Il diritto alla salute e la “spesa costituzionalmente necessaria”

Luca Antonini1

1Giudice della Corte costituzionale, Componente della Consulta scientifica del Cortile dei Gentili.

Pervenuto il 15 giugno 2023. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. L’articolo si occupa delle scelte di allocazione delle risorse finanziarie a tutela della salute; descrive l’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, che ha elaborato la nozione di “spesa costituzionalmente necessaria” e ulteriori criteri sul controllo dell’azione del legislatore. Spunti di riflessione vengono tratti dalla recente esperienza della pandemia che ha portato alla luce i divari regionali, il ruolo dello Stato a volte poco efficace e il silenzioso processo di smantellamento del welfare sanitario avvenuto nei primi venti anni del secondo millennio.

Parole chiave. Risorse, salute, sostenibilità.

The right to health and the “constitutionally necessary expenditure”.

Summary. The paper deals with the choices of allocating financial resources to protect health; it describes the evolution of the jurisprudence of the Italian Constitutional Court, which has developed the notion of “constitutionally necessary expenditure” and further criteria on the control of the legislature’s action. Points for reflection are drawn from the recent pandemic experience that brought to light the regional gaps, the sometimes ineffective role of the State and the silent process of dismantling health welfare that occurred in the first two decades of the second millennium.

Key words. Health, resources, sustainability.

Premessa: la garanzia dei diritti costituzionali e le compatibilità economiche

La garanzia dei diritti costituzionali non può evitare il confronto con la questione delle compatibilità economiche1.

Si tratta di una affermazione per nulla scontata, perché si potrebbe ritenere che i diritti costituzionali e in particolare quelli inviolabili siano entità assolute, quasi “sacre”, che mai potrebbero essere confuse con le “questioni pecuniarie”.

Del resto, «[s]pecie i costituzionalisti, ancora oggi, quasi pensando che pecunia, anche se pubblica, olet, hanno rifuggito il duro discorso delle risorse che è anche e soprattutto discorso di allocazione di potere»2 e così è rimasto in ombra un dato ovvio (ma che sembra emerso solo da poco alla comune consapevolezza): «tutti i diritti, nessuno escluso, costano, non solo in termini di relazione con gli altri diritti e con le situazioni soggettive passive di chi deve rispettarli, ma anche, più trivialmente, in termini di risorse sociali da destinare al loro soddisfacimento»1.

A lungo infatti si è teorizzata, salvo qualche rara eccezione, l’assenza di questa interdipendenza: probabilmente fino a tutti gli anni Ottanta, quando ancora si riteneva che lo Stato avrebbe potuto sempre e comunque reperire risorse, grazie soprattutto all’indebitamento pubblico.

Erano anni in cui nell’aria vibrava ancora l’onda lunga dell’imponente sviluppo economico dei decenni precedenti e ci si illudeva che mai sarebbe venuto il momento di rendere il conto.

Negli anni Novanta, però, lo scenario inizia rapidamente a mutare: il tasso di crescita del Pil via via si ridimensiona, la globalizzazione dei mercati finanziari e le nuove potenzialità della speculazione internazionale iniziano a mostrare la fragilità di Paesi, come l’Italia, con debiti pubblici eccessivi.

L’ingresso nella moneta unica, necessaria a evitare di rimanere facile preda dei mercati, impone un serio processo di risanamento finanziario e il tema delle compatibilità economiche si traduce nell’adesione ai parametri di Maastricht che impongono limiti ai deficit degli Stati e al loro debito pubblico.

Il tema si aggrava poi ulteriormente e drammaticamente con la crisi finanziaria globale che esplode nel 2007 e che dimostra che nemmeno la moneta unica, in sé, può mettere al riparo da attacchi speculativi3.

L’Italia addirittura deve approvare in pochissimo tempo una riforma costituzionale che modifica l’art. 81 Cost. inserendo in Costituzione il principio dell’equilibrio di bilancio.

A questo punto l’utopia di ritenere i diritti come entità incondizionate e indipendenti dalle risorse disponibili viene spazzata via dalla storia.

