In questo numero

Leggendo articoli come quello di Rita Campi e Maurizio Bonati (pag. 486) si percepisce la sensazione ben descritta dal Duca di Gramont citato da Marco Geddes da Filicaia (pag. 492): «Anche se non si sia fatto nulla di male, si ha di sé mille piccole nausee, il cui totale non dà un rimorso, no, ma un oscuro tormento». Nel 2020, il 7,6% dei ricoveri ospedalieri è avvenuto per pazienti residenti in regioni diverse da quella di ricovero, spiegano Campi e Bonati: un segnale forte di come il servizio sanitario sia incapace di garantire equità nell’accesso alle cure. Come talvolta accade, autori diversi che seguono percorsi di riflessione distinti aiutano il lettore a farsi un’idea coerente di una situazione complicata. La maggiore causa di ricovero in una regione diversa da quella di residenza è la chirurgia sostitutiva di articolazioni maggiori o di reimpianto di arti inferiori: forse anche per questo la relazione del Ministero della salute citata da Geddes ci dice di ortopedici con uno stipendio annuo di 55.000 euro che guadagnano 890.000 euro grazie all’attività libero-professionale intramoenia. Le “mille piccole nausee” le dobbiamo alla consapevolezza che se siamo arrivati a questo punto la responsabilità è purtroppo condivisa.

Tra qualche anno non sarebbe strano ritrovarsi a soffrire altre “mille piccole nausee” constatando di non essere stati capaci di governare in modo equilibrato un’altra faccenda importante: la tensione tra medicina di precisione e cura dell’individuo e della comunità. Di questi argomenti scrivono Marco Filetti, Manuela Petti e Lorenzo Farina (a pag. 479) e Giampaolo Collecchia (pag. 483). Collecchia spiega che «l’esperienza quotidiana insegna peraltro che un’assistenza precisamente ritagliata sull’individuo deve comprendere anche (soprattutto?) le sue circostanze di vita, la sua ability to cope, i suoi valori, la sua personalità, lo stato psicologico, le priorità, le precedenti esperienze, i fattori economici e familiari, i timori e le speranze, i dati di contesto, le convinzioni religiose, la voglia o la stanchezza di esistere e molti altri fattori extraclinici che hanno, come cause e come fattori prognostici delle malattie, un peso importante, almeno quanto gli indicatori più aggiornati della medicina molecolare e genetica, perché modulano il realizzarsi effettivo del percorso diagnostico, terapeutico e di follow-up». Viene da chiedersi come un approccio comprensivo al malato come quello descritto possa conciliarsi con una “delocalizzazione” dell’assistenza sanitaria, col paziente costretto a spostarsi di centinaia di chilometri dalla sua abitazione e dai suoi affetti.

Dalla lettura di questi contributi – e di molte delle Comunicazioni brevi anticipate al congresso 4Words23 che troviamo da pagina 514 – si ha conferma della necessità di un approccio “narrativo” incentrato sulle storie biologiche ma anche biografiche, «sulla identificazione e condivisione di valori, senso, interessi tra clinici, esperti di dati e pazienti». Che oltre alla storia del paziente consideri anche quella del medico fatta – come scrivono Filetti, Petti e Farina (pag. 481) – di studi, di incontri casuali con colleghi, di letture di libri o di articoli scientifici, di riflessioni in spiaggia guardando i figli giocare a palla, dell’innata attitudine al lavoro di squadra, di collaborazione, della capacità di far entrare dentro al proprio mondo una parte degli altri per espandere il proprio sé verso un sé collettivo molto più ampio e multi-dimensionale.