghi come la Candida a causa dell’utilizzo in agricoltura di fungicidi che hanno la stessa struttura chimica di antibiotici, con la conseguente comparsa di antibiotico-resistenza. E a proposito di fungicidi, antibiotici e sostanze usate in agricoltura, Vineis mostra un grafico – elaborato da un gruppo di autori di Rochester che si occupano di salute planetaria – che fa vedere come negli ultimi decenni sia aumentata esponenzialmente l’immissione di sostanze chimiche nell’atmosfera e nell’ambiente. Molte di queste sostanze sono ben note, come il benzene e il toluene, ma assai rilevante è anche l’impatto delle plastiche. «Il punto che sollevano in particolare gli autori» commenta Vineis «è il fatto che con gli strumenti a nostra disposizione, per esempio legislativi, non riusciamo a valutare il rischio tossicologico di queste sostanze chimiche, quindi dobbiamo escogitare nuovi sistemi per capire che impatto abbiano sulla salute e sull’ambiente. Per quanto riguarda il cambiamento climatico in Italia, non possiamo poi trascurare il caso della siccità, che mostra come siamo ancora terribilmente indietro dal punto di vista politico. Alcune stime pubblicate su Epidemiologia & Prevenzione dicono che, sulla base dell’attuale velocità, ci vorranno 79 anni per decarbonizzare l’intero sistema: questo è chiaramente inaccettabile. E sempre a proposito di compromessi tra obiettivi divergenti, la popolazione mondiale è in continuo aumento, cosa che porta alla necessità di produrre più cibo. Questo può avvenire o estendendo i terreni destinati all’agricoltura o attraverso un aumento della produttività dell’agricoltura. Allo stesso tempo, però, bisogna orientarsi verso un’agricoltura più rispettosa dei suoli, organica o rigenerativa. Ma l’agricoltura organica ha una produttività inferiore rispetto a quella convenzionale, inoltre l’estensione dei terreni agricoli va a scapito della biodiversità. Eccoci di nuovo a dover conciliare delle situazioni conflittuali cercando di far fronte a problemi complessi. E francamente, al momento, non vedo grandi soluzioni».

Vineis passa poi ad alcune riflessioni conclusive, proponendo un lessico per una nuova politica ambientale: «Ho già detto che l’uomo ha colonizzato l’intero pianeta, raggiungendo peraltro dei risultati positivi, tuttavia questo è stato fatto in un modo che è stato definito “delle dipendenze”. Ogni nuova tecnologia, infatti, genera a valle delle necessità. Basti pensare allo sviluppo delle automobili, che ha generato cementificazione, costruzione di strade e autostrade, tutto un indotto da cui tornare indietro è estremamente difficile. Questo viene chiamato degli specialisti “path-dependence”, dipendiamo cioè da un percorso che è stato caratterizzato in un certo modo e in una certa direzione. Si tratta di un’enorme ipoteca della tecnologia, quindi cambiare per mitigare il cambiamento climatico non è facile. Un altro concetto che vorrei proporre è che non c’è sostenibilità senza rigenerazione. Cosa vuol dire? Si parla molto di sostenibilità, però siamo arrivati a un punto in cui nel mese di luglio abbiamo esaurito tutte le risorse dell’anno. In qualche modo dobbiamo pensare a ricrearle, altrimenti nell’arco di qualche anno o decennio saranno esaurite. Questa è un’enorme responsabilità che abbiamo verso le future generazioni e parlare di sostenibilità non è sufficiente. Bisogna affrontare anche l’argomento della sostenibilità della rigenerazione, cioè di come ricreare le risorse che sono state depauperate. Non possiamo tornare all’Olocene, dobbiamo fare qualcosa all’interno dell’Antropocene, qualcosa che sia di tipo rigenerativo».

E qui entra in gioco il ruolo della finanza e delle imprese: «Naturalmente le imprese sono quelle che producono la maggior parte del reddito, ma al tempo stesso sono largamente responsabili della situazione ambientale attuale. Finora sono stati introdotti meccanismi finanziari insufficienti. Le banche propongono dei fondi chiamati Esg, sigla che sta per “environment, social, governance”. Si tratta di fondi di investimento in attività che abbiano un impatto non troppo negativo sull’ambiente e dal punto di vista sociale. In realtà sono del tutto inattendibili. L’Economist ha dedicato un approfondimento a questo problema intitolandolo: “C’è bisogno di pulizia”. Perché questi investimenti sostenibili non funzionano? Perché i rating degli investimenti dei bond sono effettuati da aziende private su dati forniti dai produttori sui quali non c’è il minimo controllo. Ci sono però delle alternative. Sono in studio nuove modalità di valutazione dei fondi di investimento come il “long-term stock exchange”, che misura la redditività non in termini di ore o giorni ma di anni e si assume quindi un impegno a lungo termine anche relativamente all’impatto ambientale. Inoltre, c’è una crescita di quelle che si chiamano B-Corp: imprese che hanno nel loro statuto clausole che prevedono di mettere il profitto al secondo posto dopo il rispetto dell’ambiente. E poi la grande novità attuale è quella della Commissione europea, che ha introdotto la Corporate Sustainability Reporting Directive, una direttiva che impone alle aziende di notificare in modo molto analitico l’impatto ambientale di ciò che producono e che include la natura come “silent stakeholder”. In sostanza, si dovranno valutare non soltanto la bontà finanziaria di un’azienda e la credibilità dei suoi conti, ma anche i suoi impatti ambientali. Vedremo se e come funzionerà. Anche se abbiamo sbagliato, forse c’è ancora qualche speranza» conclude Vineis.

Per approfondire

Vineis P. Crisi climatica, comunicazione, finanza. Recenti Prog Med 2023; Suppl Forward 28; S9.

Vineis P, Savarino L. La salute del mondo. Milano: Feltrinelli, 2021.

Bianca Maria Sagone