Qualità medica e governo delle strutture sanitarie:
l’alleanza pubblico-privato-civile

Stefano Zamagni1

1Già professore ordinario di Economia politica, Università di Bologna e Adjunct Professor of Political Economics, SAIS Europe della Johns Hopkins University; Componente della Consulta scientifica del Cortile dei Gentili.

Pervenuto il 15 giugno 2023. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. Duplice la mira del paper. Per un verso, esplicare la nozione di qualità medica e i presupposti di valore su cui essa poggia. Per l’altro verso, suggerire che la via necessaria da percorrere è il superamento dell’organizzazione tayloristica delle strutture sanitarie. Il lavoro si conclude con l’illustrazione dei risultati positivi associati all’alleanza tra pubblico, privato e civile in sanità.

Parole chiave. Anti-taylorismo, governo clinico, sussidiarietà circolare.

Medical quality and governance of health structures: the public-private-civil alliance.

Summary. The paper pursues a dual purpose. On the one hand, to esplicate the meaning of the notion of clinical quality and of the value system supporting it. On the other hand, to suggest that the most urgent measure to put into practice is the overcoming of the Tayloristic organization of health structures. In the last section, the paper indicates the positive aspects of the public, private and civil alliance in the health sector.

Key words. Anti-taylorism, circular subsidiarity, clinical governance.

Introduzione e motivazione

Il governo clinico mira all’eccellenza della qualità medica delle prestazioni, una qualità definita rispetto a quattro principali dimensioni:

1. l’efficacia delle prestazioni misurata dalla relazione tra esiti raggiunti (outcome) e output;

2. l’appropriatezza dei metodi e degli strumenti impiegati nella pratica clinica;

3. la riduzione del rischio cui il paziente viene esposto ogniqualvolta si sottopone alle cure;

4. la relazionalità che dice della qualità del rapporto interpersonale che va a instaurarsi tra medico e paziente.

Mentre sulle prime due dimensioni da tempo si va riflettendo, soprattutto da parte di coloro che si occupano della cosiddetta “evidence-based medicine”, è sulle altre due dimensioni che scarsa è l’attenzione. La questione del rischio nell’assistenza medica comporta che non si accetta più, come qualcosa di inevitabile, l’esito sfavorevole di un trattamento medico, ma come qualcosa di imputabile, quanto meno indirettamente, alla responsabilità del medico curante. In termini economici, questo significa che il paziente oggi tende a non considerarsi più un last-risk bearer, il soggetto cioè sulle cui spalle va a ricadere il rischio residuo che ancora permane dopo che tutte le regole protocollari sono state scrupolosamente rispettate1.

A ben considerare, è proprio questo fenomeno del last-risk bearing a spiegare il numero crescente di denunce per malpractice medica; l’aumento, ignoto nelle epoche precedenti, delle pratiche di medicina difensiva (defensive medicine); l’innalzamento dei costi dovuti sia alle spese legali sia alle spese per le polizze assicurative dei medici e degli ospedali. Donde il seguente paradosso, a dir poco sconcertante: il miglioramento della qualità delle prestazioni mediche dovuto all’aumento dell’efficacia e dell’appropriatezza delle stesse si accompagna a un aumento delle probabilità che il medico possa venire legalmente perseguito. Si veda, a questo riguardo, la sentenza 4400/2004 della Cassazione (III sez. civ.) che ha introdotto il principio per cui il paziente ha diritto a essere risarcito per la perdita di opportunità dovute a errore medico. (Si badi che tali opportunità sono considerate come un bene giuridicamente tutelabile in aggiunta al bene salute tutelato dalla corretta applicazione della cura). Non v’è chi non veda il pericolo che si profila all’orizzonte: il medico potrebbe venire a trovarsi nella quanto mai imbarazzante situazione di dover scegliere tra l’applicazione pedissequa di un protocollo, magari obsoleto, che tuttavia vale a minimizzare il rischio di essere perseguito per malpractice, e l’adozione di una diversa linea di intervento che egli giudica, in coscienza, meglio rispondente alla situazione concreta del paziente e che però accresce sensibilmente il rischio di azioni legali nei suoi confronti. Ma v’è di più. La prassi, in rapida diffusione, di rivolgersi al giudice tutte le volte in cui si hanno recriminazioni nei confronti del medico, sta svuotando il senso della deontologia, la quale per sua natura è preposta alla regolazione del rapporto asimmetrico tra medico e paziente. Il diritto, invece, è attrezzato per trattare rapporti di simmetria, di pariteticità tra le parti. (“La legge è uguale per tutti”). La tendenza a concepire un rapporto asimmetrico in termini giuridici come rapporto simmetrico è gravida di conseguenze perverse, la più seria delle quali è la “giuridificazione” della professione medica.

