Alcune aree critiche del sistema sanitario:
anziani, malati cronici, donne, minori, migranti

Carla Collicelli1,4, Giuseppe R. Gristina2,4, Francesca M. Corrao3,4

1Cnr Ethics e Sapienza Combiomed; 2Medico, anestesista-rianimatore; 3Dipartimento di Scienze politiche, Università Luiss, Roma; 4Componente della Consulta scientifica del Cortile dei Gentili.

Pervenuto il 15 giugno 2023. Non sottoposto a revisione critica esterna alla direzione della rivista.

Riassunto. I principi di uguaglianza e di non discriminazione sono di rilevante importanza soprattutto quando si considerano le persone o le comunità che per le loro specifiche fragilità sono particolarmente svantaggiate. In questa eterogenea popolazione rientrano gli anziani, le donne, le persone affette da malattie cronico-degenerative, i minori, i migranti. Riguardo a ciascuno di questi gruppi vi sono purtroppo ampie testimonianze del fatto che, anche nelle nostre società occidentali, spesso i loro diritti sono trascurati, o peggio, negati. Impegnarsi perché questi diritti siano rispettati ha pertanto profonde implicazioni per il loro status. Questo è massimamente evidente nel settore sanitario, dove le decisioni e le azioni dei professionisti impattano sulla vita di tutte queste persone in modo profondo e intimo. D’altra parte, il riconoscimento e il rispetto del diritto alla salute di queste popolazioni non può essere percepito come un’opzione paternalistica o come espressione di una qualche forma di beneficenza. Esso genera obblighi e responsabilità che devono essere attentamente considerati, onorati e recepiti nella cultura di tutti i professionisti sanitari in primo luogo e dell’intera comunità. Questo articolo analizza le problematiche economiche, organizzative e culturali che, ancora oggi e specialmente nell’attuale fase post-pandemica, anziani, donne, malati cronici, minori e migranti incontrano nel vedere riconosciuto il loro diritto alla salute in un Paese il cui sistema sanitario nazionale si dice universalista.

Parole chiave. Anziani, donne, malati cronici, migranti, minori, sistema sanitario nazionale.

Some critical areas of the italian healthcare system: the elderly, the patients with chronic diseases, women, minors, migrants.

Summary. The principles of equality and non-discrimination are especially relevant when considering people or communities who are particularly disadvantaged due to their specific frailties. This heterogeneous population includes, but is not limited to, the elderly, women, the patients suffering from chronic-degenerative diseases, the minors and the migrants. With regard to each of these groups, there is strong evidence deriving from scientific, sociological and juridical research that, even in our Western societies, their rights are often neglected or, even worse, denied. Therefore, to making sure that these rights are respected has profound implications for their status. This is most evident in the field of healthcare, where the professionals’ choices, decisions and actions impact the lives of all these people in a profound and intimate way. On the other hand, to recognize and respect the right to health of these populations must be perceived neither as a paternalistic option nor as an expression of some kind of charitable work. Otherwise, respecting the right to health of frail people generates obligations and responsibilities that have to be carefully considered, honored and embedded in the culture of all healthcare professionals as well as in the culture of the entire community. This article analyzes the economic, organizational and cultural problems and limitations that, still today and especially in the current post-pandemic phase, the elderly, women, the chronically ill, minors and migrants face in seeing their right to health recognized and respected in a country whose national health system claims to be universalist.

Key words. Elderly, migrants, minors, national healthcare system, patients suffering from chronic diseases.

Gli anziani, le cronicità, il territorio

È una peculiarità della struttura demografica italiana quella data dalla lunga aspettativa di vita. Come ci ricorda il Censis1, «alla fine dell’800 la speranza di vita alla nascita era solo di 35,5 anni, da allora è progressivamente cresciuta e dopo il balzo degli anni del secondo dopoguerra è aumentata mediamente ogni anno di 3,5 mesi, fino ad arrivare agli 81,1 anni per i maschi e agli 85,4 anni per le donne nel 2019».

La pandemia ha fatto registrare un peggioramento da questo punto di vista nel 2020 rispetto al 2019, soprattutto per l’impatto del Covid in termini di mortalità diretta e indiretta. Accanto a ciò, si cominciano a raccogliere solide evidenze anche sui ritardi accumulati in termini di prevenzione, screening e continuità delle cure per tutte le altre patologie, e in particolare per quelle croniche gravi (oncologia in primis), a causa dell’intasamento delle strutture ospedaliere a seguito della pandemia. Il che rimanda a un prevedibile aumento del peso delle patologie croniche e delle disabilità in un prossimo futuro, in Italia come in tutti i Paesi economicamente avanzati, sia come conseguenza dell’allungamento della vita sia per effetto della complessità epidemiologica e terapeutica e dei ritardi accumulati per la pandemia2.