Oggi, quindi, non si tratta più di chiudere gli occhi di fronte alla cruda realtà del condizionamento finanziario, quanto piuttosto di aprirli due volte: prima per riconoscere il dato e poi, soprattutto, per capire qual è l’antidoto, cioè individuare le forme con cui la Costituzione consente di bilanciare questo condizionamento finanziario con la garanzia dei diritti, così da evitare che questo condizionamento diventi un vero e proprio valore tiranno, che schiaccia e opprime la garanzia dei diritti.

Ciò vale in particolar modo per la spesa sanitaria.

Spunti di riflessione sull’allocazione delle risorse tratti dall’esperienza della pandemia

La grave pandemia che ha colpito l’umanità, mietendo un numero drammatico di vittime, ha offerto numerosi spunti di riflessione proprio su questo tema.

In particolare, nel periodo più difficile, per esempio, si è sentito affermare, soprattutto in contesti diversi da quello italiano, come in quello spagnolo4, che di fronte alla scarsità dei posti nelle terapie intensive bisognava effettuare selezioni: ovvero dare la precedenza ai giovani piuttosto che agli anziani, e tra i giovani, se i posti comunque non bastavano, a quelli sani piuttosto che a quelli con altre patologie che avrebbero comunque comportato minore speranza di vita.

Va precisato che l’argomento, per la crudezza e la cinica disinvoltura con cui veniva presentato, in alcuni casi trascendeva quel normale equilibrio con cui l’arte medica, a volte, è chiamata a prendere, in scienza e coscienza, decisioni per evitare, per esempio, un intrusivo accanimento terapeutico, che dato il progresso scientifico potrebbe, ostacolando il normale corso di una malattia, tenere in vita per tempi indeterminati le persone, nonostante le loro gravi condizioni di sofferenza.

C’era qualcosa di più nell’argomento che veniva utilizzato: vi vibrava l’eco di una radice culturale per la quale un qualsiasi potere può decidere che una vita è più meritevole di essere vissuta di un’altra. Evidentemente questa radice non è compatibile con la nostra Costituzione, che ruota tutta intorno al concetto di dignità umana e respinge con forza qualsiasi discriminazione al riguardo.

Ma la scarsità dei posti nelle terapie intensive imponeva nell’anno 2020 la “scelta tragica” di chi salvare5.

Tale problema, allora, non può essere risolto echeggiando soluzioni discriminatorie, ma va certamente rovesciato: in relazione a certe spese, come quella sanitaria, le risorse (anche, appunto, quelle per le terapie intensive) non dovrebbero mai mancare, nel senso che prima di tagliare la spesa sanitaria si dovrebbero tagliarne altre: quelle che, come si vedrà, “costituzionalmente necessarie” non sono.

È a questo punto che inizia a definirsi il tema delle tecniche decisorie e del bilanciamento tra risorse e diritti, tema che si comprende in modo particolarmente evidente con riguardo proprio al diritto alla salute, date tutte le sue specifiche particolarità.

Il condizionamento finanziario del diritto alla salute

Il diritto alla salute può essere definito, nello stesso tempo, come il più importante e il più fragile tra tutti i diritti sociali6.

Il più importante: le poche parole dell’art. 32 della Costituzione («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti») illuminano un mondo talmente complesso che, in fondo, è ben sintetizzato dal detto popolare: “se c’è la salute c’è tutto”.

Ma nello stesso tempo è il più fragile.

Nessuno, fra i vari diritti sociali, dipende, come il diritto alla salute, dalle risorse pubbliche che vengono stanziate.

L’istruzione, per assurdo, un ragazzo potrebbe riceverla dai genitori o potrebbe anche garantirsela da solo, con un po’ di buona volontà.

Per la salute questo non è possibile. Non ci si può curare un tumore o una polmonite da soli. Per tutelare il diritto alla salute sono sempre indispensabili strutture e professionisti (medici, infermieri, etc.) che lo garantiscano. Quindi, tra tutti diritti sociali, è quello più condizionato dalle risorse finanziarie.

