Dalla letteratura

Non esiste alternativa all’intelligenza artificiale?

«L’ansia crescente per l’intelligenza artificiale non è dovuta alle noiose ma affidabili tecnologie che completano automaticamente i nostri messaggi di testo o dirigono gli aspirapolvere robot aiutandoli a schivare gli ostacoli nei nostri salotti. È l’ascesa dell’intelligenza artificiale generale, o Agi, a preoccupare gli esperti». Un articolo di Evgeny Morozov pubblicato dal New York Times ha messo a fuoco una questione che genera inquietudine in molte persone, ma che difficilmente può essere spiegata con parole migliori di quelle usate dall’intellettuale statunitense di origine bielorussa.

Una prima annotazione non può non riguardare l’espressione Agi che precisa, corregge e ampia notevolmente la più generica “intelligenza artificiale”. Morozov osserva come l’innovazione in ambito IA sia considerata quasi sempre “inevitabile”, alla luce di un’ideologia che la giudica comunque sicura e «universalmente benefica: i suoi sostenitori non riescono a pensare ad alternative migliori per mettere in sicurezza l’umanità ed espandere la sua intelligenza».

I rischi reali dell’Agi sono politici e «non si risolvono addomesticando i robot ribelli». Chi considera l’IA generale come una panacea per il mondo contemporaneo ragiona in un modo troppo simile a Margaret Thatcher quando sosteneva che non esistesse alcuna alternativa al mercato.

Un decennio fa Morozov definiva questo approccio “soluzionismo”, ma oggi vorrebbe correggere l’espressione in “neoliberismo digitale”. Ogni soluzione proposta all’interno di una cornice ideologica neoliberista è esclusivamente a scopo di lucro. «Di conseguenza, i problemi che appartengono al dominio pubblico vengono reimmaginati come opportunità imprenditoriali sul mercato». Ai lettori è lasciata una domanda radicale: “Le istituzioni devono solo adattarsi? Non possono sviluppare i programmi propri di trasformazione per migliorare l’intelligenza dell’umanità?”.




Bibliografia

1. Morozov E. The true threat of artificial intelligence. New York Times 2023; 30 giugno.

I medici stanno davvero lasciando Twitter?

Una società che da oltre un decennio si occupa di monitorare l’impegno dei medici sui social media riferisce che non sembra essere questo il caso.

Greg Matthews, Ceo di HealthQuant, ha riferito che negli ultimi due anni l’attività dei medici su Twitter è rimasta relativamente stabile.

Utilizzando un campione di 100.000 medici su Twitter, ha rilevato che il numero di utenti medici attivi mensilmente è stato circa lo stesso nel secondo trimestre del 2023 e nel terzo trimestre del 2021 (67.099 e 71.554). (Ha sottolineato che i risultati del secondo trimestre del 2023 non includono ancora i dati di giugno).

«La mia sensazione, guardando i numeri, osservando i feed e facendo ricerche per i clienti, mi dice che il medico medio non è molto influenzato dai cambiamenti che stanno colpendo Twitter», ha detto Matthews a MedPage Today. «I grandi nomi che hanno acquisito un profilo pubblico e polarizzante durante la pandemia sono diversi dal medico medio che lo usa principalmente per connettersi con altri colleghi».

Per esempio, i post su Twitter relativi al meeting dell’American society of clinical oncology (Asco) – il più grande meeting di ricerca clinica sul cancro al mondo, da sempre al centro dell’attività online dei medici – sono aumentati negli ultimi tre anni.

«Twitter è sempre stato una questione di chi si segue e credo che questo sia ancora vero», ha detto Matthews. «La maggior parte dei medici tende a seguire un numero inferiore di account rispetto all’utente medio di Twitter, e gli account che seguono tendono a essere di altri medici. Quindi credo che in un certo senso siano un po’ isolati da altre tendenze».