L’incidenza delle patologie croniche e delle disabilità costituisce un problema rilevante per il sistema sanitario italiano da molti anni a questa parte, e ha mostrato nel periodo tra 2009 e 2019 in termini di valore assoluto un andamento crescente, sia per l’intera popolazione sia per la popolazione over 65, anche se in termini percentuali si registra una diminuzione per la popolazione over 65 (tabella 1).




Gli indici previsionali calcolati dall’Istat al 2041 (tabella 1) segnalano che gli italiani con almeno una malattia cronica dovrebbero passare dal 40,9% del 2019 al 45% del 2041, e quelli con più di una malattia cronica dal 21,1% al 23,7%. Non dovrebbe aumentare in termini percentuali l’incidenza degli ultra 65 enni sul totale dei malati cronici, che dovrebbe diminuire rispettivamente dall’80% al 76,4% per una patologia cronica e dal 65,2% al 51,1% per due o più patologie croniche. E ciò anche per effetto della crescente diffusione di queste patologie tra le categorie di età più giovani.

Ma impressiona la stima dei valori assoluti: l’Istat prevede che gli ultra 65 enni con una patologia cronica saranno, nel 2041, 15 milioni 480 mila, e quelli con più patologie croniche 10 milioni 365 mila. Rilevante anche la notazione per cui aumenteranno, sempre secondo le previsioni dell’Istat, coloro che pur soffrendo di una o più patologie croniche, si considereranno in buona salute, dal 43,1% al 48,7% per il totale e dal 28,3% al 44,9% per gli ultra 65 enni malati cronici.

È evidente, alla luce dei dati riportati, che la situazione sanitaria del Paese non potrà che registrare un’accentuazione delle problematiche legate alle patologie croniche, specie per quanto riguarda la fascia di età anziana, pur in presenza di un contemporaneo continuo miglioramento sul piano delle possibilità terapeutiche e della qualità della vita.

Una conseguenza di quanto sopra è la necessità di rafforzare il rapporto tra ospedale e “territorio”, e contemporaneamente quella di una attenzione più mirata per le cronicità e le fragilità. Molti sono i contributi che hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori e amministratori su questa emergenza, presente e futura. Un esempio particolarmente importante è quello del Rapporto realizzato da Istat e Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana, istituita presso il Ministero della salute e presieduta da monsignor Vincenzo Paglia, che ha prodotto dati originali sull’entità di difficoltà motorie, comorbilità e compromissioni dell’autonomia nella popolazione anziana (circa 2,7 milioni di over 75), sulla carenza degli aiuti (1,2 milioni di anziani che dichiarano di non poter contare su un aiuto adeguato alle proprie necessità) e sui circa 100 mila anziani che, oltre a essere soli o con familiari anziani, sono anche poveri di risorse economiche3.

Accanto alle strategie di rafforzamento delle sanità territoriale e delle cure per le disabilità, un processo molto importante che riguarda la componente anziana della popolazione degli ultimi anni, e che dovrebbe poter crescere nel tempo in futuro, è quello che va sotto il nome di “invecchiamento attivo”, su cui lavorano molti centri di ricerca e si muovono anche istituzioni ai vari livellia. La definizione di “invecchiamento attivo” più rilevante è quella proposta dall’Oms nel 2002: «Si intende invecchiamento attivo quel processo di ottimizzazione delle opportunità relative alla salute, partecipazione e sicurezza, allo scopo di migliorare la qualità della vita delle persone anziane». E va rimarcato che anche la Commissione economica per l’Europa delle nazioni unite (Unece) ha collegato le priorità del Mipaa (il Piano di azione internazionale on active ageing sottoscritto a Madrid nel 2002) agli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030).

La salute delle donne

Nel quadro della più ampia tematica dell’equità di genere, la questione delle disuguaglianze nel campo della salute e delle cure sanitarie riveste un’importanza fondamentale. E non solo con riferimento al benessere delle donne e alla giustizia sociale rispetto al genere femminile, ma anche sulla base della convinzione che il benessere e la salute delle donne siano di assoluta rilevanza per il benessere collettivo e per la definizione di un modello più avanzato di sviluppo sostenibile e di società attenta agli equilibri eco-sistemici.