Risorse finanziarie che, per questo diritto (garantito nel nostro ordinamento in modo universalistico), sono necessarie in misura sempre maggiore: lo sviluppo tecnologico e la ricerca scientifica permettono, infatti, con velocità il raggiungimento di straordinari traguardi. Si pensi ai nuovi farmaci oncologici che consentono oggi di intervenire efficacemente su tumori ritenuti incurabili fino a pochi anni fa: i nuovi rimedi, tuttavia, sono molto costosi.

Le peculiarità, e in particolare le fragilità, del diritto alla salute, peraltro, non si esauriscono in quanto detto.

Il decentramento dell’organizzazione sanitaria

Bisogna aggiungere, infatti, che tra tutti i diritti sociali, il diritto alla salute è quello che maggiormente è stato decentrato. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, l’organizzazione sanitaria è diventata competenza residuale regionale e il diritto alla salute si è ritrovato a vivere nel crocevia di due coordinate: da un lato lo Stato che finanzia il Fondo sanitario nazionale (Fsn), dall’altro le Regioni che concretamente strutturano i sistemi di cura.

Non è un facile crocevia.

Infatti, se il Governo e il Parlamento tagliano il finanziamento al diritto alla salute, sono le Regioni che si trovano costrette nell’alternativa tra introdurre ticket sanitari, aumentare l’addizionale regionale all’Irpef o ridimensionare i servizi sanitari offerti alla popolazione.

In questo modo sono state dissociate le responsabilità e il taglio statale al diritto alla salute, magari di alcuni miliardi, può passare quasi inosservato agli occhi dell’opinione pubblica. Tutt’altro impatto avrebbe un taglio analogo sulla spesa pensionistica: immediatamente gli elettori ne identificherebbero l’autore e alla prima occasione potrebbero sanzionarlo con il loro voto.

Nel caso del diritto alla salute, invece, l’autore del taglio, per effetto della suddetta dissociazione di responsabilità, resta quasi anonimo e gode di una sostanziale immunità.

Mentre tutti i pensionati conoscono bene l’importo della propria pensione e tutti i lavoratori sanno quando si perfeziona il proprio diritto, pochi, nell’opinione pubblica, conoscono a quale cifra ammonti oggi il Fsn, e ancora meno sanno a quanto ammontava, per esempio, circa cinque anni fa.

Certamente la popolazione oggi si rende conto che si sono allungate le liste d’attesa o che certe prestazioni sanitarie non sono più accessibili, o che la gestione del Covid ha scontato anche inefficienze, ma rimane disorientata quanto a identificarne il responsabile.

Infatti, solo in pochissimi esperti del settore sanno che il Fsn ammonta oggi a circa 130 miliardi di euro, che è prevalentemente finanziato tramite una compartecipazione all’Iva e che, rispetto ai tendenziali di crescita, negli anni passati ne è avvenuta una imponente riduzione.

La necessità di superare i divari regionali attraverso un più efficace ruolo dello Stato

Sempre in relazione al problema del decentramento dell’organizzazione sanitaria non può essere dimenticato un altro profilo: il grave divario che esiste tra i sistemi regionali, alcuni dei quali sono classificati tra i migliori esistenti a livello internazionale e altri invece sono rimasti cronicamente affossati in una grave incapacità di garantire i livelli essenziali di assistenza (Lea).

Significativa da questo punto di vista è la sentenza n. 168 del 2021, dove la Corte costituzionale ha stigmatizzato la situazione in cui, dopo ben undici anni di commissariamento statale, ancora si trovava il sistema sanitario della Calabria: «Il disavanzo cristallizzato nel piano di rientro si è ridotto – in termini assoluti – di pochissimo, passando da 104,304 mln di euro iniziali a € 98,013 mln a fine 2019, con la conseguenza che gli abitanti della Calabria stanno da dieci anni colmando una voragine finanziaria che cresce e si alimenta di anno in anno. A fronte di questi “sacrifici finanziari”, i medesimi cittadini non godono però di servizi sanitari adeguati, perché i Lea ancora non sono garantiti secondo il livello ritenuto sufficiente dal Tavolo e dal Comitato sopra ricordati, mentre la mobilità sanitaria dei cittadini calabresi ha ormai assunto dimensioni imponenti […]. Si è dunque realizzata una situazione di doppia negatività fra costi e prestazioni, ovvero tra “performance negativa nella qualità delle prestazioni” e “disavanzi privi di copertura”».