Tuttavia, il numero di medici attivi è diminuito leggermente negli ultimi 6-9 mesi, ha detto Matthews, e le conseguenze del fallimento di Hotez non sono ancora finite. I numeri completi del secondo e terzo trimestre di quest’anno rifletteranno eventuali ulteriori cambiamenti, ha aggiunto.

L’impegno misurato attraverso altri parametri sembra essere leggermente diminuito. Secondo Matthews, il medico medio posta 15 volte al mese, ma questa cifra è diminuita dell’11% negli ultimi due anni. Inoltre, il numero medio di autori medici è diminuito del 6% nello stesso periodo.

«I medici che si impegnano possono pubblicare un po’ meno spesso di un tempo, ma le persone sono davvero sparite da questa piattaforma o c’è qualcosa di più sottile? Io credo che ci sia qualcosa di più sottile», ha detto.

In effetti, i medici su Twitter intervistati da MedPage Today hanno dichiarato che, nel complesso, interagiscono meno di quanto facessero in passato, soprattutto a causa della qualità dei contenuti che compaiono nei loro feed.

«Sono ancora su Twitter, ma ormai interagisco molto raramente», ha dichiarato in un’e-mail a MedPage Today Katelyn Jetelina, PhD, che gestisce la newsletter “Your Local Epidemiologist” su Substack, diventata popolare durante la pandemia. «Mi piacerebbe usare ancora Twitter per il dialogo scientifico, ma non è più costruttivo. È quasi impossibile sapere di chi fidarsi e di chi non fidarsi (a causa del cambiamento del sistema di verifica), è difficile districarsi tra il rumore delle ammucchiate e anche molti altri colleghi non si impegnano più».




Joel Topf, MD, direttore medico del St. Clair Nephrology Research in Michigan, che è stato uno dei primi ad adottare l’educazione medica sui social media – ha fondato un journal club su Twitter chiamato NephJCopre in una nuova scheda o finestra – ha detto che «la qualità del segnale su MedTwitter è scesa negli ultimi due mesi, e non è chiaro se questo sia dovuto al fatto che l’algoritmo non è così buono, o se alcune persone valide hanno lasciato la piattaforma» o non stanno twittando così tanto.




Per favore, approvami il farmaco

Permettere l’approvazione regolatoria più rapida e semplice al mondo per le aziende che cercano un rapido accesso al mercato e stabilire un ampio quadro di riconoscimento internazionale, che permetta all’ente regolatorio britannico Medicines and healthcare products regulatory agency (Mhra) di sfruttare l’esperienza e il processo decisionale di altre agenzie regolatorie e di fornire ai pazienti un accesso rapido ai migliori prodotti farmaceutici approvati in altri Paesi. È questo il senso di una nuova normativa annunciata dal Governo britannico1 che dovrebbe portare a un’approvazione quasi automatica delle terapie approvate da quelli che il governo ha ritenuto enti regolatori internazionali di propria fiducia, agenzie europee e quella giapponese oltre naturalmente alla Food and drug administration.

Totalmente azzerato il processo di valutazione nel Regno Unito? È tutto ancora da verificare: sembra che Mhra manterrebbe la responsabilità finale dell’approvazione di tutte le domande di riconoscimento ma delegherebbe la revisione ad altri enti regolatori. Potrebbe promettere un’approvazione più rapida dei nuovi farmaci, a prezzo di una sostanziale rinuncia all’autonomia di giudizio.

«Questa nuova politica segna un ulteriore deterioramento del panorama normativo del Regno Unito e potrebbe ancor più disincentivare gli investimenti nazionali da parte delle aziende che sviluppano farmaci” leggiamo su The Lancet2. Inoltre, il settimanale inglese sottolinea come questa politica potrebbe influire in modo sostanziale sulla fattibilità e sull’attrattiva dei nuovi percorsi di sviluppo dei farmaci dell’Mhra, come il percorso di innovazione e autorizzazione. «L’ente regolatorio britannico ha cercato di collaborare con gli sponsor in una fase iniziale dello sviluppo clinico per accelerare lo sviluppo dei farmaci e questo approccio si è dimostrato gradito alle imprese, ricevendo 164 richieste (a gennaio 2023) da quando è stata avviata».