Non molti sono gli studi che hanno affrontato la questione dell’equità di genere rispetto alla salute e alla sanità in Italia e nel mondo. Quelli esistenti si sono occupati in modo particolare dei seguenti aspetti: le differenze di spesa sanitaria pro-capite, pubblica e di tasca propria; le morti evitabili con la prevenzione e con le terapie; la speranza di vita alla nascita; l’accesso alle cure e alle terapie innovative; la presenza di servizi sul territorio; i tempi di attesa per l’accesso alle cure.

Per quanto riguarda la speranza di vita alla nascita, a livello europeo le donne vivono sei anni in più degli uomini (84 anni contro 78 anni), ma il 33% delle donne, contro il 28% degli uomini, non si considera in buona salute. Il numero di anni di vita in buona salute è aumentato nel periodo più recente per gli uomini in 19 Stati membri e per le donne in 15 Stati membri. I maggiori guadagni sono stati realizzati da Cipro (+5,4 per le donne e + 4,4 per gli uomini) e dall’Italia (+ 4,5 per le donne e + 5 per gli uomini4.

Per quanto riguarda l’Italia, il vantaggio delle donne in termini di speranza di vita è particolarmente evidente, ma i dati mostrano che il divario nei tassi di mortalità tende da qualche tempo ad attenuarsi e che la salute e la speranza di vita sono migliorate negli ultimi anni “pre-Covid” più per gli uomini che per le donne. E anche in termini di obesità e di patologie cardiovascolari, dove tradizionalmente il vantaggio femminile era evidente, la situazione tende lentamente a riequilibrarsi. Rispetto all’obesità permane una forte differenza tra tassi maschili e femminili. Con l’avvento della pandemia poi, l’evoluzione positiva degli ultimi anni ha subito un freno, che sta annullando, completamente nel Nord e parzialmente nelle altre aree del Paese, i guadagni in anni di vita attesi maturati nell’ultimo decennio.

Ma le disuguaglianze di salute in termini di genere son particolarmente evidenti per quanto riguarda l’equità di accesso alle cure. Fonte particolarmente autorevole da questo punto di vista è l’Eige (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) che calcola a livello europeo l’uguaglianza di genere sulla base di sei aspetti principali (lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute) e due aggiuntivi (la violenza contro le donne e le disuguaglianze intersezionali). Nel Rapporto del 2019 Eige rileva che, «malgrado i risultati ottenuti negli scorsi decenni e le misure adottate dalla Commissione […] i progressi verso un’effettiva uguaglianza sono molto lenti». L’Unione europea risulta più vicina alla parità di genere nei settori della salute (88,1 punti su 100) e del reddito (80,4 punti) rispetto al potere economico e politico (51,9 punti). Le esigenze sanitarie insoddisfatte in Europa risultano più elevate per madri e padri soli (rispettivamente 6% e 8%) e donne e uomini con disabilità (8% e 7% rispettivamente)5.

In Italia, secondo l’Istat, particolarmente critica è la situazione dei ritardi delle cure e quella della rinuncia a prestazioni sanitarie necessarie a causa delle liste di attesa, che nel 2015 risultava riguardasse il 13,2% degli uomini e il 18,4% delle donne. A causa di problemi legati ai trasporti, ritardi e rinunce, sempre nel 2015, riguardavano il 4,1% degli uomini e il 5,7% delle donne. A causa di motivi economici ritardi e rinunce riguardavano il 10,1% degli uomini e il 13,8% delle donne per almeno una prestazione, il 5,5% degli uomini e l’8,4% delle donne per esami e cure mediche, e il 3,7% degli uomini e il 5,2% delle donne per farmaci prescritti. Dati provvisori relativi agli ultimi due anni segnalano un aggravamento di questa situazione a seguito dell’evento pandemico e alle situazioni di saturazione dei posti letto in molti ospedali.

Un aspetto particolare, ma non secondario, del disagio femminile in ambito sanitario è quello del lavoro di cura e assistenza che le donne prestano, in famiglia e nell’ambito della rete familiare allargata, a malati e disabili. Evidenze interessanti da questo punto di vista sono state rilevate dalla Federazione associazioni volontariato oncologico (Favo), che con il suo XI Rapporto sulla condizione dei malati oncologici del 20196 ha dato avvio a un’ampia analisi dei costi economici e sociali della patologia oncologica per i pazienti e le famiglie, condotta attraverso una indagine realizzata nel 2018 su 1.289 pazienti e 1.205 caregiver7,8. Con quel contributo è stata proposta una iniziale rendicontazione rispetto agli aspetti più importanti e generali, in termini di entità e di caratteristiche qualitative, dei costi e dei disagi socio-economici provocati dalla patologia oncologica.