La sentenza ha precisato che, nella Costituzione, il riconoscimento del valore delle autonomie territoriali è in «prospettiva generativa» e quindi occorre dare «la prova concreta della realizzazione di determinati interessi essenziali», la cui tutela spetta allo Stato quale «garante di ultima istanza», che è chiamato a intervenire con il suo potere sostitutivo in presenza di gravi inefficienze a livello regionale. Questo potere sostitutivo dello Stato, tuttavia, deve essere «utile» e quindi si giustifica solo se garantisce effettivamente le esigenze unitarie della Repubblica invece compromesse dalla Regione. Pertanto occorre un intervento che comporti una prevalente sostituzione della struttura inefficiente con personale altamente qualificato, statale o comunque non dipendente dalla stessa Regione, in modo da evitare anche ogni possibile condizionamento ambientale.

Si «rischia altrimenti di produrre, a causa dell’impotenza cui si destina il commissario, un effetto moltiplicatore di diseguaglianze e privazioni in una Regione che già sconta condizioni di sanità diseguale».

In situazioni critiche come quella del commissariamento della sanità della regione Calabria, pertanto, l’effetto utile dell’esercizio del potere sostitutivo statale non può essere raggiunto con un «mero avvicendamento del vertice, senza considerare l’inefficienza dell’intera struttura sulla quale tale vertice è chiamato a operare in nome dello Stato».

Il silenzioso processo di smantellamento del welfare sanitario avvenuto nei primi venti anni del secondo millennio

Il taglio sul diritto alla salute, in particolare nel decennio pre-Covid, non ha avuto equivalenti rispetto agli altri settori della spesa pubblica. Appare significativo che l’Ufficio Parlamentare per il Bilancio, nel 2015, in relazione agli effetti in Italia delle varie manovre degli anni precedenti, abbia affermato: «Emergono inoltre alcuni segni di limitazione dell’accesso fisico (razionamento) ed economico (compartecipazioni) e tracce di una tensione nell’organizzazione dei servizi, legata alla limitatezza delle risorse finanziarie e umane, che potrebbero rivelarsi insostenibili se prolungate nel tempo. Questo avviene mentre i principali Paesi sviluppati allocano quantità sempre maggiori di risorse sulla sanità, seguendo una tendenza che riflette l’aumento della domanda di salute legato all’incremento del benessere e all’invecchiamento della popolazione, oltre che la scoperta di nuove tecnologie e le aspettative di sviluppo del settore»7.

Lo stesso documento precisava come in base ai dati Ocse «l’Italia è uno dei paesi membri che di recente hanno ridotto maggiormente la spesa sanitaria (pubblica e privata) pro capite in termini reali: ‐1,6 per cento in media annua tra il 2009 e il 2013 (cfr. Oecd (2015), “Health at a glance”)»8.

Il Ministero dell’economia e delle finanze, a sua volta, nel Rapporto 2022 sul monitoraggio della spesa sanitaria ha riscontrato che, a motivo delle carenze del sistema pubblico (tempi delle liste d’attesa, ecc.), la spesa out of pocket degli italiani (che hanno potuto permettersela), nel 2021 ha raggiunto l’impressionante cifra di 37,16 mld di euro9.

È una cifra che evidenzia come in Italia sia avvenuto un silenzioso processo di smantellamento del welfare sanitario.

L’emergere della nozione di spesa costituzionalmente necessaria

Rispetto a questi tagli, la Corte costituzionale, sino a poco tempo fa, non disponeva degli stessi, efficaci, strumenti che ha a disposizione per sindacare le “micro” violazioni del diritto alla salute: si pensi, per tutti, al caso deciso con la sentenza n. 992 del 1988, dove si afferma il dovere del Ssn di rimborsare una prestazione altamente specialistica (tomografia con apparecchio a risonanza magnetica nucleare), eseguita nell’unico istituto privato, non convenzionato, che allora risultava in possesso della strumentazione.