Relativamente alla dimensione della relazionalità, la questione a essa sottesa è quella della qualità del rapporto tra medico e malato. In particolare, come passare dal paternalismo, da tutti avversato, al principio di autonomia del paziente per il quale questi ha ragione di reclamare il diritto di esprimersi sulle questioni riguardanti il suo stato di salute? Il dibattito, oggi acceso più che mai, concerne l’interpretazione positiva da dare al principio di autonomia, dal momento che, se estremizzata, l’autonomia conduce a risultati certamente perversi. Invero, un’autonomia concepita come smodata rivendicazione della facoltà di trattare il medico come un mero venditore o fornitore di tecniche diagnostico-terapeutiche, non consente affatto che si possa attuare la cosiddetta “amicizia medica”.

In buona sostanza, il problema da affrontare è quello di come trovare una via pervia tra la Scilla del modello paternalistico (“il medico solo sa cosa è bene per il paziente”) e la Cariddi del modello contrattualistico che, in nome del principio di autonomia del malato, rende il medico un esecutore-specialista che mette sul mercato le sue competenze. Se il primo modello rinuncia, del tutto irrazionalmente, a tenere conto delle informazioni che al medico possono derivare dal paziente – ciò è soprattutto grave quando si ha a che fare con i portatori di patologie croniche, casi nei quali il paziente può risultare in un certo senso più esperto del medico – il secondo modello rischia di incrinare il rapporto fiduciario che sempre deve esistere tra medico e paziente e ciò a causa del rapporto contrattuale fra paziente e medico che quel modello postula. Solamente all’interno di una prospettiva di discorso relazionale, che concettualizza il rapporto tra chi è dipendente e chi si prende cura come rapporto di reciprocità, è possibile individuare la via pervia di cui ho detto or ora. Tale rapporto, infatti, va letto nella logica della simmetria dei bisogni, dato che oltre al bisogno di essere sostenuti v’è anche il bisogno di sostenere2.

Del superamento dell’organizzazione tayloristica dell’ospedale

Da quanto precede traggo una conclusione di grande momento. Nelle condizioni storiche attuali non è concepibile che il medico venga tenuto ai margini della gestione delle risorse allocate alla struttura sanitaria in cui opera. Il vecchio adagio: “il medico faccia il medico, il manager amministri” oggi è vuoto di senso, e ciò per l’evidente ragione che il processo decisionale in ambito clinico vede le dimensioni clinica e gestionale talmente intrecciate fra loro che non è più possibile pensare a un modello organizzativo che le dicotomizzi. Ebbene, è precisamente a questo punto che il vincolo di economicità entra nelle scelte di clinical governance. Nel concreto, questo significa passare dalla qualità medica alla qualità totale; vale a dire si tratta di aggiungere alle quattro dimensioni di cui sopra si è detto quella della economicità della gestione ospedaliera (dalla gestione dei flussi finanziari a quella dei rapporti esterni e interni alla struttura).

Il viceversa accade con il responsabile ultimo dell’amministrazione. Per il direttore generale, l’economicità in senso ampio della gestione costituisce l’obiettivo che lui deve raggiungere, mentre le quattro dimensioni rappresentano piuttosto altrettanti vincoli. Come a dire che la funzione obiettivo del medico è il vincolo del problema decisionale del direttore generale; d’altro canto, l’obiettivo di quest’ultimo è il vincolo del problema decisionale del medico. Un’azienda ospedaliera che non tenesse in seria considerazione l’obiettivo del manager non risulterebbe sostenibile, non potrebbe cioè durare nel tempo; al tempo stesso, però, se non accogliesse la funzione obiettivo del medico non avrebbe ragione di esistere, sarebbe cioè un vero e proprio spreco sociale.