Nel Rapporto successivo9 si è analizzata la condizione lavorativa e sociale dei caregiver che si occupano dei malati oncologici, che risultano dall’indagine essere per il 57% di sesso femminile e per il 43% di sesso maschile, e per la stragrande maggioranza tra 35 e 65 anni. Il 60,2% convive con il paziente e il 22,2% vive molto vicino a lui. Le attività che il caregiver svolge per assistere il malato sono varie e vanno dal trasporto (nel 94,4% dei casi) al supporto morale e psicologico (77,1%), ai rapporti con l’équipe curante (70,3%), alla gestione delle attività quotidiane (53,5%), alle commissioni esterne (52%), al supporto per l’osservanza delle prescrizioni (45,1%) ed economico (33,3%), alle relazioni con altri caregiver e badanti (17,5%), alla cura e all’igiene personale (16%).

Le ore dedicate all’assistenza al paziente sono in media 40 per settimana, ma vengono superate nella maggior parte dei casi, fino ad arrivare a oltre 70 ore a settimana nel 15,2% dei casi. I caregiver che hanno ricevuto forme di supporto economico, o in termini di tempo da altre figure, rappresentano il 20,8% del campione. Per questa quota di aiuti si è trattato di aiuti provenienti da genitori (30,7% dei casi), fratelli o sorelle (28,3%), figli (21,5%), altri parenti (19,5%), mogli, mariti o conviventi (18,3%). Solo nel 4,4% dei casi si è trattato dell’aiuto da parte di un badante o assistente retribuito, nel 3,6% dei casi di una qualche forma di assistenza sanitaria pubblica, nel 2,8% dei casi di aiuti da parte di associazioni di volontariato e nell’1,6% di professionisti sanitari retribuiti.

Strettamente collegata al sovraccarico sociale e di cura che caratterizza la condizione femminile in Italia è anche la questione della denatalità3. Trattando di differenze femminili in termini di salute, infine, non va dimenticato il settore della salute mentale. Da sempre il benessere psichico delle donne è messo a dura prova dal contesto e dalle condizioni di vita. Guardando ai dati epidemiologici relativi al disagio psichico, le statistiche segnalano, oltre all’aumento delle patologie croniche, spesso in forma plurima, anche l’aumento del disagio psicologico e mentale, che si manifesta in particolare tra i giovani sotto i 34 anni, tra gli stranieri, tra le donne, tra i disoccupati e tra i cittadini del Nord del Paese. Il disturbo più diffuso risulta essere la depressione, che coinvolge secondo dati Istat quasi 3 milioni di persone, di cui più della metà donne. Ma anche un anziano su 5 soffre di depressione e aumentano i soggetti che hanno necessità di aiuto psichiatrico o psicologico, soprattutto tra gli over 40.

La solitudine della vita contemporanea all’interno delle città costituisce una delle cause scatenanti del disagio psichico femminile, specie in età anziana. Le donne in Italia sono il 51,3% della popolazione totale e più del 60% degli ultra ottantenni, e al 1° gennaio 2019 c’erano in Italia 14.456 ultracentenari, di cui l’84% era composto da donne. Un terzo delle famiglie italiane è costituito da persone sole e l’incremento, in termini assoluti fra il 2011 e il 2014, è stato del 6,2%. Le persone sole di 60 anni e più sono il 17% del totale, con un incremento del 7,9% nel periodo 2011-2014. Le donne sole con almeno 60 anni sono il triplo degli uomini. Dati consolidati ci segnalano come la solitudine aumenti il rischio di demenza del 40%10.

La salute dei minori

I principi di uguaglianza e di non discriminazione sono di rilevante importanza quando si considerino non solo le persone o le comunità o i gruppi sociali particolarmente svantaggiati, ma anche quando si affronta il tema dei minori.

Riguardo a questi ultimi vi sono purtroppo ancora ampie testimonianze del fatto che, anche nelle nostre società occidentali, i loro diritti e i loro bisogni sono spesso trascurati, o peggio, negati. Impegnarsi perché i diritti dei minori siano rispettati ha pertanto profonde implicazioni per il loro status: questo è massimamente evidente nel settore sanitario dove le decisioni e le azioni dei professionisti impattano sulla vita dei minori in modo profondo e intimo.