Sulle “macro” violazioni, derivanti appunto dal de-finanziamento nazionale del diritto alla salute, la Corte costituzionale, fino a poco tempo fa, risultava invece sostanzialmente disarmata e “costretta” ad arrendersi alla discrezionalità del legislatore.

Un’importante novità è stata introdotta con la sentenza n. 169 del 2017 che ha segnato una tappa molto importante sul tema del de-finanziamento del sistema sanitario.

Di fronte all’ennesimo taglio lineare sulla sanità, la Corte, infatti, ha abbandonato la posizione sin troppo conciliante del periodo precedente e ha posto finalmente un limite, distinguendo la spesa attinente al diritto sociale alla salute – l’unico espressamente qualificato come “fondamentale” dalla Costituzione – dalle altre spese che non sono costituzionalmente necessarie.

La sentenza, in particolare, ha invitato il legislatore a non effettuare «tagli al buio» sulla spesa sanitaria, ma «a corredare le iniziative legislative incidenti sull’erogazione delle prestazioni sociali di rango primario con un’appropriata istruttoria finanziaria».

Ha poi concluso, sul punto, rilevando: «In definitiva, non può sottacersi, nella perdurante inattuazione della legge n. 42 del 2009 già lamentata da questa Corte (sentenza n. 273 del 2013), l’esistenza di una situazione di difficoltà che non consente tuttora l’integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previste dall’art. 119 Cost.».

Si è trattato di una conclusione “pesante”, perché ha denunciato l’assenza nell’ordinamento italiano di una «doverosa separazione del fabbisogno Lea dagli oneri degli altri servizi sanitari», spingendosi fino a rilevare che «sotto tale profilo neppure la recente adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 (Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all’articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) è di per sé in grado di supplire a detta carenza»10.

Di qui l’ulteriore considerazione, dal valore di un deciso monito: «La persistenza di tale situazione può causare la violazione degli artt. 32 e 117, secondo comma, lettera m), Cost., nei casi in cui eventuali disposizioni di legge trasferiscano “a cascata”, attraverso i diversi livelli di governo territoriale, gli effetti delle riduzioni finanziarie sulle prestazioni sanitarie costituzionalmente necessarie (in tal senso sentenza n. 275 del 2016)».

La sentenza, in questi termini, ha colto il punctum dolens dello smantellamento del sistema di welfare sanitario cui prima si è accennato.

E da qui ne ha tratto la conseguenza di identificare la spesa sanitaria in termini di «spesa costituzionalmente necessaria» mostrando di voler condividere le tesi, sostenute da attenta dottrina11, dirette a sostenere, nel momento in cui ci trova di fronte alla scarsità delle risorse12, l’obbligo costituzionale di distinguere le spese attinenti ai diritti sociali da quelle che costituzionalmente necessarie non sono, senza cedere a indistinte giustificazioni di ogni scelta legislativa in nome del valore, che allora diventerebbe sì tiranno (per riprendere l’espressione di un’altra sentenza, la n. 85 del 2013), delle esigenze finanziarie dello Stato13.

Si tratta di un punto di approdo molto significativo che acquista ancora più rilevanza se si considerano i passaggi successivi della sentenza n. 169 del 2017, dove questa si rivolge sia al legislatore statale che a quello regionale, promuovendo un’indovinata concezione del riparto delle competenze, fondata sull’incontro delle responsabilità, anziché sullo scontro tra istituzioni. In quest’ottica, infatti, la sentenza rilancia la necessità di una «fisiologica dialettica» tra Stato e Regioni «improntata alla leale collaborazione che, nel caso di specie, si colora della doverosa cooperazione per assicurare il migliore servizio alla collettività».

In questi termini, si può senz’altro concludere che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 169 del 2017, ha acceso un nuovo e coraggioso faro sulla questione del (de)finanziamento del diritto alla salute, anche precisando che una volta individuati i Lea, questi divengono un limite costituzionale alle «indifferenziate» riduzioni della spesa pubblica, infatti: «una volta che questi siano stati correttamente individuati, non è possibile limitarne concretamente l’erogazione attraverso indifferenziate riduzioni della spesa pubblica».