In quale modo nella realtà si è finora cercato di risolvere questo conflitto tra direttore generale e medico? Mediante l’elaborazione di più o meno sofisticati schemi di incentivo e mediante l’impiego di ben definiti processi negoziali. Questa strategia ha indubbiamente prodotto risultati di rilievo, dando luogo, almeno in alcune regioni italiane, a interessanti modelli organizzativi. Tuttavia, sono dell’idea che si sia ormai entrati nella regione dei rendimenti fortemente decrescenti: non è realistico pensare che si possano conseguire miglioramenti significativi sul fronte della qualità totale – vale a dire, qualità medica più economicità – restando all’interno di quella strategia. La ragione è presto detta. Come indica Sterpi3, il fatto è che mentre il medico è un double agent, il direttore generale è un single agent. Vedo di chiarire. Double agent significa che il medico vive due rapporti di agenzia: il primo, nei confronti del paziente, al quale deve assicurare la qualità medica; il secondo, nei confronti del direttore generale, il cui obiettivo ultimo è – come si è detto – l’economicità della gestione. Il medico deve dunque agire nell’interesse e per conto di due principali, le cui funzioni obiettivo non sono affatto tra loro congruenti. Nell’esercizio della sua attività, il medico deve infatti tener conto anche degli effetti economico-finanziari che le sue decisioni cliniche andranno a produrre.

Non così, invece, il direttore generale il cui unico principale è l’autorità politico-amministrativa che lo ha scelto, cioè la Regione. Quest’ultima, in verità, è un principale di seconda istanza dal momento che suo compito specifico è quello di attuare le politiche sanitarie pattuite, al momento della competizione elettorale, con i cittadini dai quali ha ottenuto la legittimazione a governare. I cittadini dunque sono il principale di prima istanza, ma sono di fatto impediti dall’esercitare il potere di controllo che loro spetterebbe per via di un fondamentale conflitto intrapersonale: per un verso, in quanto contribuenti, hanno interesse a pagare le tasse nella misura più bassa possibile; per l’altro verso, in quanto pazienti potenziali, i medesimi cittadini hanno interesse a disporre di sempre maggiori e migliori servizi e prestazioni sanitarie. È a causa di questa peculiare forma di conflitto, più ancora che per le pur rilevanti asimmetrie informative, che la Regione finisce con l’esercitare i poteri di governo e di controllo tipici di un principale di prima istanza. In definitiva, il direttore generale è agente della Regione-principale alla quale risponde, e al tempo stesso è principale del medico, al quale chiede di dar conto del proprio operato rispetto agli obiettivi fissati nel piano di produzione dell’azienda ospedaliera.

Siamo ora in grado di comprendere la natura dell’asimmetria di poteri cui alludevo all’inizio: il direttore generale ha potere sul medico, ma il viceversa non è vero. Ebbene, come tutti i teorici dell’organizzazione ci informano – da H. Simon a H. Mintzberg4 – un tale assetto organizzativo non può funzionare bene e a lungo. Invero, se all’attribuzione di responsabilità a un soggetto non fa riscontro un corrispondente potere di concorrere alla definizione del processo decisionale, non ci sarà alcun contratto incentivante capace di guadagnare alla struttura la fiducia di quel soggetto, scongiurando così i rischi del free riding e dello shirking. Non è concepibile che il medico possa dare il meglio di sé quando è tenuto ad assecondare le richieste, fra loro inconciliabili, di due diversi principali senza essere posto nella condizione di codefinire né gli obiettivi specifici da raggiungere né le modalità operative di intervento. Si pensi, per fare un solo esempio, alla questione dell’efficacia delle prestazioni; non si arriverà a definire misure adeguate e “oggettive” dell’efficacia fin tanto che permarrà l’asimmetria di cui stiamo parlando. Dove conduce questo ragionamento? Molto semplicemente, all’adozione del modello multistakeholder di governo, in sostituzione di quello singlestakeholder ovvero del modello monocratico, come nel nostro Paese si preferisce chiamarlo.

