I vaccini per il Covid, la terapia Di Bella, la medicina alternativa e gli “esperti”: a chi credere?

Paolo Bruzzi1

1Già Direttore SC Epidemiologia clinica, Irccs Ist - Istituto nazionale per la ricerca sul cancro, Genova.

Pervenuto il 23 maggio 2023. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. Le recenti discussioni sull’efficacia e sui presunti danni causati dai vaccini per il Covid-19 ricordano quanto successo 20 fa anni con la terapia Di Bella, e da sempre con le terapie alternative, riproponendo un dilemma che, con la diffusione delle comunicazioni mediatiche, sta diventando sempre più attuale: chi ha titolo per esprimere opinioni su argomenti tecnici in ambito sanitario, degne di essere prese in considerazione? La risposta sembra scontata: “gli esperti”. Ma chi decide chi sono gli esperti, e come si fa a riconoscerli? Per quanto possa sembrare paradossale, l’unico sistema praticabile è quello di affidare l’identificazione degli esperti agli esperti stessi, gli unici in grado di riconoscere chi può fornire risposte affidabili su uno specifico problema. È un sistema con enormi difetti, ma che in medicina ha il vantaggio di costringere i suoi interpreti a confrontarsi con le conseguenze delle loro scelte, introducendo quindi un meccanismo virtuoso di feedback con effetti positivi sia sulla selezione degli esperti sia sui meccanismi decisionali: è quindi un sistema che nel medio-lungo termine sembra funzionare, ma che di fronte a una situazione di crisi acuta è di scarso aiuto per chi esperto non è, ma necessita dell’opinione di un esperto.

Covid-19 vaccines, Di Bella therapy, alternative medicine and the “experts”: who to believe?

Summary. The recent discussions on the efficacy and on the alleged harms caused by Covid-19 vaccines remind us of what happened 20 years ago with the Di Bella therapy, and always with alternative therapies, re-proposing a dilemma which, with the diffusion of communications though various media, is becoming increasingly topical: who is in the position to express opinions on technical topics in the health sector, worthy of being taken into consideration? The answer seems obvious: “the experts”. But who decides who the experts are, and how do you recognize them? As paradoxical as it may seem, the only practicable system is to entrust the identification of experts to the experts themselves, the only ones able to recognize who can provide reliable answers on a specific problem. It is a system with huge flaws, but which in medicine has the advantage of forcing its interpreters to deal with the consequences of their choices, thus introducing a virtuous feedback mechanism with positive effects both on the selection of experts and on the decision-making mechanisms: it is therefore a system that seems to work in the medium-long term, but which in the face of an acute crisis is of little help to those who are not experts, but need the opinion of an expert.

Premessa

Non ho mai partecipato ai dibattiti (spesso demenziali) sui media che seguono articoli e blog “laici” che trattano di questioni mediche, perché credo che la competenza sia un valore imprescindibile, e che le discussioni si debbano svolgere tra persone che hanno un’adeguata preparazione sull’argomento, i cosiddetti “esperti”. Infatti non capisco perché quando si discute su come riparare un computer, o guidare un jet, nessuno che non sia esperto ha diritto di parola mentre quando si discute di medicina tutti si sentono autorizzati a dire la loro (un po’ come succede con il calcio).

Discussioni in medicina: chi ha diritto di parola?

In medicina, il parere degli esperti “ufficiali” entra periodicamente in contrasto con l’opinione di una fetta importante della società, magari non maggioritaria, ma molto rumorosa e spesso influente: per fare qualche esempio è oggi il caso dei vaccini per il Covid-19, 20 fa anni della terapia Di Bella, e da sempre delle terapie alternative. Sono tre situazioni molto diverse ma che hanno in comune una forte sfiducia nei confronti della ortodossia medica, spesso con il supporto di medici che si pongono al di fuori di questa ortodossia. Questi medici eretici che fanno “outing” sono in realtà la punta di un iceberg il cui corpo, interno al mondo della medicina, è rappresentato dalla scarsa fiducia reciproca tra i diversi gruppi di specialisti, o anche tra gli specialisti e i cosiddetti “medici generici”. In realtà la medicina moderna è così complessa che nessun medico è in grado di esprimere competenza in tutti gli ambiti, e se esce dal suo ristretto campo di conoscenza rischia di dire (e spesso dice) grosse scemenze. È il rischio che correrebbe, per esempio, un ortopedico che mettesse in discussione le attuali terapie antitumorali, o un immunologo che desse consigli e sputasse sentenze su diete e rapporti tra nutrizione e malattie. Al contrario, anche il medico generalista esprime competenze specifiche, proprio perché generali, e come tali preziose e degne del massimo rispetto.