La sentenza n. 169 del 2017 ha rappresentato quindi una tappa decisiva della giurisprudenza costituzionale per un adeguato rapporto tra esigenze finanziarie e diritto alla salute, segnando una linea invalicabile alla compressione di questo diritto fondamentale.

In conclusione, le concezioni affermate, i toni utilizzati e il metodo indicato nella sentenza n. 169 del 2017 hanno rimarcato la netta volontà di distinguere tra le spese che il legislatore può sacrificare e quelle che invece deve rispettare in un momento in cui le esigenze finanziarie14 hanno assunto il volto di un “convitato di pietra” la cui esistenza era impensabile in tempi più risalenti15.

Non è un fatto banale: non è inutile ricordare che proprio nell’anno in cui veniva adottato il decreto legge n. 78 del 2015 disponendo un taglio di circa 2,3 miliardi al finanziamento del diritto alla salute (cui è relativa la sentenza n. 169 del 2017), nella successiva legge di stabilità venivano introdotti vari bonus non legati a esigenze primarie, secondo una prassi che è poi proseguita negli anni successivi.

Va precisato che la comparsa della nozione di spesa costituzionalmente necessaria non è rimasta un episodio isolato nella giurisprudenza costituzionale, ma ha segnato un cambio di rotta di fronte al de-finanziamento del sistema sanitario: nella sentenza n. 87 del 2018 è stato ribadito che la dialettica tra Stato e Regioni deve «consistere in un leale confronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della dimensione della fiscalità territoriale nonché dell’intreccio di competenze statali e regionali in questo delicato ambito materiale».

Nella successiva sentenza n. 103 del 2018 si è poi precisato che in materia di sanità «le singole misure di contenimento della spesa pubblica devono presentare il carattere della temporaneità» e, infine, nella sentenza n. 233 del 2022, si è fatto riferimento «al punto di equilibrio raggiunto sulla definizione e finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni, che in ragione del principio di priorità della spesa costituzionalmente necessaria, deve essere assicurat[o] con prevalenza rispetto alla spesa e gestione ordinaria».

Il decreto appropriatezza e la decisione sulle cure: la regola rimane l’autonomia e la responsabilità del medico

La sentenza n. 169 del 2017 è importante anche per un ulteriore aspetto che ha trattato.

Veniva infatti messa in discussione, in quella vertenza, la legittimità costituzionale dell’art. 9-quater del d.l. n. 78 del 2015, che ha attribuito al Ministero della salute il compito di individuare con decreto le condizioni di erogabilità e di appropriatezza delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale.

Tale disposizione ha stabilito che le prestazioni erogate al di fuori delle condizioni previste dal decreto ministeriale di cui al comma 1 siano a totale carico dell’assistito; che gli enti del Ssn effettuino i controlli necessari ad assicurare che la prescrizione delle prestazioni sia conforme alle condizioni e alle indicazioni del suddetto decreto ministeriale; che, in caso di comportamento prescrittivo non conforme alle condizioni e alle indicazioni di cui al decreto ministeriale, l’ente adotti nei confronti del medico prescrittore una riduzione del trattamento economico accessorio e, nei confronti del medico convenzionato con il Ssn, una riduzione delle quote variabili dell’accordo collettivo nazionale di lavoro e dell’accordo integrativo regionale.

Da tale complesso normativo è poi scaturito il Decreto del Ministero della salute del 9 dicembre 2015, recante “Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell’ambito del Servizio sanitario nazionale”.

È importante considerare che la sentenza ha dato un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme sulla appropriatezza delle prescrizioni mediche, perché con toni molto decisi le ha ridotte a un semplice invito. Ha infatti affermato: «Esse non possono assolutamente conculcare il libero esercizio della professione medica, ma costituiscono un semplice invito a motivare scostamenti rilevanti dai protocolli. È invece assolutamente incompatibile un sindacato politico o meramente finanziario sulle prescrizioni, poiché la discrezionalità legislativa trova il suo limite «[nel]le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)».