La Convenzione delle Nazioni unite sui diritti del fanciullo (UN Convention on the rights of the child)11 pone un chiaro obbligo per i decisori e i professionisti sanitari di sviluppare politiche e prassi cliniche in conformità con i diritti umani dei minori. L’elemento di novità proposto dalla Convenzione è costituito dal riconoscimento che i minori sono soggetti portatori di diritti che impongono obblighi agli adulti affinché questi ne garantiscano il rispetto e il concreto godimento.

I principi enunciati nella Convenzione forniscono un quadro complessivo che permette di sviluppare la cura e l’assistenza dei minori nelle diverse aree dei sistemi sanitari. In particolare l’art. 12 afferma che tutti i minori in grado di esprimere una propria opinione hanno il diritto di farlo liberamente su tutte le questioni che li riguardano e che questa sarà tenuta nel dovuto conto in relazione alla loro età e al loro grado di maturità, soprattutto in relazione al tema del consenso informato ai trattamenti. Un altro principio altrettanto centrale è affermato nell’art. 3, in cui si sancisce che in tutte le situazioni in cui un minore è coinvolto, il suo migliore interesse deve godere di una considerazione primaria.

È importante ribadire che l’investimento che oggi la società fa sui minori costituisce la strategia più efficace per garantire a sé stessa un futuro adeguato alle migliori aspettative possibili2. È evidente che tutta la progettualità per il tempo a venire di cui oggi siamo capaci, ancora una volta dipenderà dalla sensibilità e dal grado di evoluzione culturale di chi si deve impegnare a rispettare i diritti dei minori oggi12.

Il rispetto del diritto alla salute dei minori non può essere percepito come un’opzione paternalistica o come espressione di una qualche forma di beneficenza. Esso genera, come nel caso degli adulti, obblighi e responsabilità che devono essere attentamente considerati, onorati e recepiti nella cultura di tutti i professionisti sanitari in primo luogo e dell’intera comunità.

La salute degli immigrati: opportunità e criticità di una situazione in evoluzione

La buona salute del cittadino è il risultato di un insieme di elementi tra loro correlati, e tra questi il diritto alla tutela della salute degli immigrati. Spesso si parla dei “nostri diritti” alla salute e non si pensa che, in un mondo interconnesso, questi includono, e anche in certa misura dipendono, da quella parte di umanità che vive al nostro fianco, ma è invisibile perché non regolarizzata.

Gli immigrati regolarizzati di prima e seconda generazione, a volte diventati cittadini, hanno, secondo il sistema giuridico, uguali diritti alla tutela della loro salute.

Il problema si pone invece per i non regolarizzati, o in attesa di documenti, di cui si ignorano i numeri e anche i volti. Spesso si tratta di persone che lavorano illegalmente nei campi o si prendono cura dei nostri figli o dei nostri anziani, o gestiscono piccoli negozi aperti sino alle ore più tarde della sera, a cui facciamo ricorso in emergenza per la mancanza di qualche articolo. Non possedere un documento di residenza valido vuol dire non poter studiare e soprattutto non poter ricorrere alle cure sanitarie ordinarie, al di fuori del pronto soccorso.

Il Covid ha visto crescere a dismisura i ricoveri per patologie acute, ma una volta finita l’emergenza pandemica sono “svanite” anche le persone che ne erano state colpite. Di conseguenza non è stato possibile monitorare e curare le patologie innescate dalla pandemia. Questo fatto ha evidenziato una serie di problemi già esistenti, ma per lo più ignorati, che impattano sul benessere di tutta la comunità. Il benessere di uno riguarda tutti, sia perché siamo tutti degni di godere di eguali diritti in quanto esseri umani, sia perché in un mondo strettamente interconnesso il benessere degli altri riguarda ciascuno di noi.

Alcune considerazioni aiutano a capire il problema. Si è fatto riferimento a quanto scrive Foad Aodi, presidente dell’Associazione medici stranieri in Italia (Amsi), che interviene sulla tematica con altre associazioni13, e a quanto detto da Hassan Sabri, presidente dell’Associazione medici arabi in Italia e dell’Associazione Arabitalia, e dalla pediatra Belqies Khaled. Aodi scrive in un comunicato dell’Associazione online che la mancata universalità dell’intervento sanitario mette a rischio la salute di tutti i cittadini, perché occulta possibili problematiche sanitarie, incrementando inoltre le sofferenze e le disuguaglianze sociali. Inoltre, in un altro comunicato il presidente Aodi avverte del rischio della forte emigrazione di medici e infermieri (e quindi non solo di calciatori) in Arabia Saudita, dove stanno aumentando gli organici del sistema sanitario con offerte da capogiro.