Sta di fatto che da sempre le problematiche sanitarie sono oggetto di discussioni molto accese che travalicano l’universo dei professionisti della medicina per coinvolgere l’intera società. Questo è assolutamente giusto quando si tratta di temi generali, che implicano orientamenti politici, priorità sociali o problematiche etiche. Diversa è invece la situazione quando si tratta di una specifica questione tecnica, come può essere l’efficacia di una terapia, o il rapporto tra rischi e benefici di un intervento preventivo. Chi può partecipare a una discussione su argomenti di questo genere? È giusto che persone chiaramente prive di alcuna competenza, come per esempio giornalisti, esprimano loro opinioni su argomenti tecnici, anche pubblicamente e con una certa energia? Questo tema è diventato di particolare attualità quando è esplosa l’epidemia di Covid-19, con il florilegio di discussioni (spesso da bar) che hanno dominato tutti i media. In realtà, ci sarebbe un accordo abbastanza diffuso sul fatto che le opinioni rilevanti in questi ambiti dovrebbero essere quelle degli “esperti”. Quello che viene posto, semmai, è il problema dell’indipendenza (e quello, collegato, della trasparenza), con particolare riferimento ai conflitti di interesse e alle pressioni esterne, da cui nasce l’esigenza che il dibattito su temi sanitari non debba restare interno al mondo sanitario ma debba coinvolgere tutti i portatori di interessi, di qualsiasi tipo (i cosiddetti stakeholder). Se però le discussioni riguardano argomenti che richiedono competenze tecniche, anche la doverosa partecipazione a queste discussioni delle rappresentanze dei pazienti, o di altri stakeholder, dovrebbe essere affidata a persone con un’adeguata formazione nel campo specifico (di nuovo, gli “esperti”)1. Giuseppe Traversa, su Recenti Progressi in Medicina1, ha di recente affrontato il problema della responsabilità degli esperti (incidentalmente, condivido tutto quello che ha scritto), accennando solo al problema della loro selezione e valutazione, che è invece quello di cui voglio discutere.

Chi e come decide chi sono gli esperti?

Il sistema utilizzato fino a oggi è quello del riconoscimento da parte della stessa comunità degli esperti. Suona paradossale ma è così: gli esperti sono quelli che tra loro si riconoscono come tali, e che, a loro volta, decidono chi altro può essere considerato esperto.

È un sistema con difetti molto evidenti.

Innanzitutto, è autoreferenziale e tende a difendere lo status quo della conoscenza; una volta instaurata come autorità di potere, una comunità di esperti cercherà di difendere l’equilibrio raggiunto anche in termini di paradigmi scientifici dominanti: non necessariamente gli obiettivi e i principi che condizionano i comportamenti di una comunità di esperti corrispondono agli interessi generali della società che la esprime, piuttosto che a un’esigenza di autoconservazione e a interessi corporativi.

In secondo luogo, questa comunità non è democratica perché l’autorevolezza, e quindi l’influenza, dei suoi membri può essere molto variabile, con conseguenze prevedibili sugli equilibri interni. D’altra parte, lo stato di esperto non è binario (= sì/no), perché ci sono esperti di diverso livello, alcuni con una riconosciuta e indiscutibile autorevolezza in un campo specifico (le cosiddette “autorità”) e altri che, pur conoscendo bene la materia, non hanno questo riconoscimento.