Questa nuova disposizione potrebbe invece indurre le aziende a dare priorità a percorsi normativi accelerati paralleli (per esempio, il Priority Medicine Scheme dell’Ema), cercando di ottenere l’approvazione del Regno Unito solo come una ratifica di una valutazione effettuata da altri enti.




Bibliografia

1. UK Government. MHRA to receive £10m from HM Treasury to fast-track patient access to cutting-edge medical products. Disponibile su: https://lc.cx/PdDUqn [ultimo accesso 12 luglio 2023].

2. Lythgoe MP, Sullivan R. Outsourcing UK regulatory decisions – a double-edged sword? Lancet 2023; 402: 24-5.

Cdc riducono i finanziamenti per le vaccinazioni

I Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Centers for disease control and prevention – Cdc) stanno riducendo i finanziamenti agli Stati per i programmi di vaccinazione infantile, spiega un reporter del sito di informazione Kff Health News1. Il taglio dei fondi è stato comunicato tramite una e-mail inviata ai responsabili delle vaccinazioni il 27 giugno 2023. La riduzione della sovvenzione federale per le vaccinazioni – che ammontava a un totale di circa 680 milioni di dollari nell’ultimo anno – potrebbe essere dovuta all’accordo per la riduzione sul tetto del debito recentemente raggiunto dall’amministrazione Biden e dal Congresso. Non è difficile prevedere che il taglio dei fondi possa avere un impatto negativo diretto sull’andamento delle vaccinazioni negli Stati Uniti.

«L’accordo sul debito ha cancellato circa 27 miliardi di dollari di fondi federali non spesi che erano stati stanziati per la lotta contro il coronavirus», spiega Kff Health News. «Inoltre, […] il Cdc ha eliminato 400 milioni di dollari di finanziamenti agli Stati per gli operatori che combattono la diffusione delle infezioni sessualmente trasmissibili».

Claire Hannan, direttrice esecutiva dell’Associazione dei responsabili delle vaccinazioni, ha dichiarato che ci sarà un impatto diretto sui programmi che identificano le comunità vulnerabili alle epidemie.

Il taglio del budget arriva quando il numero di bambini vaccinati è diminuito a causa della pandemia di coronavirus. Durante l’anno scolastico 2021-22, circa il 93% dei bambini dell’asilo a livello nazionale ha ricevuto i vaccini Mmr (morbillo, parotite e rosolia), DTaP (difterite, tetano e pertosse acellulare), polio e varicella. Questo dato è in calo rispetto al 94% dell’anno scolastico 2020-21 e al 95% della copertura nel 2019-20.

«Non è il momento di ridurre il sostegno federale per la somministrazione di routine dei vaccini infantili», ha dichiarato Mark Del Monte, presidente dell’American academy of pediatrics. «Dobbiamo assicurarci che tutti i bambini siano in regola con le vaccinazioni, mentre ci avviciniamo alla stagione del ritorno a scuola, e questo richiede investimenti sostenuti nel sistema di somministrazione dei vaccini». D’accordo anche il bioeticista Ezekiel Emanuel che in un tweet ha commentato: «I tassi di vaccinazione infantile sono scesi a livelli pericolosi dall’inizio della pandemia. Ora più che mai abbiamo bisogno di finanziamenti per i programmi di vaccinazione infantile. Non è il momento di ridurre i fondi».