Molti medici originari di altri Paesi, laureatisi in Italia negli anni ’80, che lavorano, o hanno lavorato a lungo, nel Servizio sanitario nazionale sono testimoni delle trasformazioni avvenute con il diversificarsi dei luoghi di origine degli immigrati e con il mutare delle loro condizioni di salute. Il cambiamento della composizione dei migranti, dovuto alla crescita dei conflitti e alla crisi climatica, si è combinato con il declino del nostro welfare e soprattutto con la minore sensibilità verso principi universali quali l’uguaglianza dei diritti e in particolare del diritto alla salute per tutti.

La presenza di medici di origine straniera nel servizio pubblico costituisce un arricchimento di competenze per il nostro Paese, ma apre anche altre questioni, come la loro accettazione. Sabri riferisce che i pazienti, sovente, si inquietano inizialmente alla vista di uno straniero ma, in seguito, grazie all’attenzione e alle cure ricevute, si passa dal pregiudizio a un rapporto di fiducia, con ricadute positive per tutta la comunità e il sistema sanitario. Da un altro punto di vista, per gli immigrati, avere un medico che parli o almeno capisca la propria lingua, è un grande vantaggio perché li aiuta a spiegare le loro patologie.

La difficoltà principale che incontrano gli immigrati che non hanno la residenza è la continuità nella cura. Infatti, ricorrono alle cure mediche ospedaliere soltanto in caso di emergenza, ma dopo, anche a causa del gap culturale e linguistico, con più fatica e difficoltà proseguono le cure, particolarmente quando intervengono su patologie croniche. Inoltre, la carenza di informazioni sulle opportunità offerte dalla sanità pubblica è per lo più all’origine della mancanza di cure preventive delle malattie dei bambini.

Il numero degli immigrati in Italia è stabile da diversi lustri, ma, crescendo la diversità dei Paesi di provenienza, come si è detto, cambiano le patologie, e sovente i medici hanno di queste una minore esperienza.

Le conseguenze degli attentati dell’11 settembre 2001 hanno scatenato conflitti che hanno sconvolto il destino di milioni di persone, estendendo le aree di guerra sino a raggiungere l’area mediterranea. La guerra al terrore non ha soltanto causato l’emigrazione afghana, ma ha visto estendere il conflitto nell’area irachena prima e siriana poi, e, da lì – con l’emergenza dell’Isis –, ha raggiunto l’area subsahariana. Il fenomeno terroristico ha riguardato anche attentati nei Paesi occidentali con il conseguente accrescimento dei pregiudizi e dell’ostilità verso i musulmani. Questa è anche una delle cause della resistenza di molti, soprattutto tra i non regolarizzati, a rivolgersi al sistema sanitario pubblico, con gravi conseguenze per esempio per quanto riguarda il controllo delle dinamiche del Covid. La pandemia, riducendo l’offerta di lavoro, da una parte ha frenato l’arrivo degli immigrati ma, dall’altra, la crisi economica nei Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo ne ha aggravato la complessiva situazione sanitaria e dunque in generale lo stato di salute della popolazione. Se i tagli al welfare, sommati alle nuove esigenze di intervento portate dalla pandemia, hanno peggiorato il nostro sistema sanitario, nella maggior parte dei Paesi del Nord Africa l’impatto è stato molto più drammatico. Nei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo, l’apertura al mercato occidentale, con la conseguente ricerca di competitività, e la creazione di zone di investimenti industriali esente da tasse hanno causato una flessione delle entrate fiscali e di conseguenza l’indebolimento del sistema di assistenza sociale, primo fra tutti quello sanitario che è stato rapidamente privatizzato. A questi fattori di debolezza, si sono aggiunti l’impatto del Covid e i dissesti climatici che hanno causato l’inaridimento di terre, sovente già abbandonate a causa delle guerre.

Il fenomeno migratorio ha subito un’incremento e, con la crisi del sistema di accoglienza generata dai provvedimenti governativi, i centri di prima accoglienza si sono trovati improvvisamente di fronte all’aumento degli arrivi. La carenza di personale e di materiale di primo soccorso aggravano ulteriormente la già drammatica situazione.