Dell’alleanza tra pubblico, privato e civile in sanità

Considerato che la spesa sanitaria è destinata ad aumentare nel corso del tempo per ragioni strutturali, che prescindono cioè dalle varie forme di spreco e di mala gestio e preso atto che questo aumento è di un tale ordine di grandezza da rendere di fatto impraticabile qualsiasi tentativo di porvi rimedio con gli usuali strumenti della fiscalità generale, che fare? Due, basicamente, i modi di risposta possibili. Quello tradizionale si appoggia sul seguente schema concettuale: si parte dal vincolo delle risorse disponibili e si cerca di massimizzare l’offerta di prestazioni sanitarie compatibilmente con il vincolo medesimo. In buona sostanza, si tratta di intervenire sui livelli di efficienza (allocativa e tecnologica) allo scopo di migliorare la produttività del lavoro di tutti coloro che prendono parte al processo sanitario. È in ciò il senso ultimo dell’aziendalizzazione in sanità e delle varie pratiche (esplicite e, più spesso, implicite) di razionamento delle prestazioni. Non si può certo negare che risultati positivi siano stati raggiunti su tale fronte. Se di ciò dobbiamo andare orgogliosi, si deve al tempo stesso ammettere che non sarebbe onesto far credere ai cittadini e ai policy makers che è possibile affrontare, in futuro, il problema dell’aumento strutturale della spesa sanitaria continuando unicamente sulla via delle razionalizzazioni, dell’aziendalizzazione e degli strumenti a essi connessi (Drg; schemi di incentivo; managed competition; raffinamenti dei sistemi di finanziamento; razionamento per Qaly; ecc.)5.

Ecco perché ritengo preferibile l’altro modo di risposta: quello di considerare l’insieme delle attività connesse alla cura della salute come un vero e proprio “distretto sanitario”, in analogia al concetto di “distretto industriale”. È come pensare a una lunga catena, nella quale l’ospedale occupa l’anello centrale. A monte dell’ospedale si collocano tutte quelle imprese o organizzazioni produttive che si occupano di biomedicale; farmaceutico; telemedicina; farmacogenomica (che è oggi il settore trainante del biotech e che aspira a utilizzare le informazioni genomiche su come la variabilità genetica individuale contribuisce alla variabilità nell’azione dei farmaci in individui diversi ). A valle dell’ospedale vi sono i consumatori dei servizi sanitari, o meglio le reti di famiglie, dalle quali dipendono forme di protezione e di promozione della salute non meno importanti dei presidi sanitari. Ne deriva che strategie di “Community building” dei consumatori di servizi sanitari servono a realizzare quell’alleanza tra Terzo settore e operatori sanitari dalla quale possono derivare risorse, monetarie e non, tutt’altro che marginali. In buona sostanza, l’idea è quella di far affluire alla sanità risorse aggiuntive rispetto a quelle provenienti dalla fiscalità generale. Per dirla con uno slogan, si tratta di passare dalla managed competition alla managed cooperation (la Norvegia è stata il primo Paese a muovere passi decisi in questa direzione con una legge del 1995).