Bibliografia

1. Miller A. CDC to reduce funding for States’ child vaccination programs. KFF Health News 2023; 5 luglio.

Finanziamenti delle imprese alle istituzioni sanitarie

Quando si scrive o si parla di relazioni pericolose tra le aziende farmaceutiche e il mondo sanitario, la mente va immediatamente alle cene offerte ai medici, agli inviti ai congressi, agli eventi di educazione continua sponsorizzati. Sono argomenti di cui si conosce ogni piccolo dettaglio, sia perché sono stati al centro di molti studi, sia perché negli ultimi anni la sanità di molte nazioni ha sposato una scelta di trasparenza che ha fatto leva su banche-dati pubbliche in cui tutte (o quasi) le transazioni di denaro sono rese accessibili anche ai cittadini. Un articolo uscito sul quotidiano The Guardian ha sottolineato come negli ultimi anni si sia registrato un forte aumento delle spese delle aziende farmaceutiche nel settore sanitario del Regno Unito1. «I dati disponibili registrano più di 300.000 pagamenti a organizzazioni e professionisti del settore sanitario negli ultimi otto anni, tra cui donazioni, accordi di partnership, onorari di consulenza, passaggi di denaro tra il National health system (Nhs) e le aziende private». Passaggi di denaro tra il Nhs e le imprese: ecco una cosa di cui non sempre si sente parlare.




«I dati mostrano che, nel 2022, il valore totale di questi pagamenti è stato di oltre 200 milioni di sterline, con un aumento del 26% rispetto all’anno precedente e quasi il doppio dell’importo speso dall’industria nel 2015. I pagamenti contenuti nel database pubblicato dall’Associazione dell’industria farmaceutica britannica (Abpi) rivelano come il denaro delle aziende farmaceutiche scorra in ogni parte del sistema sanitario, dalle cliniche ospedaliere agli ambulatori dei medici di base, fino ai medici che contribuiscono a definire i trattamenti futuri. I dati includono migliaia di pagamenti a organizzazioni e personale del Servizio sanitario nazionale». L’articolo è esplicito nel descrivere la corsa dell’industria a entrare da protagonista (da padrona?) in uno dei più grandi mercati del mondo. La spesa totale in Inghilterra per farmaci e dispositivi nel Nhs nel 2020-21 è stata stimata in 17,8 miliardi di sterline.

Nel 2022 i finanziamenti al Nhs da parte di aziende private hanno raggiunto un valore di 29,5 milioni di sterline, in aumento rispetto ai 22,6 milioni di sterline del 2021. Queste spese (o investimenti?) coprono le cose più diverse: da iniziative finanziate dall’industria per ridurre le liste d’attesa a progetti pubblico-privato per ridisegnare i percorsi di cura nei servizi per diabete, obesità, cancro, asma, malattie rare o sclerosi multipla. A questo riguardo, una partnership tra Novartis e la University Hospitals Birmingham Nhs foundation trust è stata finalizzata all’assunzione di un farmacista specializzato in sclerosi multipla a supporto del trust, iniziativa che contribuirà a «risolvere la carenza di personale» e ad «affrontare l’arretrato di pazienti» spiega The Guardian. Boehringer Ingelheim, invece, sta contribuendo a fornire formazione ai clinici leader del settore cardiaco per «sostenere la trasformazione dei servizi cardiaci» grazie a un finanziamento di 80.000 sterline.

Sarà vero quel che sostiene l’istituzione – parliamo del Nhs inglese – quando dichiara che tali collaborazioni con l’industria (rigorosamente regolate) aiutano i pazienti a «beneficiare di un accesso più rapido a trattamenti innovativi»?




Bibliografia

1. Ungoed-Thomas J, Das S, Goodier M. “It’s naive to think this is in the best interests of the NHS”. How Big Pharma’s millions are influencing healthcare. Guardian 2023; 8 luglio.