Secondo i medici intervistati il primo problema è la barriera linguistica che, unita all’ignoranza del funzionamento del nostro sistema sanitario diffusa tra gli immigrati, rende particolarmente complicato anche un primo intervento. Costoro inoltre, per lo più, non solo conoscono poco o niente le proprie patologie, ma non riescono neanche a spiegarne i sintomi. Inoltre, è anche complicato, da parte del medico, spiegare le ragioni della necessità e delle modalità della cura. La paura, la diffidenza verso le cure, le difficoltà economiche completano il quadro. Ne consegue che, anche per chi riesce ad avere un documento che gli consente di vivere nel nostro Paese, gli ostacoli permangono: molti stranieri, come accade anche per qualche italiano, non sono in grado di seguire l’iter burocratico necessario per accedere al sistema sanitario. La barriera non è soltanto logistica, ma soprattutto linguistica, e talvolta culturale. Si pensi per esempio a molte donne che hanno bisogno del marito o addirittura dei figli per farsi accompagnare dal medico. Infatti, molte immigrate provengono dalle aree rurali e temono il contatto con un mondo che non comprendono e che percepiscono come ostile nei loro riguardi. I mediatori culturali per lo più rimangono i familiari, perché quelli del sistema di accoglienza sono pochi, pur essendo indispensabili. Questi ultimi restano comunque il migliore tramite tra le strutture sanitarie e i pazienti sia per superare la barriera linguistica sia per fare fronte alla complessa macchina organizzativa della sanità, ma i budget delle strutture locali sono limitati e si intersecano anche con le scarse disponibilità delle famiglie che non si possono permettere cure lunghe e costose.

In assenza del mediatore, può supplire, quando c’è, il medico che conosce la lingua, per esempio l’arabo, capace di spiegare e prescrivere in lingua la posologia e la terapia, ma rimane il problema del difficile percorso burocratico.

Tra gli immigrati non mancano medici e personale sanitario, ma chi proviene dall’estero fa molta fatica a vedere riconosciuti i propri titoli, pure in un Paese che vede decrescere il personale medico. Le donne-medico straniere sono ancora poche, ma danno un contributo importante perché aiutano a superare le barriere culturali. Come riferisce Belqies Khaled, le donne che provengono da alcuni Paesi restano a casa e hanno poche occasioni per praticare la lingua italiana, e pertanto hanno bisogno dei figli o dei mariti (che spesso devono chiedere un permesso dal lavoro per accompagnarle) per poter comunicare con un medico. Le donne, infatti, sono le prime vittime dell’ignoranza sia sul piano linguistico sia per ciò che concerne la cultura di base dell’igiene; loro crescono i figli che con loro pagano le conseguenze della mancata conoscenza dei fondamenti della cura del corpo. Per quanto concerne le bambine, uno dei problemi più drammatici, tra le popolazioni di origine nilotica, è l’infibulazione che ancora oggi in Italia è praticata clandestinamente e con strumenti inadeguati, che causano gravi danni ai giovani corpi.

Le associazioni caritatevoli, dalla Caritas a Sant’Egidio e al Centro Astalli, solo per menzionare le più attive, contribuiscono in parte a sopperire alle tante lacune ed esigenze. I dati degli ultimi anni segnalano che nei centri di accoglienza i nuclei più critici sono gli stranieri, per la maggior parte richiedenti protezione internazionale, provenienti dai Centri di accoglienza straordinaria (Cas) del Sud Italia.

Un tema emergente tra gli immigrati è il disagio psichico a cui fanno fronte il Poliambulatorio Caritas e/o il Progetto Ferite Invisibili; in alternativa essi vengono orientati verso altri servizi competenti. Le persone che presentano una situazione complessa di disagio psichico, talvolta unito all’uso di droghe, avrebbero bisogno di una corretta e precoce valutazione e di una tempestiva presa in carico da parte del Servizio sanitario nazionale che, per motivi burocratici quali la mancanza della residenza, non può assolvere a questa funzione. In passato, a Roma, è stato attivo il Progetto Fari (Formare assistere riabilitare inserire), che si poneva l’obiettivo di rispondere ai bisogni di salute psico-fisica dei richiedenti e titolari di protezione internazionale attraverso la sperimentazione di modelli di intervento sanitario innovativi e integrati.

Il Centro di ascolto stranieri svolge colloqui di screening, e quindi, individuato il problema, le persone vengono inviate per una presa in carico al Poliambulatorio Caritas oppure vengono orientate verso altri servizi competenti. Una corretta e precoce analisi e valutazione preliminare consentono la tempestiva presa in carico, indispensabile anche per il buon esito del percorso di integrazione. Non è raro, infatti, che un disturbo da stress post-traumatico non diagnosticato sia causa di ripetuti e prolungati fallimenti di un titolare di protezione nel suo percorso d’integrazione/autonomia.