Infine, anche tra esperti, il riconoscimento di “esperto” non è univoco e universale: ci sono esperti in un campo che sono un po’ meno esperti in un altro campo, anche molto affine: per fare qualche esempio, ci sono infettivologi esperti in virus e altri esperti in batteri; oncologi con competenze di altissimo livello in un gruppo di tumori che sanno meno di altri tumori; chirurghi “generali” che hanno sviluppato grande esperienza in certi interventi praticandone altri molto più raramente. Ci sono poi esperti complementari (per es., oncologi, anatomopatologi e chirurghi). Questo fa sì che anche in un campo specifico ben identificato (per es., il trattamento del tumore XX in stadio YY), il riconoscimento di un esperto dipenda dalla specifica comunità di “esperti” che conferisce questa qualifica.

Si può misurare la competenza?

Si deve però ammettere che qualsiasi altro sistema sarebbe probabilmente peggiore, perché la competenza richiesta a un esperto non è misurabile: nella letteratura recente (che esula completamente dai miei ambiti di competenza e che conosco molto poco) si fa spesso riferimento alla definizione di Spencer & Spencer2 della competenza come «an underlying characteristic of an individual that is causally related to criterion-referenced effective and/or superior performance in a job or situation»: questa definizione si colloca però in un’ottica di produttività e di efficienza, tipica del contesto commerciale o industriale, e sembra meno adatta a un ambito scientifico. Analogamente, il sistema spesso utilizzato dell’accreditamento, basato su requisiti e/o superamento di test (vedi per esempio i “Principles for the Selection of Experts”3) è utile per definire idoneità professionali di base, di solito abbastanza generiche, molto meno per qualificare qualcuno come un “esperto”, da utilizzare come riferimento per problematiche complesse; inoltre, questi requisiti e test devono essere definiti dagli esperti, per cui si ricade nel caso generale. In ambito scientifico, e in

particolare biomedico, la competenza si potrebbe definire come una miscela tra conoscenze/esperienza e capacità di utilizzarle, che può dare frutti molto diversi, a seconda delle priorità, delle attitudini e dei valori individuali; non è sicuramente misurabile in termini quantitativi, laddove i sistemi scientometrici, come h-index o impact-factor, hanno limiti universalmente riconosciuti4: innanzitutto, sono indicatori di produttività scientifica e non di reale competenza e valore scientifico5, sviluppati per avere a disposizione strumenti per la distribuzione dei fondi di ricerca; inoltre, possono essere (e sono) manovrati con vari espedienti e sono comunque condizionati dal tipo di attività di un particolare soggetto: per esempio, il bravo organizzatore, coinvolto in varie iniziative multicentriche, sarà sempre favorito rispetto al ricercatore puro, capace magari di dare contributi di grande valore scientifico, ma in numero limitato e in un ambito molto specifico. Tanto meno la competenza è valutabile in base alla carriera e alle posizioni, sia pur prestigiose, raggiunte da un individuo, dato che i fattori che possono condizionarle sono molti e non tutti correlati alla competenza.

In assenza di una possibilità di misurare le competenze, l’unica alternativa al sistema attuale sarebbe l’investitura da parte di non esperti, o peggio, da parte dell’autorità politica, come talora succede perfino in Paesi democratici come l’Italia, con tutte le prevedibili nefaste conseguenze.

I vantaggi della complessità

Il vantaggio del sistema attuale, basato sulla cooptazione, in medicina, è che questo sistema, in qualche modo corale (confronto tra “simili”, se non tra “pari”), è gestito dalle stesse persone (gli esperti) che poi sono sul campo a doversi confrontare con le conseguenze delle proprie scelte, quando le incongruenze o i fallimenti diventano intollerabili, spesso per loro stessi, ma soprattutto per la società che le subisce.

Per spiegarmi faccio due esempi: le furibonde discussioni che hanno sconvolto nel ’900 la comunità dei latinisti ritenuti “esperti” del poeta latino Ovidio, in relazione alla veridicità del suo esilio, nell’8 d.C., a Tomis (oggi Costanza), un piccolo porto sul mar Nero nell’attuale Romania, confessiamolo, per la maggior parte di noi lasciano il tempo che trovano, e non ci sono particolari pressioni sugli esperti perché si arrivi a una soluzione.