Condivisione dei dati: tra il dire e il fare…

In molti dicono di volerlo fare, ma in concreto pochi lo fanno. Parliamo della condivisione dei dati della ricerca che solo a parole sembra mettere d’accordo tutti. Una editor’s choice sul BMJ firmata dal direttore Kamran Abbasi ricorda che la condivisione responsabile di dati sensibili è un’impresa complessa1. «La preparazione, l’archiviazione, l’elaborazione, la gestione dei dati e la conformità ai requisiti legali e normativi in materia di protezione dei dati richiedono un’infrastruttura adeguata e un supporto istituzionale, generando costi aggiuntivi. Sebbene questi problemi pratici possano essere risolti preventivamente, la condivisione non ottimale dei dati delle revisioni sistematiche, come dimostrato dallo studio di Hamilton et al. [pubblicato sullo stesso numero della rivista - ndr2] che non sono né sensibili né difficili da condividere, suggerisce ragioni più profonde alla mancanza di dati aperti».

Di uno degli aspetti sottolineati sul BMJ si parla poco: la condivisione dei dati biomedici può essere percepita come rischiosa data la possibilità di scoprire errori che possono danneggiare la reputazione di un ricercatore. Inoltre, «alcune aziende e ricercatori privati possono ritenere di essere proprietari dei dati che hanno raccolto e considerano la condivisione dei dati come uno svantaggio competitivo per la perdita dell’uso esclusivo dei dati. Inoltre, il valore degli studi in cui i dati sono riutilizzati o convalidati è talvolta sottovalutato dai direttori delle riviste» scrive Abbasi rimandando alla lettura di un articolo uscito pochi anni fa sul New England Journal of Medicine3.

Se la comunità (parola grossa) scientifica discute spaccando il capello in due, pochi ascoltano i cittadini, generalmente più che favorevoli alla condivisione dei dati soprattutto quando si tratta di pazienti arruolati in studi clinici. I progressi nella gestione informatizzata dei dati possono rendere sempre più sicure le politiche di anonimizzazione del dato sensibile, fugando i residui dubbi dei cittadini più prudenti.




I comitati etici hanno un ruolo importante e dovrebbero essere in grado di valutare in ogni nuovo progetto di ricerca se per rispondere all’interrogativo alla base di uno studio sia necessaria la condivisione dei dati o se la “questione” possa essere risolta ugualmente con il riutilizzo di set di dati esistenti, perché il riutilizzo dei dati evita di esporre a rischi i nuovi partecipanti alla ricerca. Anche le istituzioni e le industrie dovrebbero contribuire a chiarire le policy dei diversi attori della ricerca, per esempio quelle delle associazioni di categoria farmaceutiche o editoriali.

Bibliografia

1. Abbasi K. A commitment to act on data sharing. BMJ 2023; 382: p1609.

2. Hamilton D, Hong K, Fraser H, Rowhani-Farid A, Fidler F, Page MJ. Rates and predictors of data and code sharing in the medical and health sciences: systematic review with meta-analysis of individual participant data. BMJ 2023; 382: e075767.

3. Longo DL, Drazen JM. Data sharing. N Engl J Med 2016; 374: 276-7.

Non serve un’oncologia transgender, ma un approccio equo e rispettoso

Un articolo caratterizzato da un’ampia partecipazione di clinici e ricercatori italiani discute vari aspetti legati a prevalenza, mortalità, fattori di rischio del cancro tra le persone transgender (Tgd) e gender-diverse. Vediamo alcuni punti analizzati dalla revisione non sistematica uscita su JAMA Oncology.

Pochi studi disponibili in letteratura si sono concentrati sulla prevalenza del cancro tra le persone Tgd. Uno studio non ha riscontrato differenze significative nella prevalenza del cancro tra le persone Tgd e le persone cisgender. Tuttavia, un altro studio ha mostrato che gli uomini transgender hanno una prevalenza del cancro più alta rispetto agli uomini cisgender, simile a quella delle donne cisgender. La prevalenza del cancro tra le donne transgender e le persone gender-non conforming si avvicinava a quella degli uomini cisgender e delle donne cisgender. Uno studio svedese di coorte ha rilevato un rischio maggiore di morte per neoplasie nel gruppo Tgd rispetto alla popolazione di controllo. L’analisi di un database oncologico ha mostrato che le persone Tgd avevano un rischio maggiore di morte per linfoma non Hodgkin, cancro alla prostata e cancro alla vescica rispetto ai pazienti cisgender.