In conclusione, sarebbe bello immaginare nel nostro Paese una nuova politica di accoglienza e una sanità veramente universale, aperta a tutti, in un sussulto di gratitudine nei confronti degli eredi sia di Avicenna e Averroè, a cui tanto deve la medicina moderna, sia di coloro che per primi introdussero gli ospedali in Andalusia. Dobbiamo anche ricordare che nell’Italia meridionale si è sviluppato lo studio e l’insegnamento della medicina grazie ai medici arabi della corte di Federico II, rafforzando la Scuola medica salernitana, che si fondava già sulla confluenza tra la tradizione greco-latina e le nozioni acquisite dalle culture araba ed ebraica, che sono all’origine della medicina europea e delle facoltà universitarie di medicina.

Contributo degli autori: C.C. ha redatto la stesura dei paragrafi: “Gli anziani, le cronicità, il territorio”, “La salute delle donne”; G.R.G: “La salute dei minori”; F.M.C.: “La salute degli immigrati: opportunità e criticità di una situazione in evoluzione”.

Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di interessi.

Bibliografia

1. Censis. L’Italia e le dinamiche demografiche. Scenari e strumenti per affrontare il futuro. Aprile 2021. Disponibile su: https://bit.ly/3AxOnrP [ultimo accesso 24 luglio 2023].

2. Collicelli C, Trabucchi M (a cura di). La vita degli anziani nel 2030. Tra medicina personalizzata, progresso tecnologico, ambiente da trasformare. L’Arco di Giano 2022; 110.

3. Ministero della Salute e Istat. Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio sanitaria per la popolazione anziani. Carta per i diritti delle persone anziane e i doveri della comunità delle persone anziane. In: Paglia V. L’età da inventare, la vecchiaia fra memoria e eternità. Segrate, Milano: Edizioni Piemme, 2021.

4. Collicelli C. Women and health in Italy: steps taken and challenges to be faced. Ital J Gender-Specific Med 2022; 8: 112-22.

5. Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere. Indice sull’uguaglianza di genere. Disponibile su: https://bit.ly/3NlS4bE [ultimo accesso 24 luglio 2023].

6. FAVO. Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici. Edizioni XI, XII. Quotidiano Sanità 2019-2020. Disponibile su: https://bit.ly/3Hei9W7 [ultimo accesso 24 luglio 2023].

7. De Lorenzo F, Collicelli C, De Lorenzo F, et al. Indagine sui costi sociali ed economici del cancro nel 2018. Rapporto Favo XI edizione, 2019. Disponibile su: https://bit.ly/3n93chn [ultimo accesso 24 luglio 2023].

8. Collicelli C, Durst L, De Lorenzo F, et al. Condizione lavorativa dei malati oncologici e disagio economico e psicologico. Rapporto Favo edizione XII, 2020. Disponibile su: https://bit.ly/3nayRiy [ultimo accesso 24 luglio 2023].

9. Collicelli C, Durst L, De Lorenzo F, et al. Condizione lavorativa e disagio economico dei care-giver dei malati oncologici. Rapporto Favo edizione XIII, 2021. Disponibile su: https://bit.ly/3AR9MMZ [ultimo accesso 24 luglio 2023].

10. Fleischmann M, Xue B, Head J. Mental health before and after retirement-assessing the relevance of psychosocial working conditions: the Whitehall II Prospective Study of British Civil Servants. J Gerontol B Psychol Sci Soc Sci 2020; 75: 403-13.

11. UNICEF. Convention on the Rights of the Child. Disponibile su: https://uni.cf/2yFQJEY [ultimo accesso 24 luglio 2023].

12. Santos-Pais M. A Human rights conceptual framework for UNICEF. Disponibile su: https://bit.ly/3lPmfwk [ultimo accesso 24 luglio 2023].

13. Aodi F. Immigrazione irregolare. Amsi: da anni si stanno curando i sintomi e gli effetti collaterali; urge una conferenza internazionale euro-mediterranea. 12 aprile 2023. Disponibile su: https://bit.ly/3UTWIPS [ultimo accesso 24 luglio 2023].

Note

a Per esempio il Progetto di Coordinamento nazionale delle politiche sull’invecchiamento attivo indetto dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri e dall’Irccs Inrca - Istituto nazionale di ricovero e cura per anziani. Tra i fini del progetto, di durata triennale (da giugno 2019 a marzo 2022), la creazione di un modello di indice di invecchiamento attivo per misurare il livello di invecchiamento a livello geografico, i cui dati dovrebbero essere disponibili per le Regioni come strumento di supporto e possibile indirizzo.