Il fatto invece che per i 30-40 anni successivi alla II guerra mondiale la comunità degli “esperti” in oncologia continuasse a raccontarsi i suoi grandi progressi6 non ha potuto impedire che l’intero sistema “cancro” entrasse in crisi, perché questi progressi non trovavano riscontro nel vissuto dei malati di cancro, e degli stessi oncologi, sia in termini di prognosi sia in termini di qualità di vita, mentre la frequenza e la mortalità della malattia continuavano ad aumentare («[…] we are losing the war against cancer […])7. Questa crisi ha generato una serie di rivoluzioni che la stessa comunità di esperti ha nello stesso tempo dovuto accettare ma soprattutto promosso e spesso “inventato”: un’attenzione molto maggiore verso le cure palliative e il controllo della tossicità dei trattamenti; lo sviluppo di terapie chirurgiche e radioterapiche meno demolitive; lo studio di protocolli farmacologici più efficaci; una selezione e valutazione più attenta dei metodi di diagnosi precoce; una maggiore attenzione alla prevenzione, sia in ambiente di lavoro sia negli stili di vita; e negli ultimi anni, il grande impulso nella ricerca di trattamenti che non mirassero direttamente alla distruzione/eliminazione delle cellule cancerose, ma interferissero con i loro specifici meccanismi di funzionamento o con la reazione immunitaria dell’individuo contro il cancro stesso. Queste rivoluzioni hanno prodotto grandi effetti benefici, e stanno cambiando completamente la prospettiva con cui la società e i suoi individui, sia malati che sani, percepiscono il problema cancro. Contemporaneamente, hanno contribuito a selezionare almeno due generazioni di “esperti” nei vari aspetti del problema cancro molto più articolati sul piano scientifico e clinico, molto più critici e meno autoreferenziali, e complessivamente molto più preparati rispetto a quelle precedenti.

Il sistema della selezione degli esperti attraverso la cooptazione, quindi, regge nel campo in medicina perché sottoposto continuamente a verifiche esterne, che provocano stress e discontinuità (le crisi del paradigma dominante descritte da Khun) favorendo una dialettica virtuosa (i conflitti scientifici), che spesso favorisce l’emersione dei “migliori” (in senso molto generico, i più dotati intellettualmente, i più onesti, i più pragmatici, etc.); soprattutto, permette che a lungo termine si affermino nuove “verità” più utili per l’intera società.

Tutto questo non toglie che all’interno delle comunità dei cosiddetti “esperti” ci siano fessi e disonesti, non di rado anche in condizioni di nuocere, o che interessi esterni non ne possano condizionare viziosamente i comportamenti. In passato sono stati gli interessi delle industrie del tabacco, chimiche e agroalimentari e dei grandi inquinatori; successivamente le industrie farmaceutiche hanno assunto un ruolo sempre più rilevante. Il sistema sembra però mostrare un’inerzia virtuosa, per cui tende periodicamente a riallinearsi, ad autocorreggersi, riconoscendo e isolando gli incompetenti presenti al suo interno, e rimuovendo le distorsioni più dannose.

Un esempio è proprio quello dell’industria farmaceutica, un tempo libera di portare sul mercato trattamenti del tutto inefficaci e talora molto dannosi, sulla base di studi clinici (quando c’erano) del tutto inaffidabili sul piano della qualità dei dati e della metodologia, con il pieno supporto della comunità medica e dei suoi “esperti”. Negli ultimi decenni questa situazione si è radicalmente modificata, sia per merito delle agenzie regolatorie, in particolare per quanto riguarda la qualità dei dati e la protezione dei partecipanti8, sia, soprattutto, per merito della stessa comunità clinica, che ha progressivamente sviluppato un patrimonio di metodologie e tecniche necessarie per promuovere e per valutare la validità scientifica dei risultati degli studi clinici, una vera e propria epistemologia medica9, con regole, criteri e veri e propri “esperti” (anche in questo caso forzatamente autoreferenziali). Oggi, nonostante la massiccia (e spesso inappropriata) influenza che l’industria farmaceutica ha sulla ricerca e sulla pratica clinica, non è la qualità dei dati degli studi a supporto dei vari farmaci a poter essere messa in discussione; anche l’interpretazione dei risultati si basa su criteri universalmente condivisi, tanto che, nonostante i conflitti di interesse siano molto diffusi, raramente qualche “esperto” cerca di fornire un’interpretazione distorta delle evidenze scientifiche che non rispecchia questi criteri, per paura di una stigmatizzazione anche pesante, e di compromettere la sua credibilità2.