Per cui: «La medicina è una scienza in evoluzione pertanto non è possibile imporre una metodica prettamente finanziaria nelle linee guida poiché le acquisizioni scientifiche sono in continua evoluzione e la loro applicazione dipende dall’autonomia e dalla responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002), (sentenza n. 151 del 2009)».

Nemmeno il diritto alla salute può però diventare “tiranno”

Ciò detto, va precisato che il diritto alla salute, pur nel particolare rilievo che lo caratterizza, deve comunque poter essere bilanciato con tutti gli altri diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, che si trovano in un rapporto di integrazione reciproca: non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri.

La loro tutela deve essere sempre sistemica, perché se così non fosse, «si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona».

È quanto la Corte costituzionale ha affermato nella sentenza n. 53 del 2013, in relazione al caso Ilva di Taranto, dove il giudice rimettente aveva invece chiesto proprio di far valere in modo assoluto il diritto alla salute, contestando la legge che consentiva la riapertura dell’impianto, a discapito di tutti gli altri diritti fondamentali, come per esempio il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost.

L’emblematico caso Zolgensma e la legge della Regione Sicilia dichiarata costituzionalmente illegittima

Un altro episodio significativo ha poi caratterizzato la giurisprudenza costituzionale che ha chiarito come il riconoscimento del diritto alla salute come incomprimibile e la definizione della spesa sanitaria come costituzionalmente necessaria non equivalgono a una sorta di passe-partout per qualsiasi spesa sanitaria.

Nello specifico è stato portato all’attenzione della Corte l’articolo 53 della legge della Regione Sicilia n. 9/2021, che autorizzava la spesa di 4,2 milioni di euro per finanziare, a carico della Regione, la terapia genica per la cura dell’atrofia muscolare spinale (Sma) con il farmaco Zolgensma – uno dei più costosi al mondo – per una categoria di pazienti (sei pazienti che erano stati individuati dal direttore dell’Unità operativa complessa di neurologia dell’Azienda ospedaliero-universitaria Policlinico di Messina) di peso superiore a quanto fissato dalla delibera dell’Aifa n. 277 del 21 marzo 2021, che ha previsto la rimborsabilità del farmaco Zolgensma esclusivamente per il trattamento di pazienti con peso massimo di 13,5 kg.

La sentenza ha dichiarato illegittima la norma in quanto «prevedendo l’erogazione del farmaco Zolgensma per bambini di peso compreso fra i 13,5 e i 21 kg, non rispettava la determinazione dell’Aifa n. 277 del 21 marzo 2021, che ha stabilito la totale rimborsabilità dello Zolgensma, esclusivamente per il trattamento di pazienti con peso massimo di 13,5 kg».

La sentenza ha quindi concluso che un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non può nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì deve fondarsi sulle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – nazionali o sovranazionali – a ciò deputati.

L’altrettanto significativo, e opposto, caso dell’analisi genomica avanzata (Esoma) prevista della legge della Regione Puglia

Altrettanto significativo, tuttavia, è anche il caso del ricorso statale avverso l’art. 1 della legge della Regione Puglia n. 28 del 2021, che, dopo aver istituito il «servizio di analisi genomica avanzata con sequenziamento della regione codificante individuale – Esoma», ha disposto che «[i]l servizio è garantito dal Servizio sanitario regionale in totale esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria, come previsto dalla normativa vigente sul sospetto diagnostico per malattia genetica rara, prevista dai livelli essenziali di assistenza (Lea)».

La Corte costituzionale ha salvato la norma regionale, affermando, contro quanto dedotto dalla difesa statale, che il suddetto servizio di analisi genomica avanzata doveva, in fondo, ritenersi incluso nei Lea, altrimenti incredibilmente cristallizzati al livello dei mezzi terapeutici del 2001, ovvero di più di vent’anni fa.

Ha però contemporaneamente riscontrato il gravissimo ritardo, dal punto di vista della tutela della salute, nell’aggiornamento del nomenclatore dei Lea, che già elaborato nel (lontano) 2017, ancora non è entrato in vigore a causa di mancanza di accordo tra lo Stato e le Regioni sul relativo finanziamento.