Venendo ai fattori di rischio, diversi studi hanno esaminato l’uso del tabacco tra le persone Tgd ma i dati non danno risposte chiare: alcuni studi hanno riportato una prevalenza di fumatori significativamente maggiore tra le persone Tgd, mentre altri non hanno riscontrato differenze significative. Anche gli studi sull’assunzione di alcol forniscono risultati contrastanti. Uno studio ha rilevato una minore prevalenza di consumo di alcol e di episodi di consumo eccessivo tra i pazienti Tgd rispetto ai pazienti cisgender. Tuttavia, un’altra analisi ha mostrato maggiori probabilità di episodi di consumo eccessivo tra le donne transgender rispetto alle donne cisgender.

La prevalenza dell’infezione da Hiv è risultata più alta tra le donne transgender rispetto agli uomini transgender. Inoltre, gli studi hanno evidenziato un’alta incidenza di infezione da papillomavirus umano (Hpv) tra le donne e gli uomini transgender.

Un aspetto importante riguarda la gender-affirming hormone therapy (Gaht) e su questo il primo autore Alberto G. Leone è stato intervistato dalla rivista Cure2: «Devo confessare che la Gaht rappresenta una sfida per gli oncologi medici per diversi motivi. Questo emerge dalle ricerche in corso e dai dati che stiamo raccogliendo. Il cambiamento dell’ambiente ormonale potrebbe influenzare la farmacocinetica e la farmacodinamica dei farmaci antitumorali e potrebbe essere necessario regolare le dosi in base al genere piuttosto che al sesso assegnato alla nascita. Al momento questo non è molto comune: sappiamo che molti studi clinici in passato hanno favorito gli uomini e talvolta le donne in post-menopausa, il che significa che non siamo molto consapevoli delle differenze di sesso (ormoni) nel dosaggio dei farmaci, e siamo ancora meno precisi quando si tratta di generi».




Dario Trapani si è soffermato su un altro punto interessante: «La task force Oncogender dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) – nata grazie a questa ricerca – ritiene che non debba esistere un piano di cura specifico per i tumori transgender. Stabilirne uno potrebbe indurre i medici a fare determinate ipotesi, come ad esempio se un paziente si è sottoposto o meno a interventi chirurgici o trattamenti per l’affermazione del genere. La terapia ormonale sostitutiva e le informazioni su precedenti interventi chirurgici e altri interventi per l’affermazione del genere devono essere prese in considerazione nel processo decisionale clinico complessivo, per orientarsi tra le opzioni e informare sulle implicazioni. Dobbiamo dare valore a ciò che i pazienti scelgono, non a ciò che riteniamo più accettabile o appropriato. Non abbiamo bisogno di una “oncologia transgender”, credo, quando si impara a non giudicare e a essere obiettivi nella propria pratica». L’assistenza ai transgender – e a tutti i pazienti – dovrebbe «basarsi sui principi di equità, per garantire che tutti i pazienti accedano ai trattamenti migliori, in un ambiente in cui si sentano accettati per quello che sono».

Nel complesso, il contributo sottolinea come gli studi sull’argomento siano ancora carenti, soprattutto dal punto di vista metodologico. Sono dunque necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio questi aspetti e migliorare l’assistenza sanitaria per le persone Tgd.

Bibliografia

1. Leone AG, Trapani D, Schabath MB, et al. Cancer in transgender and gender-diverse persons: a review. JAMA Oncol 2023; 9: 556-63.

2. Lankas M. Open, non-judgemental communication is key in transgender cancer care. Cure 2023; 1 marzo.