Conclusione

Possiamo quindi concludere che non ci sono problemi o che comunque i problemi sono sotto controllo? Al contrario. Il problema resta completamente irrisolto: infatti, se solo gli esperti possono esprimere opinioni su certi argomenti, e solo gli esperti possono riconoscersi e legittimarsi reciprocamente come tali, quando qualcuno che non è un esperto (sia esso un paziente, un tecnico di altra area, un amministratore, un giornalista, un politico, etc.) ha bisogno dell’opinione di un esperto, come fa a distinguere l’esperto “vero” da qualcuno che si professa tale senza esserlo?

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

1 Che poi, anche tra esperti, ci possano e debbano essere differenze di opinioni o anche accesi contrasti è naturale, perché la conoscenza non è né univoca né statica, ma è intrinsecamente dialettica e in divenire continuo, e richiede domande, dubbi, provocazioni, in altre parole, un confronto di idee, a volte anche molto duro.


2 Sia chiaro che l’influenza negativa degli interessi commerciali, e dei conseguenti conflitti di interesse di molti esperti, continua a manifestarsi ed è ancora molto pesante, ma si è spostata su altri aspetti, come la definizione delle strategie e delle priorità della ricerca clinica, e le valutazioni sul valore innovativo delle nuove tecnologie in termini di rapporto tra i benefici e i rischi, e soprattutto i costi, rispetto alle tecnologie preesistenti. Non si può però negare che, anche su questi aspetti, all’interno della comunità medica si osserva una tendenza verso una maggiore presa di coscienza e responsabilizzazione, che si manifesta in molti modi: una maggiore trasparenza nei conflitti di interesse, la produzione di linee guida evidence-based e che tengono conto anche della sostenibilità di certe strategie cliniche, e un cambio di pelle delle società scientifiche che da associazioni corporative/gangli del potere cercano di ridefinire il loro ruolo, diventando centri di aggregazione che partecipano alla formazione delle conoscenze, alla loro diffusione e al loro utilizzo appropriato. In generale, sono molto cresciuti l’attenzione a questi aspetti, e le competenze e il livello culturale (e direi anche il pudore) di tutti gli attori in gioco. Resta sicuramente ancora molto da fare.

Bibliografia

1. Traversa G. Proteggere il lavoro degli esperti. Recenti Prog Med 2023; 118: 183-4.

2. Spencer L, Spencer S. Competence at work: models for superior performance. New York: John Wiley & Sons, 1993.

3. Principles for the Selection of Experts: The European Consortium for Accreditation in higher education. Disponibile su: https://bit.ly/45sy25M [ultimo accesso 23/05/2023].

4. Wikipedia: Author-level metrics. https://bit.ly/3MR4pUz [ultimo accesso 23/05/2023].

5. Guthrie S, Wamae W, Diepeveen S, Wooding S, Grant J. Measuring research. A guide to research evaluation frameworks and tools. Santa Monica, CA: RAND Corporation, 2013.

6. DeVita VT Jr. Progress in cancer management. Keynote address. Cancer 1983; 51 (12 Suppl): 2401-9.

7. Bailar JC 3rd, Smith EM. Progress against cancer? N Engl J Med 1986; 314: 1226-32.

8. World Health Organization. Handbook for good clinical research practice (GCP): guidance for implementation. World Health Organization, 2005.

9. Park JH. Current issues in medical epistemology and statistics: a view from the frontline of medicine. Synthese 2022; 200: 417.