Ha quindi vivamente sollecitato Stato e Regioni a trovare una intesa per aggiornare il suddetto nomenclatore, ribadendo, in sostanza, il concetto di spesa costituzionalmente necessaria, perché il «tempo trascorso, da cui deriva la sicura obsolescenza delle prestazioni previste, non trova alcuna giustificazione in relazione a un tema essenziale per la garanzia del diritto alla salute in condizioni di eguaglianza su tutto il territorio nazionale, senza discriminazione alcuna tra regioni».

Nell’aprile di quest’anno, in osservanza al suddetto monito, la conferenza Stato-Regioni ha trovato l’accordo sull’approvazione del nuovo nomenclatore dei Lea, quindi finalmente colmando il suddetto ritardo.

Una breve conclusione

L’aver indentificato la nozione di spesa costituzionalmente necessaria ha rappresentato, come è stato anche di recente ribadito, un momento importante nella giurisprudenza costituzionale, perché ha consentito di garantire «il rispetto dei principi di eguaglianza e solidarietà nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali»16.

La giurisprudenza costituzionale, infatti, in linea con tale definizione ha potuto ribadire e sviluppare il principio che è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (sentenza n. 275 del 2016), mostrandone anche le concrete implicazioni.

La spesa relativa alla sanità, connotandosi come “costituzionalmente necessaria”, riveste quindi all’interno della giurisprudenza costituzionale una considerazione molto particolare nella valutazione della legittimità dei bilanciamenti operati dal legislatore.

Tale definizione, se non conferisce alla spesa per la sanità un carattere di assoluta prevalenza, vale comunque a distinguerla rispetto alle altre che compongono il bilancio pubblico (in specie a quelle che non si ricollegano a diritti costituzionali): della nozione sviluppata dalla Corte il legislatore deve quindi tenere attento e consapevole conto perché la Corte costituzionale l’ha posta a presidio della tutela della salute.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

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8. Ufficio Parlamentare di Bilancio. La revisione della spesa pubblica: il caso della sanità. Focus Tematico 2015; n. 9, 21 dicembre, p. 10, nt. 35. Disponibile su: https://bit.ly/3oNxjva [ultimo accesso 20 luglio 2023].

9. Ministero dell’Economia e delle Finanza. Monitoraggio della spesa sanitaria: rapporto della Ragioneria generale dello Stato, Roma, 2022. Disponibile su: https://bit.ly/3As4M13 [ultimo accesso 20 luglio 2023].

10. Bergo M. I nuovi livelli essenziali di assistenza. Al crocevia fra la tutela della salute e l’equilibrio di bilancio. Rivista Aic 2017; (2). Disponibile su: https://bit.ly/3mW3jgl [ultimo accesso 20 luglio 2023].

11. Carlassare L. Diritti di prestazione e vincoli di bilancio. Costituzionalismo.it 2015; 1° dicembre, p. 142. Disponibile su: https://bit.ly/3Hefqw9 [ultimo accesso 20 luglio 2023].

12. Antonini L. Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali. Milano: Giuffrè, 1996; pp. 352 e ss.

13. Luciani M. Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale. Rivista Aic 2016; (3). Disponibile su: https://bit.ly/3pjHckI [ultimo accesso 20 luglio 2023].

14. Rivosecchi G. L’equilibrio di bilancio: dalla riforma costituzionale alla giustiziabilità. Rivista Aic 2016; (3). Disponibile su: https://bit.ly/40Ia3w6 [ultimo accesso 20 luglio 2023].

15. Carlassare L. Bilancio e diritti fondamentali: i limiti “invalicabili” alla discrezionalità del legislatore. Giur Cost 2016; (6): 2340.

16. Intervento della Presidente Silvana Sciarra, Solidarietà alla prova. Corte costituzionale, sicurezza sociale e diritti, cerimonia di apertura delle celebrazioni per i 125 anni dalla fondazione dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale. L’evoluzione del welfare e del lavoro per innovare il Paese. Roma, 3 marzo 2023. Disponibile su: https://bit.ly/41SANuY [ultimo accesso 20 luglio 2023].