Quali presupposti devono essere soddisfatti per rendere pervio un simile passaggio? Mi soffermo su uno soltanto di questi, per ovvie ragioni di spazio. È il presupposto che chiama in causa i rapporti tra università e centri di ricerca, da un lato, e le tante imprese che si collocano a monte dei presidi sanitari, dall’altro. Come è noto, nella letteratura economico-manageriale, i rapporti in questione continuano a essere rappresentati nei termini di una mera attività di trasferimento tecnologico: l’università fa ricerca di base e trasferisce poi i risultati conseguiti agli utilizzatori industriali che se ne servono per realizzare i propri piani di produzione. Da qualche tempo, questo modello di rapporti ha cessato di essere applicato perché non è più in grado di generare i frutti desiderati. Non è difficile darsene conto. Si parla, oggi, di “cooperazione tecnologica”: università e imprese cercano di sviluppare accordi di cooperazione per dare vita, insieme, a progetti innovativi, scambiando informazioni e competenze e, soprattutto, mettendo in comune le risorse necessarie. Quale la novità di maggior peso che è alla base del nuovo modello? Quella di superare l’approccio diadico (singola università - singola impresa) che ha finora dominato il sistema delle relazioni tra università e industria. Tale approccio ha sempre penalizzato Paesi come il nostro che, notoriamente, difettano di imprese di grandi dimensioni. Piuttosto, si tratta di coinvolgere, sulla base di ben studiati assetti organizzativi, l’insieme delle istituzioni pubbliche e delle imprese private nella realizzazione di progetti tecnologici innovativi.

Nessuno può nascondersi le difficoltà insite nella realizzazione pratica di questo secondo modo di risposta. Si tratta, essenzialmente, di difficoltà di ordine politico, concernenti cioè la distribuzione del potere. È questo che, come è immaginabile, fa problema; non già le difficoltà tecniche e tanto meno quelle culturali. Ma non vi sono alternative all’orizzonte. Se si ha a cuore l’universalismo in sanità, se si vuole evitare di imboccare la via del razionamento delle cure, se si vuole che il sistema si mantenga sostenibile, se si desidera che gli aumenti dei livelli qualitativi delle prestazioni non avvengano a scapito dell’equità delle cure, non vi è altra strada da percorrere6.

Verso la piena attuazione del principio di sussidiarietà circolare

L’argomento sviluppato in questa nota ha un fine ultimo, quello di mostrare che il governo di un sistema complesso come è il sistema sanitario non può essere messo in opera restando all’interno della tradizionale contrapposizione tra una visione statalista e una liberista dell’ordine politico-economico. Secondo tale concezione, controllo statuale e meccanismo di mercato vengono visti come alternative antitetiche per il disegno di un sistema sanitario. Eppure, è cosa ormai nota che né l’istituzione Stato né l’istituzione mercato sono in grado, da sole, di risolvere conflitti fondamentali e, in particolare, di sciogliere in modo accettabile quelle “scelte tragiche” che si presentano in sanità in modo sistematico e non occasionale.

Rispetto a tale concettualizzazione dicotomica – invero, alquanto obsoleta – giudico più promettente la via di un rapporto cooperativo tra settore pubblico e settore privato secondo cui lo Stato assume, da un lato, la funzione di stimolatore dell’evoluzione di assetti organizzativi chiamati ad annullare le sacche di inefficienza endemicamente presenti in sanità e, dall’altro, la funzione di regolatore, cioè di ordinatore che agisce in modo promozionale della società civile per scongiurare i rischi, sempre in agguato, del privatismo sanitario. Al tempo stesso, al settore privato, che deve articolarsi nelle forme diverse ma complementari dell’economia privata e dell’economia civile, spetta il duplice compito di fornire le risorse aggiuntive rispetto a quelle raccolte con la fiscalità generale per rendere sostenibile un welfare sanitario di tipo universalistico, e di contrastare le tentazioni ricorrenti di dirigismo economico e politico mostrando, con i fatti, come si possa arrivare a esiti socialmente ottimali in sanità.

Conflitto di interessi: l’autore dichiara l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Heyes A. The economics of vocation. J Health Econ 2005; 24: 561-9.

2. Zamagni S. Sui presupposti economici e politico-filosofici di un nuovo universalismo sanitario. In: Donati P. Lo stato sociale in Italia. Milano: Mondadori, 1999.

3. Sterpi S. Governo clinico e vincoli di economicità. Politiche Sanitarie 2005; 6: 175-87.

4. Mintzberg H, Simon H. La progettazione dell’organizzazione aziendale. Bologna: il Mulino, 1996.

5. Broome J. Qalys. J Public Econ 1993; 50: 149-67.

6. Carra L, Vineis P. Il capitale biologico. Le conseguenze sulla salute delle diseguaglianze sociali. Torino: Codice Edizioni, 2022.